Il caso di "Europa centrale!
03/05/2025
Il cinema italiano giace spesso in una situazione di stallo, tanto produttivo quanto creativo. Se da una parte impera l’atteggiamento insaziabile dello spettatore (sempre meno da sala, sempre più da piattaforma), dall’altra il produttore si guarda bene dall’assumersi il pernicioso rischio imprenditoriale di sovvenzionare opere che non abbiano un ritorno d’investimento già stampigliato sopra all’atto creativo. Parafrasiamo: oggigiorno una parte del cinema italiano non vuole rischiare troppo e tira a sé una coperta economico - finanziaria fin troppo corta.
Se poi tiriamo in ballo le opere prime, guai! Non è riservata grande attenzione nei confronti dei cineasti esordienti che non siano figli d’arte o figli di un produttore. Chi esce da una scuola di cinema finisce con l’arrovellarsi sulle possibili strategie di rottura di questa diffusa indifferenza: autopromuovendosi, sovvenzionando tour in sale pressoché deserte, contando sull’affetto di pochi cinefili incalliti venuti a conoscenza, per vie traverse, di questi e delle loro fatiche cinematografiche.
E’ il caso, per esempio, di un regista triestino classe, ’87, che risponde al nome di Gianluca Minucci, e che è fuori nelle (pochissime) sale con il suo primo lungometraggio: “Europa Centrale”. Questo cineasta riprende un genere molto interessante, come quello dello spy movie ambientato interamente in un treno (alla Kenneth Branagh), ma lo adorna con marcati tocchi noir e orrorifici rendendolo un’opera grottesca e intrigante.
“Europa Centrale” evoca uno tra i più classici thriller politici (una coppia di comunisti con una missione speciale in fuga da due agenti dell’OVRA) ma con una drammaturgia inconsueta e con una struttura fortemente teatrale. Ciò che dapprima fa storcere il naso ma che via via diventa la chiave di lettura del film è proprio l’assente componente interlocutoria di tutti i dialoghi scritti da Minucci. Questo approccio sistematico mette in risalto il talento degli attori presenti sul “palcoscenico filmico” e tra loro comprimari (Paolo Pierobon, Tommaso Ragno, Catherine Bertoni De Laet, Levent Molnàr e la giovanissima Angelica Kazanova). E’ indubbio che l’imprinting drammaturgico adottato sia straniante, alienante, lavori per sottrazione e quindi conceda molti pochi punti di appiglio allo spettatore. E’ uno di quei film nei quali bisogna “entrarvi” più che “farsi avvolgere”.
Quello che però lascia folgorati è la componente stilistico – formale del film, che passa per una scelta di formato molto stretto e asfissiante, per un montaggio freddo e chirurgico e per un lavoro mostruoso compiuto con riferimento al posizionamento e al gioco di luci e alla color correction. La fotografia è algida, mefistofelica e trascina chi osserva la scena in un vortice discendente negli inferi. Quello che colpisce è l’approccio maturo e consapevole dei propri mezzi di un regista esordiente come Gianluca Minucci, che ha saputo ricreare un’atmosfera gotica e terrifica in uno dei luoghi che meno vi si presterebbe: l’interno di un treno degli anni ’40. Vi sono alcune sequenze che portano a gridare al “miracolo!” in termini di studio delle inquadrature, di posizionamento della machina da presa, di giochi di luci e ombre, di scelta delle lenti utilizzate.
Si badi: non si vuole con ciò encomiare un film che è il solito bell’involucro vuoto privo del nulla al suo interno. Qui, la forma è davvero il contenuto e, diventando coprotagonista, racconta a sua volta di quel clima di irrazionalismo, di confusione e di angoscia politici propri degli anni ’40 del ‘900.
Il film, prodotto da Danubio Film, Wildside e M74 in collaborazione con Rai Cinema, è stato presentato in anteprima mondiale nel dicembre del 2024 in concorso al Torino Film Festival.
Enrico Riziero
Se poi tiriamo in ballo le opere prime, guai! Non è riservata grande attenzione nei confronti dei cineasti esordienti che non siano figli d’arte o figli di un produttore. Chi esce da una scuola di cinema finisce con l’arrovellarsi sulle possibili strategie di rottura di questa diffusa indifferenza: autopromuovendosi, sovvenzionando tour in sale pressoché deserte, contando sull’affetto di pochi cinefili incalliti venuti a conoscenza, per vie traverse, di questi e delle loro fatiche cinematografiche.
E’ il caso, per esempio, di un regista triestino classe, ’87, che risponde al nome di Gianluca Minucci, e che è fuori nelle (pochissime) sale con il suo primo lungometraggio: “Europa Centrale”. Questo cineasta riprende un genere molto interessante, come quello dello spy movie ambientato interamente in un treno (alla Kenneth Branagh), ma lo adorna con marcati tocchi noir e orrorifici rendendolo un’opera grottesca e intrigante.
“Europa Centrale” evoca uno tra i più classici thriller politici (una coppia di comunisti con una missione speciale in fuga da due agenti dell’OVRA) ma con una drammaturgia inconsueta e con una struttura fortemente teatrale. Ciò che dapprima fa storcere il naso ma che via via diventa la chiave di lettura del film è proprio l’assente componente interlocutoria di tutti i dialoghi scritti da Minucci. Questo approccio sistematico mette in risalto il talento degli attori presenti sul “palcoscenico filmico” e tra loro comprimari (Paolo Pierobon, Tommaso Ragno, Catherine Bertoni De Laet, Levent Molnàr e la giovanissima Angelica Kazanova). E’ indubbio che l’imprinting drammaturgico adottato sia straniante, alienante, lavori per sottrazione e quindi conceda molti pochi punti di appiglio allo spettatore. E’ uno di quei film nei quali bisogna “entrarvi” più che “farsi avvolgere”.
Quello che però lascia folgorati è la componente stilistico – formale del film, che passa per una scelta di formato molto stretto e asfissiante, per un montaggio freddo e chirurgico e per un lavoro mostruoso compiuto con riferimento al posizionamento e al gioco di luci e alla color correction. La fotografia è algida, mefistofelica e trascina chi osserva la scena in un vortice discendente negli inferi. Quello che colpisce è l’approccio maturo e consapevole dei propri mezzi di un regista esordiente come Gianluca Minucci, che ha saputo ricreare un’atmosfera gotica e terrifica in uno dei luoghi che meno vi si presterebbe: l’interno di un treno degli anni ’40. Vi sono alcune sequenze che portano a gridare al “miracolo!” in termini di studio delle inquadrature, di posizionamento della machina da presa, di giochi di luci e ombre, di scelta delle lenti utilizzate.
Si badi: non si vuole con ciò encomiare un film che è il solito bell’involucro vuoto privo del nulla al suo interno. Qui, la forma è davvero il contenuto e, diventando coprotagonista, racconta a sua volta di quel clima di irrazionalismo, di confusione e di angoscia politici propri degli anni ’40 del ‘900.
Il film, prodotto da Danubio Film, Wildside e M74 in collaborazione con Rai Cinema, è stato presentato in anteprima mondiale nel dicembre del 2024 in concorso al Torino Film Festival.
Enrico Riziero