Il cinema che sogna il proprio riflesso
14/12/2025

C’è un momento, mentre guardiamo un film, in cui la realtà sembra tremare: il confine tra ciò che esiste e ciò che è immaginato, tra la percezione e l’illusione, si sfalda come un vetro sottile. Il cinema contemporaneo, dal post-moderno in poi, sembra abitare proprio in quello spazio instabile: un luogo in cui la realtà non è più il terreno sicuro su cui camminiamo, ma un sogno che il cinema fa di sé stesso. 

Da Mulholland Drive a Beau Is Afraid, passando per Inception, Synecdoche - New York, Poor Things e The Matrix Resurrections, la pellicola si fa specchio e riflesso, illusione e verità, sospendendo lo spettatore in un limbo in cui il reale è sempre messo in crisi.

David Lynch, con Mulholland Drive, ci consegna uno dei primi grandi enigmi post-moderni sullo schermo: una Los Angeles che non è più città ma sogno e incubo insieme, dove i personaggi si sdoppiano e le identità si confondono. Non c’è un solo filo narrativo, ma una ragnatela di percezioni, ricordi e desideri che coesistono e si contraddicono. Qui, la realtà diventa un oggetto fragile, un costrutto instabile che può crollare in un lampo. È il cinema che ci mostra la sua capacità più profonda: rappresentare non solo il mondo, ma la mente che lo osserva.

Se Lynch sceglie questo tipo di narrazione, Christopher Nolan in Inception fa qualcosa di molto diverso e molto più complesso: esplora il sogno dentro il sogno, la stratificazione della coscienza come architettura fragile. Ogni livello onirico ha le proprie regole, eppure tutti si intrecciano con la logica della realtà percepita. Il tempo si dilata, la gravità si piega e la distinzione tra reale e virtuale diventa un enigma impossibile da risolvere. Il cinema, qui, non è più solo immagine in movimento: è macchina che esplora la mente stessa, simulando realtà che si auto-generano e si autodistruggono.

Charlie Kaufman porta invece questa dissoluzione a un livello quasi metafisico. In Synecdoche - New York, il teatro diventa vita e la vita diventa teatro: un regista costruisce una replica infinita della propria esistenza, popolata da attori che interpretano se stessi e altri, in un loop che non ha confini. Ogni spazio scenico diventa un microcosmo del reale. Eppure ogni microcosmo rivela che il reale è solo un costrutto fragile, un sogno che il cinema proietta per dar senso alla propria finitezza.

In Beau Is Afraid, Ari Aster riprende questo concetto in chiave moderna, trasformando l’angoscia esistenziale in un labirinto visivo in cui la mente del protagonista plasma e deforma la realtà circostante, fino a farla collassare in pura percezione soggettiva.

Anche autori come Yorgos Lanthimos (Poor Things) e Lana Wachowski (The Matrix Resurrections) continuano questa riflessione, mostrando che la realtà non è mai neutra. Nel mondo di Lanthimos, le identità si ricreano continuamente, i desideri si scontrano con la memoria e il corpo stesso diventa campo di sperimentazione per ciò che chiamiamo "vero". Wachowski, invece, ripensa il mito del Matrix come una simulazione che non è più solo controllo esterno ma dialogo interiore, riflessione sul cinema stesso come specchio della coscienza, dove il confine tra reale e virtuale è indecifrabile.

E c’è un filo rosso che unisce tutti questi film: il cinema non si limita a raccontare storie ma riflette su cosa significhi esistere nel mondo e percepirlo. È un medium consapevole di sé, che sogna il proprio riflesso. Ogni pellicola diventa allora laboratorio ontologico, in cui il pubblico viene invitato a dubitare del proprio sguardo, a sospendere il giudizio tra reale e immaginario. È il cinema come esperienza cognitiva, come sogno condiviso, come specchio che mostra. Ma non il mondo: la complessità del percepirlo.

Forse il cinema contemporaneo ci insegna una verità semplice ma radicale: non esiste realtà senza percezione. E non esiste verità senza riflessione. Guardare questi film significa accettare di camminare su un filo sottile, sospesi tra ciò che è e ciò che appare, tra ciò che ricordiamo e ciò che desideriamo. Il cinema che sogna il proprio riflesso non ci offre risposte definitive, ma ci regala la libertà di dubitare, di esplorare e di sognare a nostra volta. E in quell’istante, tra immagini e specchi, il reale si dissolve. E ciò che resta è la meraviglia di un mondo che il cinema ha deciso di sognare.


Carmen Apadula

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