Il cinema del dolore: l’elaborazione interiore del trauma
17/07/2025

Ci sono film che si muovono con lentezza. Che sembrano esitare, fermarsi sul bordo del silenzio. Film che scelgono di non raccontare il dolore come evento, ma come stato dell’essere, come condizione permanente dell’anima. Non c’è spettacolo, non c’è dramma nel senso canonico del termine. C’è il trauma, la perdita, il lutto. E c’è il cinema che si fa specchio di questi vuoti, che li osserva con discrezione, che li abita senza pretendere di offrire consolazione. Un cinema che sa che non tutto può essere raccontato, e che proprio per questo prova a restare, a respirare il tempo sospeso delle esistenze infrante.

Non è un caso che questi film sembrino sempre trattenere il respiro. Come se il dolore, quello autentico, non potesse essere urlato ma solo sussurrato, attraversato con passo incerto. Il lutto non si presta alla narrazione lineare. Il lutto spezza il tempo, deforma la percezione, frantuma lo spazio. Diventa uno stato interiore, una stanza chiusa da cui non si riesce a uscire. Ed è in questa stanza che il cinema sceglie di entrare, con rispetto, con delicatezza, senza mai forzare la mano.

La perdita come paesaggio interiore

In film come Manchester by the Sea, Rabbit Hole, Pieces of a Woman e The Son, il lutto non è mai solo ciò che accade: è ciò che rimane. È il paesaggio desolato che si estende dentro i personaggi, è il vuoto che si spalanca e che il tempo non riesce a colmare. Tutto si ferma, tutto si ripete, tutto ritorna come un’onda che non trova riva.

In Manchester by the Sea, Kenneth Lonergan disegna il ritratto di un uomo che ha smesso di vivere nel momento esatto in cui ha perso tutto. Lee Chandler non cerca redenzione, non vuole compassione. Vive meccanicamente. Lavora, beve, osserva il mondo da dietro un vetro opaco. Ogni gesto è intriso di un dolore muto, ogni parola è trattenuta, ogni incontro è una ferita che si riapre. Il passato ritorna in forma di flashback. Ma non per chiarire, solo per ribadire che certe colpe non si esauriscono, che certe tragedie si sedimentano nella carne e lì rimangono, inquinate dal tempo. La scena del confronto finale con Randi, l’ex moglie, è emblematica: due persone spezzate che si parlano senza riuscire a toccarsi, che si chiedono scusa sapendo che non esiste perdono sufficiente.

Anche Rabbit Hole si muove nella stessa direzione. Qui il lutto si declina nella coppia, nel conflitto muto tra chi vuole dimenticare e chi vuole ricordare. Nicole Kidman e Aaron Eckhart incarnano due dolori incompatibili, due percorsi divergenti nella stessa casa, negli stessi spazi, nelle stesse ore vuote. Lei cancella le tracce, lui si aggrappa ai ricordi. Lei cerca nel ragazzo che ha investito il figlio una forma di pacificazione impossibile, lui cerca in un video l’illusione che tutto possa essere ancora com’era. E il dolore, intanto, si stratifica, si incattivisce, si fa abitudine. Non c’è catarsi, non c’è risoluzione. Solo una mano che stringe un’altra mano, in silenzio, nel giardino di casa. Un piccolo gesto che non consola ma dice: “Siamo ancora qui”.

In Pieces of a Woman il lutto passa per il corpo, per la sua lacerazione, per la sua solitudine. Il piano sequenza iniziale del parto (lunghissimo, crudele, necessario) ci introduce in un trauma che sarà poi elaborato in modo intimo, privato, quasi invisibile agli altri. La protagonista attraversa il dolore in una solitudine assoluta, respingendo chiunque tenti di offrirle risposte, chiudendosi in se stessa, nel proprio silenzio, nei propri riti minimi. Le mele che cadono, il ponte che non si conclude, i semi che germogliano: tutto diventa metafora di un tempo che non guarisce ma trasforma. Di un corpo che non dimentica ma continua a esistere, a fatica.

The Son di Florian Zeller porta questo discorso in un’altra direzione, mostrandoci il lutto non come evento già accaduto, ma come spada di Damocle. Come paura che si fa carne, come trasmissione silenziosa tra generazioni. Il dolore si muove tra padri e figli, si insinua nelle crepe degli affetti, si manifesta come incapacità di ascoltare, di capire, di accettare la vulnerabilità dell’altro. Il trauma diventa qui una catena invisibile che lega, che soffoca, che ripete se stesso sotto forme diverse. Anche qui non c’è soluzione, solo un grido che si perde nel vuoto.

Il tempo del lutto: ciclico, frammentato, indecifrabile

Il lutto altera il tempo. Lo rompe, lo rallenta, lo congela. I giorni non scorrono più: si ripetono, si inceppano, si sovrappongono. In questi film il tempo non è mai lineare: è fatto di ritorni improvvisi, di memorie che affiorano, di spazi che sembrano sempre uguali. Il presente non esiste più: c’è solo un passato che si rifiuta di svanire, e un futuro che appare inaccessibile.

Manchester by the Sea è costruito su questa frattura temporale. I flashback non spiegano, ma mostrano la natura ciclica del trauma. Il presente di Lee è invaso dal passato, ogni angolo della città è un ricordo che lacera. Non c’è movimento possibile: c’è solo il ritorno.

In Rabbit Hole il tempo è claustrofobico: la casa è sempre uguale, i gesti sono ripetuti, le conversazioni si arrotolano su se stesse. Il dolore non ha una fine, solo variazioni minime.

Pieces of a Woman lavora su simboli più espliciti: il ponte che non si completa, le mele che cadono, i semi che germogliano. Il tempo qui non consola: semplicemente, continua. E in questo suo continuo si porta dietro i frammenti del trauma.

Questi film appartengono a un cinema che ha scelto di sottrarsi al racconto convenzionale. Non cercano soluzioni, non offrono morale. Raccontano che il dolore è un fatto privato, che il lutto è un’esperienza irriducibile, che ogni tentativo di normalizzazione è fallimentare. È un cinema che ascolta, che osserva, che lascia spazio ai silenzi, ai vuoti, ai gesti piccoli.

La regia si fa essenziale: niente musica invadente, niente lacrime facili, niente colpi di scena. Solo lo scorrere faticoso della vita, lo spazio che si restringe, il corpo che resiste. È un cinema che guarda negli occhi l’inconsolabile e che accetta di non avere risposte.

In fondo, questi film ci dicono che esistono dolori che non si superano. Esistono assenze che non si colmano. Esistono traumi che non si sciolgono. Ma tutto questo non è necessariamente disperazione. È, piuttosto, il riconoscimento della fragilità umana. Della sua vulnerabilità, della sua resistenza silenziosa.

C’è una dignità profonda in chi continua a vivere pur sapendo che nulla sarà più come prima. In chi accetta di abitare il dolore senza trasformarlo in spettacolo. In chi sceglie il silenzio come unica forma possibile di parola.

Questo cinema non insegna a guarire. Insegna a stare. A restare. A riconoscere che anche nel lutto più cupo c’è un barlume di umanità che non si spegne.

Perché esistono dolori che non chiedono di essere risolti. Solo di essere ascoltati.



Carmen Apadula


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