Il cinema di Béla Tarr: le vostre analisi!
20/12/2021
Durante il workshop dedicato al cinema di Béla Tarr abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi sul cinema di questo autore leggendario: ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Le armonie di Werckmeister e la perdita della meraviglia
di Gaia Brambilla
“Solo il Principe vede tutto, e il tutto non esiste, solo rovine. Ciò che la gente costruisce e costruirà e ciò che fa o che farà è solo inganno, menzogna (..) bisogna ridere di ciò che pensano. Pensano perché hanno paura. E chi ha paura non sa nulla“

In una cittadina ungherese la già difficile situazione precipita all’arrivo di un circo. Ma la vera disfatta è la perdita della capacità di meravigliarsi del protagonista, che soccombe al ripetersi della Storia e dei suoi orrori. Il postino Janos è capace di provare meraviglia e trasmetterla ad altri: nello struggente inizio gli avventori ubriachi di un bar cercano di trattenersi dopo l’orario di chiusura affinché possa far loro vedere quello che succederà durante l’eclissi. E lui mette in scena un sistema solare umano, goffo, poetico ed efficace ad un tempo, comunicando ai suoi ascoltatori rapiti la magia di quello che sta per accadere. ”Lo sentite anche voi?”: terribile e bellissimo, una spiegazione dell’immortalità per persone semplici, li riesce a condurre in un luogo dove regnano ”la stabilità, la serenità, la pace e il vuoto,nell’oscurità percepiamo un movimento generico, siamo testimoni di avvenimenti straordinari ma non ce ne rendiamo conto”, una rappresentazione qui e ora di un evento superiore, in un tramonto spaventoso ed inconcepibile, gli animali si nascondono e ammutoliscono ma Janos non esita a porsi domande anche difficili e spaventose su quello che avverrà (le montagne si sposteranno?Il cielo cadrà? La terra sprofonderà? Non possiamo saperlo). Qui c’è già una prima interruzione della meraviglia: il barista li riporta alla necessità di chiudere perché è tardi ponendo fine alla danza collettiva. Ma Janos è ancora consapevole del suo ruolo e ha la presenza di dire “Non avevo finito”. E’ un vero filosofo, come quello descritto in Lezioni di meraviglia, Tlon edizioni: non si spaventa per la complessità delle domande,resta di fronte a ciò che è perturbante scegliendo di rinunciare alla consolazione, accettando la dualità del Thauma, sia meraviglia che angosciante terrore. Sorta di custode del cosmo (quando infatti gli chiedono “Come va il cosmo?” risponde “Tutto bene”), ascolta l’elenco degli avvenimenti  di un mondo impazzito, famiglie che spariscono, freddo anomalo e arriva anche il circo: al passaggio della balena (grande e orrenda)e del Principe in altre città si sono verificati strani fenomeni , aggressioni ,furti, violenze, statue buttate giù (poco dopo l’uscita del film verranno distrutte le statue di Buddha nella valle di Bamiyan, in Afghanistan, a ricordarci la tragica universalità di certi gesti). A differenza degli altri, che continuano a parlare anche se nessuno sa nulla di certo, Janos parla di quello che conosce, e quando non sa, va a vedere. “Non sai nulla?” gli chiede enfaticamente il signor Karcsi, ma è lui il primo a non sapere nulla: ne quante persone sono arrivate, ne se la balena non c’entra nulla o è la causa di tutto, riferisce per sentito dire, e quando arriva ai furti Janos gli dice “Se passerò da quelle parti andrò a vedere anche io” e questo tema dell’andare a vedere torna più volte nel corso del film. Ed è infatti l’unico che va a vedere la balena, dopo essersi aggirato nella piazza tra una umanità ottusamente in attesa e altrettanto ottusamente ostile, sospettosa e rassegnata. Janos sta mantenendo meraviglia e curiosità in un mondo desolato e vulnerabile, si approccia alla balena con riguardo e attenzione. Nessun altro entra per la visita ma quando esce gli uomini in piazza gli fanno domande, rinunciano alla possibilità di conoscere direttamente, accolgono l’esperienza al massimo filtrata dagli occhi di qualcun altro. Janos cerca di spronarli, ”Dovete assolutamente vederla”una creatura misteriosa che viene da lontano, ma per fronteggiare il Thauma ci vuole coraggio. Gli chiedono del Principe, è di lui che vogliono sapere perché in fondo è qualcosa di già noto e per questo più facilmente gestibile. Il Principe asseconderà i loro peggiori impulsi, potranno sentirsi autorizzati ad agire e per questo lo stanno aspettando.

Anche Eszter è un filosofo seppure in modo diverso, combatte la sua battaglia contro i temperamenti Werckmeister , il temperamento uniforme e la sua triste storia,che ritiene non un compromesso ma un inganno, non una questione tecnica ma appunto filosofica, un vero scandalo accettato ormai da secoli. Mette in discussione i capolavori del passato recente, invidiando un passato remoto quando gli strumenti erano accordati in modo naturale, perdendo alcuni toni ma lasciando l’armonia agli Dei. Fallirà, dovendo accettare nel finale di far riaccordare il piano come uno qualunque, non siamo più abituati: Bach stride su un pianoforte accordato naturalmente. La signora Eszter rappresenta invece la grettezza del potere e la bassezza che possono raggiungere i rapporti interpersonali. Non si rammarica di essersi separata dal marito ma di aver rinunciato al posto che le spettava in quella città e adesso vuole riprenderselo, con il capo della polizia e i “soliti” volenterosi sta organizzando un movimento che ristabilirà ordine e pulizia, vuole che il marito ne sia presidente, trama e  manipola, mette in mezzo Janos come  messaggero di un ricatto, e il marito accetta di chiedere soldi ai concittadini pur di non avere  a che fare con la moglie, ma fallirà anche in questo, ennesimo ricorso della sua storia personale, non riuscirà a liberarsi di lei. Per due volte Eszter resiste all’invito a fare una deviazione per vedere la balena. Janos gli dice che basterebbe guardarla per capire la forza della Creazione ma rimanda per eseguire il compito della moglie, pospone l’incontro col meraviglioso a domani e già possiamo intuire che sarà troppo tardi. I racconti dei cittadini intanto sono sempre più drammatici: scuole e municipio chiusi, riscaldamento e telefono saltati, non possono fare affidamento sull’autorità, perché far arrivare il circo quando potrebbe esserci la fine del mondo? Eszter si affida alla lista fatta dalla moglie: anche un compito sgradito può essere un’ancora nel caos, “Non perdere la testa altrimenti l’orrore che ci circonda avrà la meglio”. Si arriva ad invocare l’esercito il cui arrivo è anticipato da un lungo pezzo accompagnato dalla marcia di Radetzky, composta per festeggiare la riconquista di Milano dopo i moti rivoluzionari, sulle cui note il capo della polizia balla impugnando la pistola.

Spinto dall’esigenza di riconfrontarsi e riconnettersi con il Thauma, Janos torna a fare visita alla balena, le dice  ”Hai visto quanti guai hai combinato? Eppure è un bel po’ che non puoi fare del male a nessuno” e sente due uomini del circo parlare del Principe che invece di placare la folla la incita con delle menzogne, “Così saremo di nuovo daccapo” dice il direttore, facendoci capire che anche questa è una storia che si sta ripetendo. Janos ascolta nell’ombra ma le parole lo perseguitano anche mentre corre per strada: “Li puniremo! Li annienteremo! Oro e argento non li salveranno”, e poi rivolgendosi direttamente alla folla: Massacrate! Uccidete! Mentre salgono fischi e urla, esplosioni e fumo, Janos torna indietro: deve vedere con i suoi occhi? O pensa di intervenire? Una folla anonima ma con volti indimenticabili marcia inarrestabile, si sente solo il rumore dei passi, distruggono l’ospedale, luogo di cura e accudimento, picchiano i malati, a dispetto di tutti i grandi discorsi se la prendono con i più deboli, li tirano giù dai letti in una scena scarna e implacabile, accompagnata solo dai rumori della devastazione, la musica riparte solo quando arrivano al cospetto dell’uomo anziano (che è in una stanza comunque rovinata e decadente anche se non devastata dalla folla), gli assalitori non si scambiano una parola. Janos resta in disparte, senza intervenire, sopraffatto dall’orrore e perde del tutto il suo senso della meraviglia. Tanto più che era possibile fermare la folla, un uomo con il suo solo apparire gracile e vulnerabile ma innegabile (appare dietro delle tende strappate, in una concretizzazione del metaforico velo di Maya, aprendo gli occhi agli assalitori ), l’ha fatto. Dopo questa apparizione se ne vanno tutti lentamente, come svuotati, come ombre, senza scopo, nella sconfitta morale di un’azione brutale e insensata. L’inazione di Janos lo condanna (inevitabile il paragone con le conseguenze dell’inazione di fronte alla violenza in Venuto al mondo mi Margaret Mazzantini).  Nella scena successiva lo ritroviamo in una grande stanza dal soffitto alto, intorno a lui elettrodomestici rotti, risuonano ancora le parole del Principe e Janos legge da un libro una scena di distruzione come quella dentro cui si trova, tutto è già successo e si sta ripetendo. Dopo aver trovato il suo vicino morto e non essere riuscito a dirlo alla moglie che lo aspetta (parla, pronuncia parole ma sembra ormai incapace di dire, di svelare alcunché) , Janos fugge dalla città in mano al’esercito, tra filo spinato e mezzi militari, il manifesto con la balena ormai stracciato. Fugge anche se non ha fatto nulla, anche se non ha fatto nulla lo cercano. Lo ritroviamo in ospedale. Il signor Eszter è stato sfrattato dalla moglie e dal capo della polizia, e cerca di risollevarlo promettendogli accoglienza in un posto tranquillo e silenzioso. Ma non c’è consolazione, e il musicista ammette che nulla ha più importanza. Janos resta impassibile, apatico, ammutolito, aggrappato alle sue stesse ginocchia, lasciandoci immaginare quello che può aver subito. Sembra non avere più connessioni non solo con il meraviglioso ma con il mondo in generale.

Infine, quando ormai sembra essere troppo tardi, Eszter va a vedere la balena, la piazza vuota (dove sono tutti? Dove è il Principe? Si è semplicemente spostato altrove?), il camion sfasciato, è lei stessa nuda, ma a differenza dell’uomo in ospedale che con il suo restare in piedi di fronte al nemico per quanto inerme aveva posto fine all’assalto con la forza della sua fragilità, questa è un’immagine di sconfitta: la coda abbassata, ogni mistero sparito, Eszter fissa il suo occhio che non comunica più nulla e se ne va. 

“Non trovavamo la fonte del nostro disgusto e della nostra disperazione e ci scagliavamo su ciò che ci capitava a tiro”

La mano monca di tutte le utopie
di Lucia Cirillo
Sembra quasi un esercizio sfrontato, una sfida illogica, mettere a confronto due film distantissimi tra loro per epoche, tematiche, estetica, musiche, stile di scrittura, concetti espressi, allo scopo di ritrovare tra loro delle analogie. Un gioco che però (forse) il cinema concede proprio grazie a quel territorio composito e articolato sul quale un grande autore, una volta definita la propria poetica e le tematiche di riferimento, è capace di dare vita ad opere dal respiro più ampio rispetto alle loro stesse premesse. Con il cinema di Bela Tarr, che mai ha neppure avuto vaghe pretese in concordanza con le logiche del mercato, questo esercizio si dimostra al contempo più semplice e più singolare, visto che le tematiche a lui care e le modalità con cui vengono raccontate non hanno nulla di simile nel modo di fare cinema più comunemente inteso. Eppure il tentativo merita uno sforzo, soprattutto se il confronto riguarda un grandissimo film italiano come “La classe operaia va in paradiso” e “Il cavallo di Torino”, uno dei più struggenti film di Bela Tarr. Di quest’ultimo si sottolinea la quasi assenza di una sceneggiatura, un unico tappeto musicale che si ripete incessante in ognuno dei capitoli/giorni in cui è suddiviso, una messa in scena ridotta all’osso, risolta per lo più  in inquadrature fisse e lunghi tempi morti, come a sottolineare, togliendo tutto il superfluo, l’angoscia esistenziale nel suo quotidiano ripetersi perennemente identica a se stessa.
Nulla all’apparenza renderebbe questo film simile al film di Elio Petri, indimenticabile  opera militante basata invece su una sceneggiatura solidissima e molto articolata, sulla recitazione istrionica di Volontè, su colori molto accesi, rumori di fabbrica, case piene di oggetti inutili. E poi la lotta, la ribellione, una società che fa rumore perché il riscatto dalla propria condizione lo pretende urlando.

Due film diversi. Senza dubbio. Eppure sembrano entrambi costruiti su una sola domanda che pare echeggiare in ciascuno degli istanti della loro messa in scena. È la domanda che si pone lo stesso operaio Lulù/Volontè nei primi minuti del film “Ma che vita è la nostra?”. Lui, l’operaio vittima di alienazione da lavoro in fabbrica ai tempi del boom, lo stesso che da quasi tutta la vita si è consumato nella costante ripetizione di gesti privi di significato al solo scopo di comprare cose di cui non ha bisogno e per accontentare una donna che non ama.
Sorte pressoché simile, per quanto profondamente diversa nella sostanza, tocca all’anziano padre de “Il cavallo di Torino”: giorni tutti identici, una casa vuota, un nemico che stavolta non è la fabbrica ma una natura ostile che non restituisce nulla, un rapporto anaffettivo con una figlia con la quale non c’è altro confronto se non la condivisione di un pasto e lo scopo di sopravvivere fino al giorno successivo.

Due concetti diversi di “alienazione, due utopie tradite. La stessa domanda: “che vita è la nostra?”. E poi c’è quella mano. Entrambi i protagonisti maschili hanno un arto che gli è impedito di usare, quasi a sottolineare una libertà di movimento che a loro sarà impedita per sempre. Storie diverse, stesso risultato: un mondo in cui la composizione dei conflitti tra forze sbilanciate vede una umanità senza scampo destinata a soccombere senza alcuna possibilità di riscatto dalla propria miseria. Per sempre. Ovunque.

Film diversissimi per storie e stile. Identiche domande e concetti affrontati. Stessa disperazione. Se non il cinema dei grandi autori, chi può riuscirci?

Le ultime sequenze de  Il cavallo di Torino
di Enrico Gegra
Attrae quell'acqua tirata su dal pozzo dalla ragazza  per sé e per suo padre, con forza immane, con quella corda infinita, per riempire due secchi, uno più piccolo dell'altro, il suo  sicuramente.
Il pozzo racchiude profondità, tra misteri ed energie vitali , tali da meritarsi dagli zingari, in cambio dell'acqua, un regalo: un libro, un sapere nuovo per lei che comunque crede ancora, almeno apparentemente, nei valori del padre che non abbandona.
Gli zingari porterebbero allegria e  la presenza finalmente di persone, che tuttavia la ragazza respinge come può, finché suo padre usando l'unico braccio rimastogli, quello sinistro, ha la meglio su quegli stranieri: c'è da chiedersi se la ragazza non vorrebbe in realtà andarsene e salire su quel carro trainato da  bellissimi cavalli bianchi amati ed accuditi.
Così come fa pensare che nella vecchia casa preda di vento e pioggia, ci siano solo un vecchio padre ed una  giovane figlia,  con lei che rappresenta, nonostante quanto dichiarato dal regista, una speranza di vita, una prosecuzione ed un dopo, forse una dichiarazione  inconscia, ma presente  inevitabilmente, con le sue energie ed il suo futuro .
Nell'ultimissima sequenza i due sono seduti ad un tavolo di legno, esattamente diviso in due parti da una linea,  come se ciascuno avesse solo a disposizione il proprio destino e non potesse più in alcun modo interferire con la vita dell'altra persona. 
La frase del padre " dobbiamo mangiare", vorrebbe dare ancora un senso di appartenenza e di unione, per legare  a sé forse quella figlia che ha ancora nelle orecchie la voce degli stranieri e negli occhi le immagini di quel carro che potrebbe portarla nel mondo delle parole e delle  luci, quasi  in una realtà al contrario con quanto espresso dagli ultimi fotogrammi de "Il settimo sigillo".

Le armonie di Werckmeister
di Giulia Pugliese

Verso di te rotolo, verso di te, balena che tutto distruggi senza riportar vittoria; fino all’ultimo mi azzuffo con te, dal cuore dell’inferno ti trafiggo; in nome dell’odio ti sputo addosso l’estremo respiro. Affonda tutte le bare e tutti i catafalchi in un vortice solo! e poiché né questi né quelle possono essere per me, ch’io ti trascini sbranata mentre continuo a darti la caccia, benché sia legato a te, dannata balena! Così, lascio andare la lancia” (Herman Mellville, Moby Dick) 

Perché qualunque cosa hanno toccato – e loro toccano tutto – lo hanno corrotto. Così è stato sino alla vittoria finale. Sino al finale trionfante. Acquisire, corrompere, corrompere, acquisire. O posso mettertela in un altro modo, se vuoi: Toccare, corrompere e quindi acquisire o toccare, acquisire e quindi corrompere. È andata avanti così per secoli, avanti, avanti e avanti. (…) Perché per questa vittoria è necessario che l’altra parte, quella alta grande e nobile, non debba entrare in nessuna disputa. Non doveva esserci alcun tipo di lotta, solo l’improvvisa scomparsa di una parte, ossia la scomparsa dell’eccelso, del grandioso e del nobile.”(Il cavallo di Torino)

La vita umana non ha senso, non c’è un senso nei nostri eterni ritorno, nei gesti sempre uguali e anche quando sembra esserci qualcosa di incredibile e di reale, e comunque solo il ripetersi di un sistema perpetuo. Un sistema come il sistema solare che Valuska fa interpretare agli ubriachi del bar: sta arrivando l’eclissi solare, per un attimo il mondo finirà, tutto si farà scuro, gli animali si ammutoliranno, anche la natura e le montagne non saranno più le stesse, una sorta di apocalisse temporaneo, ma poi tutto tornerà alla normalità. Tutto deve cambiare perché non cambi niente: è questa la grande verità della vita e dell’uomo, il perpetuarsi di un sistema.
Seguiamo Valuska nella sua quotidianità e nella sua routine, quello che lo muove è la curiosità, la voglia di conoscenza e di condividere questa conoscenza (viene anche schernito per questo), tuttavia è un uomo del popolo e lui stesso finisce per essere manipolato. Il signor Estzster è un uomo colto, potrebbe essere un leader per la sua comunità, le persone lo vedono così; tuttavia, lui stesso decide di condurre una vita isolata, occupandosi solo di quello che gli interessa. Nessuno può fermare il cambiamento, tutto deve perpetuarsi e ripetersi. 
Nella storia che è inverosimile, la veridicità dell’azione ci viene data dai gesti piccoli e quotidiani che fanno i protagonisti che vengono ripetuti ciclicamente. Lo stesso Bela Tarr dirà in un’intervista 20 anni dopo, che lui e il cast avevano la sensazione di mettere in scena una favola, tuttavia lo stesso regista ammette che questa storia si è poi rivelata tristemente profetica, paragonando i fatti dei film ai fatti di Capitol Hill. 

L’arrivo della Balena e del Principe getterà il paese nell’oscurità (letteralmente un’immagine ci mostra il loro arrivare). La Balena, nella letteratura sacra e non, rappresenta un essere misterioso e straordinario. Il Leviatano è spesso tradotto come la grande balena, nel Cristianesimo è comunque considerata una creatura di Dio per quanto mostruosa. Nella cultura ebraica il Leviatano è una creatura pericolosa, tanto che lo stesso Dio che ha creato un maschio e una femmina, per paura che distruggessero il mondo, uccide la femmina, in maniera che non si riuscissero a riprodursi. Il Leviatano è una figura pericolosa perché i suoi occhi hanno un grande potere illuminante, è metafora di illuminazione e di conoscenza infinità. La Balena è l’ossessione del comandante Achab e la morte temporanea per Pinocchio, sempre in bilico tra creature mostruosa e straordinaria. Per Valuska, che ne è quasi ossessionato, è una creatura di Dio, misteriosa e da studiare; per il signor Estzter invece è una tappa dell’evoluzione.
Il regista chiede allo spettatore uno sforzo interpretativo della scena permettendogli in qualche maniera di fare parte della storia; infatti, non solo la simbologia della Balena ci permette di addentrarci meglio nella storia, ma l’assenza di un immagine precisa del Principe, invita lo spettatore a fare uno sforzo di interpretazione, dicendoci che il Principe può essere un costrutto dell’uomo come un pensiero, una religione o un partito politico. Da invenzione commerciale ad un qualcosa che ammaglia gli altri e li porta a fare quello che vuole lui. 
Il mondo crolla in questa piccola comunità è la situazione diventa sempre più violenta ed ingestibile; “il mondo è totalmente impazzito in cielo si è rotto qualcosa”. Gli abitanti passano tutto il tempo del film a farsi domande su cosa sta succedendo, senza però capire veramente e riuscire a bloccare la situazione, la confusione si riflette anche nei loro discorsi. Gli adepti del Principe pensano che tutto sia un inganno e vada distrutto, nelle rovine si cela la ricostruzione; mentre l’incomprensibile avviene qualcuno ne approfitterà per prendere il potere, un vuoto di controllo farà si che ci sia un ribaltamento del potere, lo stesso Principe e le sue idee verranno usate da qualcuno per prendere potere, in una società dove tutti usano tutti. Non è la Balena, il Principe o l’eclissi la causa di tutto ciò ma l’uomo stesso. Valuska allora smette di essere narratore e diventa mero osservatore che correre da una parte all’ altra, senza capire bene cosa fare e cosa sta avvenendo.  

Ma qualcosa di vero e di puro c’è: l’amicizia tra Valuska ed Estzster, l’amore (rappresentato dal poliziotto e la sua amata che nonostante stiano mangiando, non riesco a smettere di baciarsi nella mensa), i bambini dell’ispettore che non vogliono andare a letto e la musica. Il lunghissimo piano sequenza della distruzione dell’ospedale, ci riporta a pensare che c’è ancora speranza per l’umanità, perché i vandali all’apparire di qualcosa di puro e di fragilissimo si fermano e l’inquadratura dall’alto ci fa capire che ancora temono un giudizio divino. Come Weckmeister, Bela Tarr è alla ricerca della creazione di un sistema dove tutti gli elementi possono essere accordati e suonare all’unisono, i presupposti ci sarebbero, peccato che l’uomo non sia fatto da note, ma da istinti e non cerchi la perfezione, ma di prevaricare sull’altro perpetuando un sistema che si ripete ciclicamente, senza senso. In fondo il signor Estzster lo dice:”ci sono stati tempi più felici del nostro, ai tempi di Pitagora e Aristosseno, quando i nostri avi usavano gli strumenti accordati in maniera naturale, loro si accontentavano di suonare solo alcuni toni perché non erano tormentati dal dubbio, sapevano che l’armonia divina appartiene agli dèi (…) dobbiamo però prendere coscienza che questa accordatura naturale ha i suoi limiti. È una limitazione per tanto preoccupante che esclude decisamente l’utilizzo dei toni in chiavi musicali più alte”. Valuska che scappa sulle rotaie inseguito da un aereo ci ricorda Cary Grant in “Intrigo Internazionale” perché entrambi si trovano invischiati in qualcosa che più grande di loro e che non capiscono.

Tutto stride negli strumenti accordati naturalmente, le carcasse degli animali morti puzzano e nulla ha più importanza. 

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