Il cinema di Jean-Luc Godard: i vostri elaborati!
19/11/2020
Al termine del workshop dedicato al cinema di Jean-Luc Godard, abbiamo proposto ai partecipanti di redigere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di questo autore capace di elaborare nuove forme espressive e innovare il linguaggio cinematografico.
Lucia Cirillo
UN FILM TRATTO DAI ROTTAMI
Se non si trattasse di un'opera di Godard, autore che ha fatto della rivoluzione del linguaggio e della narrazione la vera ossessione di una carriera intera, forse “Weekend: una donna e un uomo da sabato a domenica” sarebbe una pellicola di difficile collocazione, di impianto certamente sperimentale, straniante, grottesca, sostanzialmente indecifrabile. Ma è un film di Godard e, in quanto tale, sono di tutta evidenza i tratti tipici della sua idea innovativa del “come” fare cinema, lo schema – solo in apparenza dispersivo - della trama, i simboli adoperati, l'uso ossessivo delle didascalie, dei colori primari, il montaggio che alterna lunghi piani sequenza a inserti rapidi e stranianti di fotogrammi e slogan, che fanno incursione proprio quando il livello di attenzione dello spettatore pare meno ricettivo. Se non fosse un film di Godard si penserebbe ad un sadico compiacimento nello spiazzare più volte lo spettatore all'interno di un’esperienza già di per sé profondamente estenuante.
Ma si tratta di un film di Godard, vale a dire un'esperienza visiva, e intima, in grado di smuovere coscienze assopite da un cinema che ha abituato all’assoluzione e all'assuefazione, piuttosto che alla messa in discussione di situazioni consolidate. I simboli, le metafore, i salti narrativi, temporali e spaziali, rappresentano il suo veicolo principale per una ribellione appassionata all'ordine costituito. Proprio a proposito di veicoli, basti pensare all’automobile, spesso simbolo d'elezione del suo cinema come strumento di inclusione dei suoi spettatori in film come “Fino all'ultimo respiro” e ne “Il bandito delle 11” con cui si stabilisce un vero e proprio dialogo diretto con loro. Stavolta, nel suo folle “Weekend”, Godard propone l'automobile come espressione del prodotto di una società decadente, che fagocita ed è a sua volta fagocitata dagli altri e da tutto ciò che possiede o vorrebbe possedere.
Il piano sequenza, coraggiosamente posto proprio all’apertura del film - raggelante nella sua asciuttezza - è un lungo e interminabile serpentone di automobili ferme da chissà quanto tempo a causa di un grave incidente mortale per il quale nessuno mostra il minimo interesse. Ed è proprio questo corto circuito tra la lentezza dell'azione e la drammaticità effettiva dell’evento a generare uno sconvolgente salto emotivo nello spettatore. Nessun dialogo, nessuna azione, nessuna suggestione visiva. Eppure l'effetto è dirompente in questi brevi, eppure lunghissimi, minuti.
Le parole sono svuotate dal loro significato reale, le emozioni sono rese sterili dall'ossessione per il denaro e il possesso, dall'anaffettività, dalla contrapposizione di classe, dalla contrapposizione tra la metropoli e la vita rurale. Ormai sono ribaltate tutte le dinamiche familiari e sociali e il processo appare irreversibile.
“No. Prima il denaro” e poi “Ma sì che ti amo”: poche battute che intercettano il dialogo tra due amanti che si stanno confessando un tradimento. Ma il racconto è subito soffocato da una musica che copre le altre battute. E poco dopo:
“Il delitto perfetto. E poi la dolce vita”: i titoli di due film-simbolo citati all'interno di un dialogo per pianificare l’uccisione dei propri genitori per l'eredità.
Un film sulle macerie. Macerie materiali che hanno prodotto macerie umane. Un processo di disgregazione che parte dal visibile (macchine che si distruggono continuamente con tamponamenti lungo tutto il “viaggio”), si mette a nudo (come i due amanti che non si amano) e arriva all’invisibile. E all’indicibile.
Una completa disgregazione etica e morale delle cui macerie, l’umanità sopravvissuta, farà il suo nutrimento perpetuo.
Lucia Cirillo
UN FILM TRATTO DAI ROTTAMI
Se non si trattasse di un'opera di Godard, autore che ha fatto della rivoluzione del linguaggio e della narrazione la vera ossessione di una carriera intera, forse “Weekend: una donna e un uomo da sabato a domenica” sarebbe una pellicola di difficile collocazione, di impianto certamente sperimentale, straniante, grottesca, sostanzialmente indecifrabile. Ma è un film di Godard e, in quanto tale, sono di tutta evidenza i tratti tipici della sua idea innovativa del “come” fare cinema, lo schema – solo in apparenza dispersivo - della trama, i simboli adoperati, l'uso ossessivo delle didascalie, dei colori primari, il montaggio che alterna lunghi piani sequenza a inserti rapidi e stranianti di fotogrammi e slogan, che fanno incursione proprio quando il livello di attenzione dello spettatore pare meno ricettivo. Se non fosse un film di Godard si penserebbe ad un sadico compiacimento nello spiazzare più volte lo spettatore all'interno di un’esperienza già di per sé profondamente estenuante.
Ma si tratta di un film di Godard, vale a dire un'esperienza visiva, e intima, in grado di smuovere coscienze assopite da un cinema che ha abituato all’assoluzione e all'assuefazione, piuttosto che alla messa in discussione di situazioni consolidate. I simboli, le metafore, i salti narrativi, temporali e spaziali, rappresentano il suo veicolo principale per una ribellione appassionata all'ordine costituito. Proprio a proposito di veicoli, basti pensare all’automobile, spesso simbolo d'elezione del suo cinema come strumento di inclusione dei suoi spettatori in film come “Fino all'ultimo respiro” e ne “Il bandito delle 11” con cui si stabilisce un vero e proprio dialogo diretto con loro. Stavolta, nel suo folle “Weekend”, Godard propone l'automobile come espressione del prodotto di una società decadente, che fagocita ed è a sua volta fagocitata dagli altri e da tutto ciò che possiede o vorrebbe possedere.
Il piano sequenza, coraggiosamente posto proprio all’apertura del film - raggelante nella sua asciuttezza - è un lungo e interminabile serpentone di automobili ferme da chissà quanto tempo a causa di un grave incidente mortale per il quale nessuno mostra il minimo interesse. Ed è proprio questo corto circuito tra la lentezza dell'azione e la drammaticità effettiva dell’evento a generare uno sconvolgente salto emotivo nello spettatore. Nessun dialogo, nessuna azione, nessuna suggestione visiva. Eppure l'effetto è dirompente in questi brevi, eppure lunghissimi, minuti.
Le parole sono svuotate dal loro significato reale, le emozioni sono rese sterili dall'ossessione per il denaro e il possesso, dall'anaffettività, dalla contrapposizione di classe, dalla contrapposizione tra la metropoli e la vita rurale. Ormai sono ribaltate tutte le dinamiche familiari e sociali e il processo appare irreversibile.
“No. Prima il denaro” e poi “Ma sì che ti amo”: poche battute che intercettano il dialogo tra due amanti che si stanno confessando un tradimento. Ma il racconto è subito soffocato da una musica che copre le altre battute. E poco dopo:
“Il delitto perfetto. E poi la dolce vita”: i titoli di due film-simbolo citati all'interno di un dialogo per pianificare l’uccisione dei propri genitori per l'eredità.
Un film sulle macerie. Macerie materiali che hanno prodotto macerie umane. Un processo di disgregazione che parte dal visibile (macchine che si distruggono continuamente con tamponamenti lungo tutto il “viaggio”), si mette a nudo (come i due amanti che non si amano) e arriva all’invisibile. E all’indicibile.
Una completa disgregazione etica e morale delle cui macerie, l’umanità sopravvissuta, farà il suo nutrimento perpetuo.