Il cinema di Pablo Larraín - I vostri elaborati!
30/11/2020
Durante il workshop live dedicato al cinema di Pablo Larraín, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema del grande regista cileno.
Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Lucia Cirillo
RISCATTARE LA REALTÀ CON L'INGANNO DI UNA FAVOLA

Un bambino orfano e abusato. Pensare al Cile di Pinochet in termini esemplificativi potrebbe avere una propria sintesi in una immagine come questa. Il Cile è il Sandokan de "Il Club", un ex bambino (mai) cresciuto all’ombra dei traumi di un'infanzia violata. Come si racconta la parabola storica di un Paese a cui sono stati sottratti gli strumenti per costruire la propria narrativa? E poi, chi potrebbe riuscire a fissare i termini per un suo racconto? Cosa è diventato veramente il popolo cileno dopo il sogno spezzato di Allende e l’umiliazione di una dittatura così feroce? Da dove partire? Da chi partire per un racconto capace di includere aspirazioni, potenzialità, il palpito autentico di un popolo che ha bisogno di riscattarsi?  Un buon leader politico? Un capo spirituale? Un intellettuale? Oppure un artista visionario? Troppi interrogativi, perché altrettante sono le contraddizioni di un Paese che, nella sua storia moderna e contemporanea, ha fatto di questa irresolutezza la sua cifra rappresentativa della quale dover rendere conto. E forse sono state proprio, o anche, queste le domande che si è posto Larraín nel suo tentativo di raccontare la lacerante conflittualità del popolo cileno.  Di certo non deve essere stato facile per lui, artista benestante e di radici borghesi, riuscire a fare i conti con la realtà di un popolo incapace di leggere tra le pieghe della propria miseria. Quella stessa miseria che ai suoi occhi di ”privilegiato” risulta  essere stata la vera matrice della progressiva assuefazione ad una condizione subalterna e umiliante.
In “No” - uno dei suo film più freschi ma solo in apparenza  più lievi - in cui a dominare è il senso di fiducia e di speranza in  un futuro finalmente affrancato dalle privazioni e dal grigiore imposti dalla dittatura - questa amara contraddizione emergerà in tutto il suo lacerante paradosso. Da un lato un giovane creativo, nel definire una strategia per la vittoria del no alla prosecuzione della dittatura, presenta a un gruppo di intellettuali militanti della sinistra radicale, uno spot in difesa dell'allegria. L'idea ha alla base la necessità di un linguaggio semplice, universale, familiare, ammiccante, pragmatico. Nessuna evocazione al passato. Nessuna esortazione ideologica o inneggiante alla democrazia.
Di contro, uno degli intellettuali chiamati a ragionare sulle possibili strategie di vittoria, reagisce ad una simile semplificazione bollandola come mera propaganda del silenzio e occultamento artificioso di ciò che la dittatura ha davvero rappresentato, oltre che del dolore inferto ad un popolo intero 

“E’ una campagna per mettere a tacere quello che è veramente accaduto”

Ma per il giovane pubblicitario il popolo non capirebbe: avere coscienza del proprio stesso dolore, dopo anni di rimozione, non porterebbe alla vittoria del No. Secondo il suo punto di vista di “creativo” la strada per la libertà può avere una speranza solo basandosi su una nuova menzogna: la promessa di un mondo che garantisca la vita di cui la televisione ha costruito l’ideale a cui tendere. E questo ideale sono gli USA. È lì che si "difende l'allegria”, si beve, si balla ovunque.  Non importa quanto tutto questo sia vero, possibile o auspicabile. Funzionerà per il solo fatto che la gente crede di volerlo. Ma tutto questo è solo un mezzo funzionale al vero riscatto:

“Stiamo facendo qualcosa di molto più serio. Ha alle spalle un concetto politico preciso”

 Vincerà il No.

 La televisione restituirà davvero i volti e l’euforia incontrollata di un Cile finalmente “Libero”

E forse sarà soltanto in quel momento che il giovane pubblicitario capirà quanto profetizzato da quell’intellettuale indignato che, subito prima di congedarsi, disse:

“Io non diventerò complice di qualcosa di cui la storia ci chiederà il conto”
Come si racconta la Storia di un Paese rimasto “bambino”? Forse solo con lo sguardo comprensivo di chi, nello sfortunato susseguirsi degli eventi di una storia troppo spesso infausta, colga ogni volta i segnali ostinati di una sincera volontà di riscatto. Quello sguardo comprensivo sono, a modo loro, tutti i film di Larraín.

Smilla Tononi
IO FACCIO QUELLO CHE VOGLIO
Ema, ultima pellicola del regista cileno Pablo Larraín, è un esplosivo ritratto di una giovane e difficile donna, l’omonima protagonista interpretata da Mariana di Girolamo. Una giovane ballerina dai capelli biondo platino e un potente desiderio di ribellione che pervade l’intera pellicola seguendo tre principali declinazioni: il fuoco, la danza ed il sesso.
Il film si apre sull’inquadratura di un notturno cittadino, con l’immagine di un semaforo dato alle fiamme (forse a indicare simbolicamente che per i successivi 102 minuti le regole e le convenzioni verranno sistematicamente infrante su ogni livello). Il fuoco si ripresenta, a tratti, nel corso dell’intero film e ha un ruolo narrativo fondamentale per lo svolgimento della trama: Ema e il compagno Gastòn (Gael Garcia Bernal) avevano infatti deciso di rimandare indietro il figlio Polo, da poco adottato, a seguito di un suo ennesimo atto di ribellione che aveva provocato il ferimento, e il ricovero per gravi ustioni, della zia. Il fuoco e la tendenza alla piromania, sia di Ema che del figlio, è dunque il fattore scatenante che mette in moto la vicenda.
È in un certo senso infuocata anche la seconda tematica attraverso cui si esplica l’atteggiamento ribellistico della giovane donna: la danza. Ema, come si è detto, è una ballerina, fa parte di un corpo di ballo guidato dal compagno coreografo, e già a partire dalla performance svolta nei primissimi minuti della pellicola si individua un obliquo richiamo al fuoco, nella scenografia minimalista del palco dominata da un’enorme sfera rossa e blu, simbolo piuttosto esplicito del Sole. Ma è soprattutto attraverso il reggaeton che l’irriducibilità del carattere della ragazza si manifesta in modo compiuto e totalizzante, quella danza che è pura energia e sensualità, un ballo disprezzato da Gastòn e, forse di conseguenza, amato enormemente da Ema. La vediamo ballare da sola sul molo di notte, per le strade cittadine, nella scuola in cui insegna, fino alla fine del film nel corso di una sequenza slegata dalla trama e caratterizzata da stilemi che più che al cinema sembrano appartenere al genere del videoclip – una possibile rottura, in post scriptum, anche delle convenzioni cinematografiche. 
L’estrema e definitiva ribellione riguarda infine la sfera sessuale: dopo essersi separata da Gastòn, Ema intraprende svariate relazioni sessuali; tra i suoi numerosi partner vi sono entrambi i nuovi genitori di Polo, avvicinati dalla ragazza con dei pretesti e subito sedotti. Ed è, in un certo senso, proprio la promiscuità sessuale della giovane donna a consentire nel finale la risoluzione del dramma da cui la storia si è sviluppata: dopo essere tornata assieme Gastòn ed aver scoperto di essere incinta (senza sapere chi fosse il padre biologico) Ema rende noto il suo stato ai genitori di Polo. Il nuovo equilibrio raggiunto nel finale, tuttavia, è a sua volta quindi una rottura delle convenzioni, in questo caso di quelle relative all’idea tradizionale di famiglia: Polo, i suoi genitori, Gastòn ed Ema, legati dalla nascita del nuovo bambino, vanno infatti a costituire una peculiare famiglia allargata. 
Ema è dunque riuscita nel suo intento, ha ottenuto la famiglia che desiderava, sebbene non una intesa in senso tradizionale: del resto, la giovane protagonista che dà il titolo al film è la personificazione di una vitalità primitiva e istintuale, dominata da un radicale desiderio di “fare quello che vuole” scontrandosi con le convenzioni della vita che la circonda, senza tuttavia considerare tali regole particolarmente limitanti: nonostante i no e i divieti, Ema prosegue verso il suo obiettivo, non rendendo conto a nessuno e a nulla di ciò che la circonda. Questo suo carattere ribellistico giungerà infine all’apice nella penultima sequenza, dove Ema saluta lo spettatore con un penetrante e provocatorio sguardo di sfida, dritto verso la macchina da presa.

 

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