Il cinema di Werner Herzog: le vostre analisi!
08/03/2022

Durante gli incontri dedicati al cinema di Werner Herzog, abbiamo chiesto ai partecipanti di scrive un'analisi su un elemento significativo del cinema di questo grande autore, un avventuriero che ha esplorato il mondo con la sua cinepresa! Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Grizzly Man - Attraversare il confine invisibile
di Valentina Angius

Guardando e riguardando Grizzly Man di Werner Herzog la domanda che inevitabilmente si ripropone è: perché? Perché Timothy Treadwell ha deciso di vivere tra gli orsi? Ma sarebbe da presuntuosi pensare di avere trovato una risposta dopo aver conosciuto Timothy solo attraverso 1 ora e 44 di documentario.
La domanda che invece possiamo provare a indagare è: perché Herzog ha scelto di raccontarci questa storia? Anche in questo caso si tratta di interpretazione, ma almeno abbiamo una grande filmografia precedente a supportarci.
Herzog ci racconta la storia di un uomo apparentemente folle (o che ha fatto scelte folli) per un bene superiore, per proteggere e salvare gli orsi, ma per farlo (citando lo stesso Herzog) ha attraversato un “confine invisibile”. E in quest’uomo Herzog si rispecchia; il regista stesso nella sua carriera ha più volte superato il limite (ammettendo che ne esista uno), e ha amato lavorare con Klaus Kinski, attore a sua volta strabordante. Ma se la salvaguardia degli orsi è la motivazione di Timothy, quella di Herzog potrebbe essere l’arte stessa: andare oltre la costruzione di un classico set cinematografico e la direzione “normale” di un film per poter restituire allo spettatore la realtà selvaggia, la “verità estatica”, per abbattere il più possibile la messa in scena. Ma a che prezzo? Trasportando una barca su per una collina e puntando un fucile contro l’attore. È un prezzo equo?  È un prezzo necessario? Anche in questo caso la risposta (se c’è) non è semplice da trovare, ma ci può aiutare pensare che, forse, il confine invisibile superato da Timothy e da Herzog è stato superato in primis per sé stessi, e che il fine non sono solo gli orsi o l’arte. Nel caso di Timothy questa scelta gli ha permesso di sentirsi potente ("Devo essere più potente [degli orsi] per sopravvivere, se mi mostro debole sono morto"), quasi come un Santo ("Dio sarebbe molto compiaciuto di me"). E sono proprio le parole di Herzog alla fine del film a farci pensare che questo approccio al lavoro e alla vita non sia altro che un modo di fare “introspezione dentro sé stessi che dà senso alla sua vita e alla sua morte”. Come se superando il confine invisibile scoprissimo chi siamo veramente, qual è la nostra vera natura e qual è il senso della vita. Herzog ha rivisto sé stesso in Timothy.

Ci sono solo due momenti nel documentario in cui il regista dichiara di essere in disaccordo con il protagonista: quando attacca verbalmente la Guardia Forestale e quando afferma che il “denominatore comune dell'universo non è armonia ma caos, ostilità e uccisione”. La sua visione della natura, bellissima ma che può sopraffare l’uomo, si può accostare alla visione di un importante autore italiano. "In tutte le espressioni degli orsi non scorgo nessuna amicizia, nessuna comprensione [...] vedo solo la schiacciante indifferenza della natura [...] Questo sguardo vuoto esprime solo un interesse semi annoiato per il cibo" è tratta da Grizzly Man, ma potrebbe essere un estratto delle Operette Morali di Giacomo Leopardi: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che [...] ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo [...] io non me n'avveggo, [...]; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E [...] se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.» (Dialogo della Natura e di un Islandese). L’indifferenza che il regista legge negli occhi dell’orso è la stessa che il poeta descrive nel suo periodo di pessimismo cosmico. Leopardi vedeva la natura come crudele perché, nascendo, ci viene instillato il desiderio di “infinito”, ma allo stesso tempo non ci vengono dati gli strumenti per raggiungerlo e l’uomo è quindi destinato alla sofferenza. Timothy sembrava invece essere convinto di aver trovato il modo di essere felice, che diventare un “guerriero gentile”, interferire con la natura arrivando anche a deviare un fiume per creare un percorso obbligato per i salmoni fossero gli strumenti per la felicità, per salvare gli orsi e diventarci amico. Ma la sua storia sembra confermarci il pensiero del Leopardi: niente di quello che è stato fatto ha avuto alcuna importanza per la natura, è stato importante solo per lui (“L’uom d’eternità s’arroga il vanto”).

È sempre Leopardi, però, a regalarci un’ulteriore prospettiva che ci può aiutare a capire perché Herzog ha voluto raccontare la storia di Timothy, grazie a La Ginestra. Anche il fiore verrà sopraffatto dall’inesorabile colata vulcanica, e non vi opporrà resistenza, ma sarà coraggiosa di fronte al suo inevitabile destino; così è stato Timothy, che sapeva di mettere a rischio la sua vita vivendo lì. Forse non è stato un incosciente felice, forse è stato felice proprio perché cosciente che, alla fine, avrebbe dovuto arrendersi e nonostante tutto non si è sottratto e ha raccolto lungo il percorso tutta la felicità che ha potuto e che non era in grado di trovare altrove. Herzog ci ha voluto raccontare una storia di coraggio per la quale, forse, prova un po’ di invidia.

Lo splendore inafferrabile del cinema di Werner Herzog
di Mirta Tealdi

Ci sono autori (e questo avviene sempre per i più grandi,) che è impossibile ridurre ad uno stile o ad un’estetica ben precisi e tanto meno circoscriverli in un discorso omogeneo. Ecco quindi che la paura di inadeguatezza di fronte ad un personaggio come Werner Herzog, mi fa tremare i polsi e la mano sulla tastiera. Decido dunque di approcciare il mio discorso, essenzialmente su un piano emotivo: ovvero, che cosa le opere di questo autore, hanno suscitato in me, come reazione di spettatrice e appassionata di cinema.
Mi accingo, quindi, con in-trepida umiltà a descrivere uno dei grandi del cinema degli ultimi cinquant’anni. Un cineasta unico, sperimentale, estremo, controverso, inafferrabile, struggente, poetico e spietato allo stesso tempo (avendo ormai quasi terminato gli aggettivi più enfatici, torno in fretta su binari meno sfacciatamente partigiani). 
Un irriducibile della cinepresa, poco o nulla interessato ai diktat produttivi, ha sempre scelto di rappresentare ciò che lo interessava, senza curarsi delle critiche o delle lodi.  Indiscusso rappresentante, insieme all’amico Wim Wenders a Rainer Werner  Fassbinder a Werner Schroeter, del Nuovo cinema tedesco degli anni ‘70-’80. Questi autori, erano alla ricerca di una maggiore libertà espressiva e produttiva, fuori dai vecchi modelli e dai loro vincoli estetici e culturali. 

Nel suo  primo lungometraggio, Segni di vita, 1968 (che gli valse  l'orso d'argento al Festival di Berlino), parla della follia che irrompe all’improvviso nella mente del soldato tedesco Stroszek, che ha  il compito di sorvegliare un deposito di munizioni in un forte abbandonato sull'isola di Kos, durante la Seconda Guerra Mondiale. L’estetica del film in bianco e nero, richiama la tradizione neorealista, in particolare dei film di Theo Angelopoulos.
L’attore Klaus Kinski, con cui ha girato cinque film, lo considerava un pazzo visionario e detta da lui l’affermazione assume una connotazione ancora più suggestiva.  Dotato di una personalità coraggiosa ed estrema, ai suoi attori e alla troupe (ad esempio in Fitzcarraldo, 1981), non chiedeva più di quanto non fosse disposto a rischiare lui stesso, ma la posta era molto alta e le condizioni spesso proibitive. Un idealista con un occhio disincantato, talvolta ambiguo e manipolatore, con un’attrazione speciale verso mondi estremi e selvaggi, foreste amazzoniche e africane, ghiacciai artici (Fireball: Visitors From Darker Worlds, 2020), nuvole, montagne e vulcani (La soufrière, 1977; Into the inferno, 2016), ma anche con uno sguardo antropologico sui meandri più profondi, violenti e oscuri della psiche (dell’animo umano quando si trovi imprigionato in uno spazio ristretto di un istituto di correzione in: Anche i nani hanno cominciato da piccoli, 1970). Un film recitato solo da nani che, in un crescendo orgiastico, commettono azioni di una crudeltà e violenza inaudite, (ma quanto belli i movimenti di macchina circolari intorno agli attori a inizio film, a rendere l’aspetto surreale e claustrofobico: una polveriera emotiva pronta ad esplodere). O come ne L'enigma di Kaspar Hauser (1974) in cui recita il non professionista, Bruno S., anch’egli come il protagonista, un personaggio ai margini, un disadattato ma con dei lampi di coscienza e le profondità di un filosofo. 

Nel cinema di Herzog tutto si fonde, si contamina, in un amalgama fluido, non esistono documentari senza aspetti finzionali (Little Dieter Needs to Fly, 1997) e fiction senza dettagli documentaristici, in un unicum tra vissuto e rappresentazione.  La sua voce, inconfondibile e foneticamente dura nel suo inglese con accento tedesco, che di frequente accompagna e commenta i documentari, rappresenta un elemento di riconoscibilità, originale ed ipnotico, così come spesso ipnotiche ed immersive sono le musiche (diegetiche in Fitzcarraldo e ne La ballata di Stroszek, 1977).  

Talvolta “politically uncorrect”, ad esempio nei confronti degli attori indios in Fitzcarraldo, messi a volte in grave pericolo, eppure allo stesso tempo, empaticamente vicinissimo, quasi fuso con i propri personaggi. Nel documentario  Grizzly Man(2005) sul naturalista Timothy Treadwell, (anche lui un personaggio totamente sopra le righe) fa con pudore la scelta etica e rispettosa di non far ascoltare la registrazione del momento in cui Treadwell viene ucciso  e sbranato nella tenda, insieme alla compagna,  da uno degli orsi che studiava e proteggeva nel Parco nazionale di Katmai in Alaska. 

Una personalità multipla, insomma, quella di Herzog, controversa e spigolosa, autore di sequenze grandiose, di bellezza e spaventosità mozzafiato (Apocalisse nel deserto, 1992), come di un ritratto intimo, poetico e commovente, nel documentario Kinski, Il mio nemico più caro (1999), in cui omaggia in modo anche ironico e spietato, il suo attore più iconico, il suo alter ego cinematografico con cui ha creato dei tormentati cortocircuiti, artistici e creativi con esiti straordinari, e al quale era pronto a sparare (come da lui stesso raccontato), se avesse abbandonato il set di Fitzcarraldo, dopo uno dei suoi attacchi collerici fuori controllo. Della controversa, drammatica e complessa lavorazione di Fitzcarraldo, esistono, un diario tenuto da Herzog, La conquista dell'inutile pubblicato nel 2004 e un documentario Burden of Dreams (1982) di Les Blank.

E infine, non poteva che essere Herzog che, nel 1974, saputo che la sua carissima e anziana amica Lotte Eisner (importantissima critica cinematografica ebreo tedesca del periodo dell’espressionismo, anche lei un personaggio dalla vita romanzata e avventurosa), aveva avuto un infarto ed era in pericolo di vita, si mise in marcia da Monaco a Parigi (dove viveva Lotte) e in pieno inverno, in 19 giorni, la raggiunse. Aveva fatto un voto che, se fosse andato a piedi, lei si sarebbe salvata e così fu. 

E’ così che, vita vera e finzione coincidono.  Quale miglior soggetto per un film di Herzog!
https://thevision.com/rooms/volkswagen-2share/werner-herzog-penso-klaus-kinski/

Corsi

Sei un appassionato di cinema?
Non perderti i nostri corsi lorem ipsum dolor


Sei un’azienda, un museo o una scuola?
Abbiamo studiato per te lorem ipsum dolor

Con il tuo account puoi:

Votare i tuoi film preferiti

Commentare i film

Proporre una recensione

Acquistare i nostri corsi

Guardare i webinar gratuiti

Personalizzare la tua navigazione

Filtri - Cerca un Film

Attori
Registi
Genere
Paese
Anno
Cancella
Applica