Il cinema di Yorgos Lanthimos - I vostri elaborati!
16/03/2021
Durante il workshop dedicato al cinema di Yorgos Lanthimos abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi su un elemento emblematico del cinema del controverso e affascinante regista greco : ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!
Valentina Angius
NIMIC - Uno, nessuno, centomila
Il cortometraggio Nimic è la sintesi perfetta del cinema di Lanthimos: 12 minuti messi in scena con i virtuosismi che hanno caratterizzato le suo opere più recenti ma che hanno l'anima glaciale dei primi film.
A partire dal titolo, "Nimic", che in rumeno significa "Niente" (e che ricorda molto la parola inglese mimic – imitatore) capiamo di cosa parlerà il corto: dell’assenza. L’assenza di musica, l’assenza di un significato, di una personalità, di un’emozione, di espressioni.
Già le prime inquadrature portano un interessante raccordo con i film precedenti: una donna si sveglia e ha gli occhi coperti, si deve togliere una mascherina che indossava per garantirle il buio durante la notte. Un gesto apparentemente insignificante ma che ci riporta indietro a Il sacrificio del cervo sacro e The lobster nei quali gli occhi, la finestra sul mondo, si rendono co-protagonisti delle vicende che attraversano i personaggi.
Ad accompagnare la prima scena c’è da subito una musica quasi invadente, che stride con la staticità e la freddezza delle immagini; infatti è un inganno, non appartiene a quel momento, è un’anticipazione della musica diegetica che ascolteremo durante le prove dell’orchestra, nell’unico ambiente con una scenografia calda ed accogliente, l’unico ambiente che può dar vita ad un’emozione (la musica stessa).
Oltre a quanto già citato, Lanthimos priva il suo cortometraggio anche dei colori e dei dialoghi, sono il tempo ed il ritmo che ne scandiscono la trama, attraverso la musica ed il timer. È un eterno ritorno, è la quotidianità che si ripete all’infinito, uguale a sé stessa, ma con attori diversi. Sono sufficienti nuovi interpreti a rendere la storia diversa? E la storia a chi appartiene, chi è il vero protagonista? È una domanda che il regista greco potrebbe porre anche alla società reale, ad un Paese che ha già metaforicamente raccontato nei film precedenti. È sufficiente il passare del tempo ed il susseguirsi di figure politiche e non per determinare l’evoluzione di una nazione? E chi può reclamare i diritti di tale responsabilità? E la risposta in questo caso la lascia ai bambini in una delle poche battute del film: “Come potremmo saperlo? Siamo solo bambini.”. Una risposta che avremmo potuto dare anche noi come cittadini alle vicende socio-politiche che ci scorrono intorno. Una risposta giustificata da una sincera ingenuità ma che sa anche un po’ di scusa, perché è proprio quando si è bambini che si può cogliere quanto accade fuori per essere in grado di reagire un domani.
Nimic è la rappresentazione cinematografica del nastro di Mobius: due facce, due superfici che non si incontrano mai se non “bucando la superficie”. Non si incontrano mai veramente i due protagonisti del corto, si seguono e si sostituiscono, e l’unico vero momento di coesistenza e di scambio (di sguardi e di personalità) avviene in metropolitana, uno dei luoghi di scambio per eccellenza, in cui binari che fino a quel momento scorrevano paralleli possono incrociare le loro traiettorie. È curioso che nel 1950 sia stato pubblicato il racconto breve Una Metropolitana chiamata Moebius, su consiglio dello stesso Isaac Asimov, che già legava tale superficie all’ambiente metropolitano.
Ad eccezione di questi brevi istanti in metropolitana, nel corso del cortometraggio non ci sono altri scambi, non c’è mai bidirezionalità, ci sono personaggi che camminano lungo un percorso prestabilito andando dritti per la loro strada, senza incorrere in relazioni, che sono il motore stesso della vita. In Nimic non ci possono essere relazioni perché non esiste l’individuo, esistono solo ruoli: un padre, un marito, un musicista; tutti possono essere tutti, e tutti sono nessuno. Nessuno esiste e la vita è uno spettacolo teatrale ripetuto all’infinito.
Viene un po’ in aiuto allo spettatore l’utilizzo del grandangolo e del fisheye, inquadrature che distorcono forzatamente l’immagine e che, pur aumentando il senso di alienazione, ci ricordano che quello che stiamo osservando non è reale, ci guidano nella lettura della distorsione della realtà.
Se fino ad ora si è parlato di interpretazioni, una cosa però è certa: al termine della visione si proverà un forte senso di inquietudine. E forse non sarà tanto la perdita dell’identità ad inquietarci, ma che a tale assenza i personaggi del film non reagiscano, non si ribellino; non è tanto pensare che un giorno potremmo essere sostituiti, ma che accoglieremo la nuova non-esistenza senza provare alcun sentimento.
Gaia Antonini
Il sacrificio del cervo sacro: lo straziante racconto delle nostre vite anaffettive
Il sacrificio del cervo sacro è un film che racconta di una particolare maledizione abbattutasi su Steven (il protagonista) e sulla sua famiglia per soddisfare una sete di vendetta, o meglio la necessità del riequilibrio di una sorta di bilancia del dolore tra chi l’ha subito per primo e chi l’ha causato.
Tutti i personaggi sembrano assolutamente irreali, abitanti di un mondo inesistente e inquietante. Nessuno di loro esprime le proprie emozioni, per questo la macchina da presa cerca di avvicinarsi: per cercare di capirli. La velocità dei dialoghi e la piattezza delle interpretazioni sottolineano fortemente questa sensazione generale di disumanità. Solo verso la fine del film assistiamo a un crollo emotivo di Steven: piange, è l’unico a farlo, ma lo fa nascondendosi, per poi ritornare, come se nulla fosse, all’apatia che lo aveva caratterizzato sino a quel momento. Sono tutti automi privi di ogni tipo di sfaccettatura lontanamente umana, se non quella della paura di morire, davanti alla quale non importa più niente, nemmeno i legami affettivi più profondi.
Martin si trasforma gradualmente nella minaccia da eliminare, Steven arriva addirittura a rapirlo e a rinchiuderlo nel suo seminterrato per torturarlo, credendo scioccamente che quella sia la soluzione alla maledizione. Maledizione della quale, però, Martin si fa solo portavoce: non è il cattivo della storia, è piuttosto il giustiziere, il garante dell’equilibrio universale necessariamente da recuperare e rispettare. Il vero villan è Steven: è il colpevole della morte del padre di Martin, ex alcolizzato che non vuole riconoscere i suoi sbagli, perché non li considera come tali. Forse averli accettati e dichiarati l’avrebbe portato alla salvezza. Così succede ad Abramo, che accetta il volere divino e sacrifica sapendo il motivo di tale azione, non si nasconde dietro a una benda, o dietro a una russian roulette al contrario, e viene salvato perché consapevole delle ragioni del sacrificio, richiesto da una forza superiore a lui e, proprio per questo, incontrollabile e inopinabile.
Un riferimento a questa interpretazione personale è esplicitato anche nella trama e riguarda la visione in TV di Ricomincio da capo, che potrebbe rappresentare un ultimo suggerimento comportamentale, lanciato al protagonista, che però non coglie rendendo vani i tentativi dell’esecutore della giustizia superiore di salvarlo dal supplizio. Bill Murray è infatti costretto a rivivere in loop lo stesso giorno fino a quando non imparerà (finalmente) la lezione, riuscendo a sciogliere il sortilegio, redimendosi e arrivando al miglioramento di sé. Tale film-nel-film è da vedersi, credo, come una sorta di premonizione per il protagonista, un invito a correggere il proprio comportamento, a costituirsi.
Ho trovato questo film un prodotto interessante, e, ragionandoci a lungo, sono anche giunta a una personale interpretazione di quello che potrebbe essere il reale significato de Il sacrificio del cervo sacro. Ci troviamo in un mondo sospeso, i quali unici abitanti possibili sono proprio quelli che ci appaiono davanti agli occhi. Chiaramente il nodo della trama è rappresentato dalla scelta del padre, ma non è da sottovalutare il percorso che egli compie prima di arrivare a doversi confrontare con questa: Steven e Martin si frequentavano da tempo ormai (non è chiaro se questa fosse più di una semplice relazione di “dovere”), e non sono state poche le volte in cui Martin ha tentato di portare l’uomo sulla strada della redenzione, ma la sua cecità e ottusità non lo hanno salvato. Aver ammesso l’errore commesso avrebbe evitato la tragedia finale? Forse sì, ma se così fosse stato ci saremmo privati del maestoso ritratto contemporaneo che Lanthimos ci dona: uno spaccato di società marcio, anaffettivo, robotico, reso ulteriormente tale dalla pantomima che si concluderà con la morte di Bob. Il figlio minore rappresenta l’unica vittima sacrificale possibile, essendo il diverso e quindi l’unico che potrebbe, un giorno, rompere l’ordine costituito, per questo motivo necessariamente da eliminare. Lanthimos ci scaraventa in una dimensione confusa, spaventosa, che vorremo vedere come lontana, ma che alla fine non lo sembra più di tanto, e ci chiede di fare uno sforzo: ci vediamo rappresentati? Perché Steven rappresenta l’uomo contemporaneo, rappresenta noi, esseri che rischiano di non provare più niente, di perdere ogni fantasia, ogni naturalezza, in favore della cruda e gelida scienza, che, per quanto indispensabile, a volte ci fa dimenticare che siamo essere umani, e ci fa perdere quel pizzico di magia (che poi si tratta di semplice senso di umanità) che solo nei bambini può riuscire a sopravvivere.
Matteo Bonfiglioli
Analisi di “Nimic”
Nimic, ultima collaborazione tra Yorgos Lathimos ed Efthymis Filippou, si presenta allo spettatore come un testo ermetico e laconico, un dramma muto, scaturito da un conflitto di cui apparentemente non si trova menzione. Il cortometraggio prodotto nel 2019 condensa in soli 11 minuti quelli che sono gli elementi narrativi più ricorrenti della filmografia di Lanthimos: il dramma famigliare e domestico, l’alienazione dell’individuo borghese, l’estraneità e l’intrusione di un ospite che scardina il tessuto consolidato della quotidianità. In apertura, la messa in scena presenta la routine di una famiglia, battezzata da un risveglio frammentato in diversi close-up che rendono i corpi un mosaico e strappano le azioni dalle agenti. Il dettaglio sull’uovo nella pentola, oltre ad ammiccare al tragico mcguffin di Funny Games (1997, 2007), ricorda quell’oggettificazione corporea presente in opere come Il Settimo Continente (1989), nel quale le mani e i corpi dei protagonisti parevano accessori all’oggetto usato, all’azione ripetitiva e routinaria, trasmettendo un’idea di asservimento umano e di alienazione consumistico-borghese. Le inquadrature ravvicinate, i primissimi piani e i dettagli oggettuali di Nimic vengono diluiti da semi-panoramiche e da totali in interno in cui la figura umana è ripresa intera, ma da un’angolatura decentrata e stridente, resa ancora più straniante dall’uso dell’anamorfico, che restituisce una rappresentazione spaziale malleabile e deformata. A questo sguardo massivamente mediato sullo spazio già incontrato ne La Favorita (2019), si va ad aggiungere una scenografia dello spazio domestico connotata da un design tanto glamour quanto affollato, incoerente e contraddittorio: le pavimentazioni e le pareti differiscono, creando una sorta di riassunto assemblato di più interni borghesi - potrebbe trattarsi di qualsiasi casa, qualsiasi famiglia, qualsiasi individuo -. Questa deformazione percettiva non si limita alla restituzione spaziale ed arriva a contagiare la dimensione temporale, tramite l’uso di un sonoro frammentato ed enigmatico. Per tutta la sequenza domestica, la colonna sonora ambientale si confonde e si alterna a quella che, solo nella sequenza successiva, scopriremo essere la partitura delle prove dell’orchestra di cui fa parte il protagonista. La focalizzazione uditiva risulta quindi confusa e per tutta la prima sequenza sembra priva di sorgente: il secondo picco di archi dell’orchestra combacia, non a caso, su un altro dettaglio oggettuale, quello che ha come protagonista il timer da cucina, concretizzazione del tempo, che qui è traslato proprio per quanto riguarda il dato uditivo. Ecco che, tramite lo smantellamento di riferimenti spaziali e temporali certi e consueti, il cineasta greco getta le basi per il sostrato emotivo che accompagnerà tutta l’opera e che tratteggia stati d’animo paranoici. È in questo modo che ciò che in Lanthimos risulta dapprima assurdo, surreale, metaforico, assume un realismo concreto e materico, una verità umana intima riconoscibile. Proprio quel tempo “spostato”, messo in questione dalla focalizzazione uditiva interna a posteriori, confluirà nella narrazione vera e propria sotto forma di domanda del protagonista e diventerà la chiave per l’immissione di un conflitto inspiegabile e al contempo cristallino: “Do you have the time?”; Il protagonista vuole sapere che ore siano ma al contempo palesa di non possedere il tempo, di non vivere il tempo in cui risiede, di essere alienato dalla storia. Saprebbe dirmi l’ora: una domanda che chiunque potrebbe fare in qualsiasi luogo della vita pubblica: un bar, un centro commerciale, una metropolitana; una domanda casuale e abitudinaria che apre un varco nel nonsense dello straniamento urbano. La ragazza a cui il personaggio interpretato da Matt Dillon chiede l’ora, replica con uno sguardo assente ma terribile, rivolgendogli la stessa domanda e inaugurando una messa in abisso concettuale e narrativa interminabile, accompagnata, non a caso, da uno zoom che ricorda quelli ne Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017). Ecco che l’alienazione sorta dall’assenza di controllo umano sul tempo, contagia lo spazio. La sequenza dell’inseguimento è potente, formalmente perfetta e introduce il tema del doppio, della specularità, grazie ad un uso espressivo della semi-panoramica. Poco dopo aver acquistato i fiori per la moglie (altro grande classico della vita borghese), l’uomo svolta l’angolo di un edificio: la composizione visuale, coadiuvata dalla panoramica a schiaffo, fa sì che il tragitto del protagonista delinei un triangolo di cui la macchina da presa è il vertice; poi il punto di vista ripercorre all’indietro la sezione circolare della semi-panoramica appena conclusa, sottraendo l’inquadratura a sé stessa, negando il tempo e catturando il secondo soggetto, la ragazza, che compirà lo stesso percorso. Nelle carrellate successive, la rapida alternanza di inquadrature dei due soggetti arriva ad assottigliare e infine a consumare definitivamente la distanza temporale e spaziale tra i due personaggi in cammino, raccordando sulla posizione due individui diversi che la storia sta portando a non distinguere più. Alla fine i due protagonisti di questo inseguimento allucinatorio arriveranno a combaciare, a competere per una sola identità, in un contesto di assurdità grottesca in cui i riferimenti spaziali e temporali sono perduti, mangiati e digeriti dalla routine in un unico grande bolo di azioni ripetute. Tornati nello spazio domestico, i due contendenti dicono le stesse battute, inizialmente in successione, finché non arrivano a parlare in simultanea. “How should we know? We are just kids”: Una risposta glaciale, assurda ma al contempo, tragicamente spontanea e consequenziale che precede la sequenza chiave del cortometraggio. La forza tossica dell’abitudine che annulla l’uomo e ci impedisce di riconoscere anche chi è stato accanto a noi una vita, anche nostro padre. Il climax del racconto è ambientato laddove tutto è iniziato, la camera da letto, teatro e quinta della vita borghese, cellula primaria del nucleo famiglia: proprio come nei provini teatrali, i due pretendenti simulano un momento di intima e affettuosa vicinanza, incastrandosi nel corpo cieco della moglie, davanti allo sguardo assente dei figli. Il dettaglio feticista, da una parte richiama al trittico e al triangolo tipico di Lanthimos, dall’altra riprende il linguaggio cinematografico ravvicinato che spezza e aliena i corpi in tanti frammenti. Questa sequenza, che sancirà la vittoria dell’intrusa sul protagonista, è il giro di boa narrativo, lo zenit e l’apice del triangolo. Da qui, le sequenze sembreranno procedere a ritroso, con la sola differenza della nuova protagonista, che troveremo a sua volta alle prese con uova, timer, famiglia e prove d’orchestra. È soprattutto in questo senso che Nimic è un’opera sulla specularità, tanto nel contenuto riguardante il doppio, quanto nella struttura formale, nel linguaggio del mezzo e in ultimo, nella successione delle scene. Lo specchio ideale di questo cortometraggio, è però uno specchio opaco che impedisce qualsiasi riconoscibilità, uno specchio deformato e distorto proprio come la performance musicale della “sostituta” durante il concerto, comunque vivacemente applaudita dal pubblico. Nell’ultima scena con il “vecchio” protagonista ora esule, quel loop inaugurato dalla fatidica domanda, attesta la sua ciclicità. Questa volta, quello che un tempo era il nostro protagonista e che ora è solo uno dei tanti passeggeri della metro, è seduto dal lato opposto ed è lui a ricevere la domanda (la messa in abisso, oltre che dal tema dello specchio, è qui richiamata anche dalla struttura stessa della metropolitana). L’ultima disturbante inquadratura in primissimo piano, mostra l’intrusa intenta a mangiare voracemente un uovo sodo, riecheggiando la stessa ferocia bulimica di un altro intruso della filmografia di Lanthimos, il Martin Lang interpretato da Barry Koeghan nel già citato Il Sacrificio del Cervo Sacro (nel suo caso il pasto era un abbondante piatto di spaghetti). Con una continua sintonia tra il dato narrativo e il dato formale, Yorgos Lanthimos riesce a delineare in pochi minuti una parabola che si muove in bilico tra la distopia e l’incubo paranoico, senza mai apparire delirante o iperbolico. Come in Dogtooth, Alps o The Lobster, ad essere presa in causa è l’estraneità tra simili, il freddo distacco tra intimi, l’impossibilità dell’umano di riconoscersi come tale (tema che riecheggia anche la struttura narrativa del capolavoro di Ingmar Bergman, Persona). In Lanthimos, la relazione umana si svuota e diventa simulazione, coazione a ripetere, mentre la vita appare come un demo musicale, una sinfonia vecchia e conosciuta, suonata distrattamente, in cui nessun assolo avrà mai occasione di distinguersi dalla nenia dell’abitudine. Non a caso Nimic significa “Nulla”.
Claudia Carloni
CORTOCIRCUITO DI ESISTENZE
Alpi, questo è il nome in codice di un gruppo di persone che svolgono un lavoro alquanto particolare : personificare i morti, per aiutare i familiari rimasti in vita ad elaborare il dolore della perdita.
Secondo il capo di questa specie di associazione segreta le Alpi, per la loro maestosità e importanza, possono sostituirsi a tutte le altre vette, ma non sono a loro volta sostituibili.
Questo è il ruolo e la posizione che il gruppo tenta di esercitare sotto compenso per chiunque voglia usufruire del loro servizio, facendo leva sulla fragilità mentale di chi ha appena subito un lutto, per andare più che altro a soddisfare un proprio bisogno di sentirsi indispensabili, o di sentirsi semplicemente qualcuno.
La protagonista delle vicende principali è Monte Rosa, un' infermiera che vedremo interpretare diversi ruoli, tra cui la migliore amica di una donna non vedente, mentre Cervino, un altro componente del gruppo, ne interpreterà il marito.
Nella scena in questione ci troviamo di fronte ad uno schema ricorrente nel cinema di Lanthimos, una " figura triangolare": tre personaggi interagiscono tra loro e ciò che vediamo è una recita asettica e priva di coinvolgimento emotivo di un momento di quotidianità ricreato su misura per la cliente, ma non siamo gli unici a osservare, ad un certo punto infatti Cervino saluta la finta moglie e apre la porta di casa, fingendo di uscire, per poi sedersi e osservare la scena.
Uno sguardo estraneo ed esterno che guarda, analizza, come noi spettatori, ricordandoci di essere di fronte a una messa in scena.
Uno sguardo sfocato, annebbiato, come Cervino che resta sullo sfondo e non ne vediamo i dettagli, come succederà nelle scene seguenti i personaggi saranno spesso fuori fuoco, dando l' impressione di far parte anch' essi dello sfondo sul quale si svolgono le vicende, senza avere delle caratteristiche che li rendano unici e riconoscibili.
Lanthimos spesso nelle inquadrature esclude la testa e il volto dei personaggi, sottolineando l' impossibilità di ricondurli a un' identità precisa, li depersonalizza, rende i loro corpi simili a quelli di un manichino, privi di una linfa vitale percepibile, come burattini che si muovono meccanicamente, mossi dai fili di un burattinaio invisibile.
Il tema dell'identità è centrale nel film, non abbiamo informazioni sui protagonisti che ci permettano di delineare un carattere, un background, e loro stessi sanno pochissimo dei defunti che si ritrovano ad interpretare, una serie di dettagli superficiali, quel tanto che basta per rendere la finzione( secondo loro) plausibile, riducendoli ad un gusto, una frase, un gesto, un'abitudine, un tic nervoso. Una simulazione fredda e distaccata della vita.
Non sappiamo da quanto tempo questa attività di sostituzione vada avanti, il tempo stesso sembra sospeso e non definito, come se la storia potesse svolgersi tranquillamente nel presente, nel passato o in un futuro prossimo , e riguardare chiunque, mentre gli spazi assumono un ruolo fondamentale e riflettono, con i loro colori desaturati e una luce che vira dal giallo pallido al grigio, l'atmosfera surreale, asettica e disturbante che ci si prospetta davanti; vediamo persone divenire " contenitori" delle identità altrui, dimenticandosi probabilmente di chi siano realmente, e ci sorge il dubbio che non siano mai stati qualcuno, se non simulacri di se stessi.
In una società egoriferita come la nostra, dove tutti vogliono essere riconosciuti, unici, originali, Lanthimos provoca lo spettatore e ci rende tutti sostituibili e non necessari, persino la nostra esistenza può fare a meno di noi e sopravvivere alla morte.
Lo humor a sfumature grottesche che nei film successivi sarà più esplicito, qui è più velato ma presente, come nella scena in cui Monte Rosa accetta di ricevere del sesso orale da un suo cliente, in veste di fidanzata, e dovrà dire, sotto richiesta dell' uomo, le stesse parole che era solita dire la sua compagna : "non fermarti, è come l' Eden", una scena tutt' altro che erotica, al limite dell' assurdo, la stessa Monte Rosa non riesce a trattenere una risata, e anche noi proviamo sensazioni contrastanti in cui si mescolano ridicolo e repulsione.
Il gruppo Alpi sembra funzionare fino a che Monte Rosa non decide di agire in totale autonomia, senza sottostare alle regole del gruppo, decide di appropriarsi dell' identità di una giovane tennista deceduta da poco, senza dire niente agli altri, e pian piano si insinua nella famiglia in lutto, confondendosi sempre di più con il personaggio che dovrebbe interpretare.
Qualcosa sfugge al controllo del dispotico leader Monte Bianco, nel suo progetto non aveva considerato l' umanità dei suoi collaboratori, la ricerca di autenticità, di una vita diversa da quella di un semplice automa, la ginnasta infatti tenta di uccidersi, Monte Rosa di sostituirsi completamente ad un morto, andando al di là dell' "etica professionale" che le impone dei limiti e dei comportamenti rigidi e non modificabili( cercherà infatti di instaurare un legame con il fidanzato della defunta, lo presenterà al padre spacciandolo per il proprio, e alla fine proverà a restare a tutti i costi in quella casa dove non è più desiderata, essendo stata sostituita a sua volta dalla ginnasta dopo il suo tradimento).
Monte Rosa non cerca solo un' identità, cerca di essere "vista", di essere importante per qualcuno, di appartenere ad un gruppo, cerca un ambiente familiare che non potrebbe avere altrimenti.
Il padre infatti non sembra essere interessato a lei e ignora le sue richieste di attenzione e di contatto, la madre è morta, non ha nessuno.
Nel cinema di Lanthimos la famiglia diventa il microcosmo in cui osservare l' apatia e la freddezza dei rapporti umani e l' incomunicabilità tra le persone. Le frasi che ripetono i protagonisti per somigliare ai defunti appartengono infatti alla parte più superficiale della personalità, non certo alla parte più intima, che ci rende unici e irripetibili, o alla sfera emotiva, perché questo significherebbe conoscere davvero qualcuno, andare in profondità, prendersi cura del dolore dell' altro , quel dolore appunto che non si vuole ascoltare ed elaborare, ma si tenta di anestetizzare attraverso la sostituzione dei corpi.
Monte Rosa alla fine del film scivola in un " gioco di ruoli" senza ritorno, la vediamo danzare come una marionetta impazzita cercando di sostituire il partner di un' anziana signora, tentare un approccio sessuale con suo padre prendendo il posto della madre morta, entrare nella casa della tennista rompendo la vetrata d' ingresso, intrappolata in un loop di frasi imparate a memoria, svuotate di qualsiasi significato, perché l' unico modo di esistere ormai per lei è essere qualcun altro.
Ma vivere una vita inautentica, fatta di ripetizioni infinite, che cristallizzano la fluidità della vita stessa, non è come essere già morti?
Se ad inizio film l' identità di Monte Rosa era poco delineata , alla fine perde qualsiasi possibilità di averne una: non è più Monte Rosa, non è più la tennista, non è neanche sé stessa, perché forse non lo è mai stata.
Dopo essere stata cacciata con la forza dalla casa della tennista, si ritrova a fissare una serranda chiusa, dove di riflesso vediamo la sua ombra, un' ombra appunto, questo è ciò che resta di lei.
Il film inizia e finisce con la stessa scena , creando una circolarità narrativa interessante: la ginnasta si esibisce davanti al suo allenatore , ma se all'inizio è costretta a danzare sulle note della solenne " O Fortuna" , ora può finalmente avere la musica più pop che tanto desiderava, e abbraccia l' allenatore in un moto d' affetto che può sembrare sincero, quando dice con più convinzione : " sei il miglior allenatore del mondo", ma questa sostituzione di musica e di intenzioni nelle parole non è accompagnata dallo sguardo, che torna assente negli ultimi istanti del film. Che sia l' ennesima interpretazione?
Lanthimos non dà giudizi, né risposte o spiegazioni, ma ci spinge inevitabilmente a riflettere sul legame tra la vita e la morte attraverso il binomio -anche cinematografico- finzione/realtà, non a caso la prima domanda che viene posta alla tennista morente è quale sia il suo attore preferito, non a caso la ginnasta pretende di imitare Prince , che non è ancora morto, ma poco importa, tanto è tutta una rappresentazione, imitazione del reale, è tutta una messa in scena, che nonostante questo parla di realtà, di vita, di esistenze, proprio come il Cinema.
Stefano Gatti
The Lobster, Il Sacrificio del Cervo Sacro, La Favorita
Tre film che a mio parere andrebbero visti in sequenza: sicuramente perché sono usciti in quest’ordine, ma soprattutto perché, ad un’analisi più attenta, si possono notare alcune progressioni, sia dal punto di vista stilistico che da quello narrativo, di cui parlerò di seguito.
Innanzitutto si può notare come, un film dopo l’altro, vi sia una graduale ma sistematica diminuzione delle regole in gioco.
In che senso?
In The Lobster, le regole che governano la storia sono tra le più elevate possibili: le leggi. E come tali, sono valide per l’intera società, qualsiasi cittadino ne è soggetto. In questa realtà, gli individui sono obbligati “per legge” a vivere in coppia. La solitudine è proibita, essere single è reato. Pena: la deportazione, l’obbligo a trovare una compagna o un compagno in un tempo prestabilito, e, in caso di insuccesso, la trasformazione in un animale a propria scelta, allo scopo di avere una seconda possibilità di riuscita.
In un certo senso, questo “spoglia” il termine individuo del proprio significato: l’“individuo” (dal lat. individuus «indivisibile»), diventa quindi la coppia: essa è indivisibile per legge, pena la reclusione.
Ne Il Sacrificio del Cervo Sacro abbiamo già la prima riduzione, meno regole. Le leggi sono quelle odierne, quindi non ci interessano. La regola importante ai fini della storia è una sola (uccidi un membro della tua famiglia), e vale solo per la famiglia protagonista, quattro persone. Il resto del mondo continua a vivere ignaro, soggetto solo alle normali e attuali leggi americane.
Siamo quindi già passati da “Leggi, valide per tutti” a “una regola, valida solo per quella famiglia”.
L’ultimo passo si compie ne La Favorita. Anche qui esistono ovviamente le leggi dell’epoca, ma, come per Il Sacrificio del Cervo Sacro, si tratta delle leggi in vigore in quel periodo, quindi non ci interessano. Quelle che interessano a noi, quelle che governano la trama, semplicemente… non esistono! Ogni mossa, ogni colpo basso, ogni tradimento, ogni finzione, tutto sembra legittimo, se lo scopo è diventare “la favorita” della regina Anna.
Eccoci quindi all’apoteosi: da “Leggi, valide per tutti” a “Non ci sono regole”.
Verrebbe da chiedersi quale potrebbe essere il prossimo passo (posto che, per Lanthimos, fosse intenzionale): cosa potrebbe esserci oltre il “Nessuna regola”?
Ma questa graduale riduzione di regole in gioco non è l’unica progressione che possiamo notare: analizzando bene i film, infatti, possiamo discernere altre due progressioni, a crescere o a diminuire.
Quasi a voler compensare il progressivo decadimento delle regole in gioco, si nota come il realismo sia in continua crescita.
The Lobster si svolge in un mondo che è molto probabilmente il nostro, ma in un futuro distopico. Potrebbe trattarsi anche di una realtà del tutto inventata, ma non vi sono indizi in merito, pertanto considerarlo un futuro prossimo fa al caso nostro. I personaggi inoltre sono fittizi. Insomma, non c’è molto di vero, se non che siamo sul pianeta Terra, abitato da esseri umani e da animali contemporanei. La società sicuramente non è la nostra, la tecnologia (dato che trasformare un essere umano in un animale a piacere non sembra presentare difficoltà, anzi, viene effettuato direttamente nei locali di servizio di un albergo) nemmeno; e, come detto prima, l’apparato legislativo ci è del tutto estraneo.
Ne Il Sacrificio del Cervo Sacro abbiamo un primo passo verso il realismo. La storia è ambientata ai giorni nostri, nel mondo reale (gli Stati Uniti) e segue le vicende di una famiglia normale; i personaggi sono sì inventati, ma rappresentano un campione di una qualsiasi famiglia borghese statunitense; l’apparato legislativo si suppone sia quello realmente in vigore negli USA. L’unica nota di non-realismo è, appunto, quella componente sovrannaturale su cui si sviluppa tutta la vicenda, artificio che comunque, grazie alla sospensione dell’incredulità, non ci sembra affatto avulso.
Ne La Favorita, abbiamo il massimo del realismo. Questa volta la storia è ambientata non al al presente ma in un passato realmente esistito, soggetto ad usi, costumi e leggi di quel periodo; non solo, i personaggi non sono solo plausibili ma addirittura addirittura reali: sia la regina Anna che Sarah che Abigail sono personaggi realmente vissuti, che hanno ricoperto veramente i ruoli raccontati nel film. Ecco dunque ottenuto il massimo del realismo: il film storico.
L’ultima progressione che possiamo notare riguarda lo stile cinematografico, in particolare le inquadrature.
Partendo da The Lobster, abbiamo inquadrature tutto sommato abbastanza convenzionali. Funzionali sì alla storia, ma niente di “strano” agli occhi dello spettatore.
Ne Il Sacrificio del Cervo Sacro cominciamo a notare qualcosa di strano. Carrellate perfettamente simmetriche; campi che tagliano la parte bassa della scena e delle figure per inquadrare “troppo soffitto” a discapito delle figure umane; verticali perfettamente a piombo che scendono di due piani. Le ambientazioni sono squadrate, fredde, asettiche, alienanti, prive di qualsiasi calore umano, sia quelle (e ci sta) nelle stanze d’ospedale che quelle (ben più strano) nel salotto di casa, l’ambiente che più di tutti dovrebbe essere umanizzato e confortevole. L’essere umano appare quasi inserito a forza in un ambiente che non sembra appartenergli.
Insomma, inquadrature decisamente poco realistiche, che non riproducono di certo ciò che vedrebbe l’occhio umano in quella situazione, ma sicuramente suggestive e funzionali alla storia, adatte a stimolare le emozioni e le sensazioni di disagio cercate e volute dal regista.
Ne La Favorita, si va ancora oltre. Un uso accurato ed estensivo del fish eye ricrea un mondo distorto, incurvato, convesso, simile, come alcuni fanno notare, al mondo riflesso negli specchi distorcenti dell’epoca; di certo, non il mondo che vedrebbe il nostro occhio. Garantisce inoltre un campo visivo decisamente più esteso del normale, che va ben oltre il campo visivo naturale. Un modo, sicuramente, di rendere piccolo e insignificante l’essere umano, di costringerlo all’interno di campi troppo vasti per lui, ma anche di distorcere in modo innaturale il mondo circostante, quasi a volerci ricordare che, benché sia una storia vera, questa è solo una visione personale della vicenda.
D’altronde, in un’intervista, un collaboratore di Lanthimos (l’operatore o il direttore della fotografia, non ricordo) aveva racconto di quando Lanthimos gli avesse chiesto “Come andrebbe fatta questa inquadratura?”. L’operatore rispose “Come la stiamo facendo”. E Lanthimos: “Allora facciamo il contrario”.
Valentina Angius
NIMIC - Uno, nessuno, centomila
Il cortometraggio Nimic è la sintesi perfetta del cinema di Lanthimos: 12 minuti messi in scena con i virtuosismi che hanno caratterizzato le suo opere più recenti ma che hanno l'anima glaciale dei primi film.
A partire dal titolo, "Nimic", che in rumeno significa "Niente" (e che ricorda molto la parola inglese mimic – imitatore) capiamo di cosa parlerà il corto: dell’assenza. L’assenza di musica, l’assenza di un significato, di una personalità, di un’emozione, di espressioni.
Già le prime inquadrature portano un interessante raccordo con i film precedenti: una donna si sveglia e ha gli occhi coperti, si deve togliere una mascherina che indossava per garantirle il buio durante la notte. Un gesto apparentemente insignificante ma che ci riporta indietro a Il sacrificio del cervo sacro e The lobster nei quali gli occhi, la finestra sul mondo, si rendono co-protagonisti delle vicende che attraversano i personaggi.
Ad accompagnare la prima scena c’è da subito una musica quasi invadente, che stride con la staticità e la freddezza delle immagini; infatti è un inganno, non appartiene a quel momento, è un’anticipazione della musica diegetica che ascolteremo durante le prove dell’orchestra, nell’unico ambiente con una scenografia calda ed accogliente, l’unico ambiente che può dar vita ad un’emozione (la musica stessa).
Oltre a quanto già citato, Lanthimos priva il suo cortometraggio anche dei colori e dei dialoghi, sono il tempo ed il ritmo che ne scandiscono la trama, attraverso la musica ed il timer. È un eterno ritorno, è la quotidianità che si ripete all’infinito, uguale a sé stessa, ma con attori diversi. Sono sufficienti nuovi interpreti a rendere la storia diversa? E la storia a chi appartiene, chi è il vero protagonista? È una domanda che il regista greco potrebbe porre anche alla società reale, ad un Paese che ha già metaforicamente raccontato nei film precedenti. È sufficiente il passare del tempo ed il susseguirsi di figure politiche e non per determinare l’evoluzione di una nazione? E chi può reclamare i diritti di tale responsabilità? E la risposta in questo caso la lascia ai bambini in una delle poche battute del film: “Come potremmo saperlo? Siamo solo bambini.”. Una risposta che avremmo potuto dare anche noi come cittadini alle vicende socio-politiche che ci scorrono intorno. Una risposta giustificata da una sincera ingenuità ma che sa anche un po’ di scusa, perché è proprio quando si è bambini che si può cogliere quanto accade fuori per essere in grado di reagire un domani.
Nimic è la rappresentazione cinematografica del nastro di Mobius: due facce, due superfici che non si incontrano mai se non “bucando la superficie”. Non si incontrano mai veramente i due protagonisti del corto, si seguono e si sostituiscono, e l’unico vero momento di coesistenza e di scambio (di sguardi e di personalità) avviene in metropolitana, uno dei luoghi di scambio per eccellenza, in cui binari che fino a quel momento scorrevano paralleli possono incrociare le loro traiettorie. È curioso che nel 1950 sia stato pubblicato il racconto breve Una Metropolitana chiamata Moebius, su consiglio dello stesso Isaac Asimov, che già legava tale superficie all’ambiente metropolitano.
Ad eccezione di questi brevi istanti in metropolitana, nel corso del cortometraggio non ci sono altri scambi, non c’è mai bidirezionalità, ci sono personaggi che camminano lungo un percorso prestabilito andando dritti per la loro strada, senza incorrere in relazioni, che sono il motore stesso della vita. In Nimic non ci possono essere relazioni perché non esiste l’individuo, esistono solo ruoli: un padre, un marito, un musicista; tutti possono essere tutti, e tutti sono nessuno. Nessuno esiste e la vita è uno spettacolo teatrale ripetuto all’infinito.
Viene un po’ in aiuto allo spettatore l’utilizzo del grandangolo e del fisheye, inquadrature che distorcono forzatamente l’immagine e che, pur aumentando il senso di alienazione, ci ricordano che quello che stiamo osservando non è reale, ci guidano nella lettura della distorsione della realtà.
Se fino ad ora si è parlato di interpretazioni, una cosa però è certa: al termine della visione si proverà un forte senso di inquietudine. E forse non sarà tanto la perdita dell’identità ad inquietarci, ma che a tale assenza i personaggi del film non reagiscano, non si ribellino; non è tanto pensare che un giorno potremmo essere sostituiti, ma che accoglieremo la nuova non-esistenza senza provare alcun sentimento.
Gaia Antonini
Il sacrificio del cervo sacro: lo straziante racconto delle nostre vite anaffettive
Il sacrificio del cervo sacro è un film che racconta di una particolare maledizione abbattutasi su Steven (il protagonista) e sulla sua famiglia per soddisfare una sete di vendetta, o meglio la necessità del riequilibrio di una sorta di bilancia del dolore tra chi l’ha subito per primo e chi l’ha causato.
Tutti i personaggi sembrano assolutamente irreali, abitanti di un mondo inesistente e inquietante. Nessuno di loro esprime le proprie emozioni, per questo la macchina da presa cerca di avvicinarsi: per cercare di capirli. La velocità dei dialoghi e la piattezza delle interpretazioni sottolineano fortemente questa sensazione generale di disumanità. Solo verso la fine del film assistiamo a un crollo emotivo di Steven: piange, è l’unico a farlo, ma lo fa nascondendosi, per poi ritornare, come se nulla fosse, all’apatia che lo aveva caratterizzato sino a quel momento. Sono tutti automi privi di ogni tipo di sfaccettatura lontanamente umana, se non quella della paura di morire, davanti alla quale non importa più niente, nemmeno i legami affettivi più profondi.
Martin si trasforma gradualmente nella minaccia da eliminare, Steven arriva addirittura a rapirlo e a rinchiuderlo nel suo seminterrato per torturarlo, credendo scioccamente che quella sia la soluzione alla maledizione. Maledizione della quale, però, Martin si fa solo portavoce: non è il cattivo della storia, è piuttosto il giustiziere, il garante dell’equilibrio universale necessariamente da recuperare e rispettare. Il vero villan è Steven: è il colpevole della morte del padre di Martin, ex alcolizzato che non vuole riconoscere i suoi sbagli, perché non li considera come tali. Forse averli accettati e dichiarati l’avrebbe portato alla salvezza. Così succede ad Abramo, che accetta il volere divino e sacrifica sapendo il motivo di tale azione, non si nasconde dietro a una benda, o dietro a una russian roulette al contrario, e viene salvato perché consapevole delle ragioni del sacrificio, richiesto da una forza superiore a lui e, proprio per questo, incontrollabile e inopinabile.
Un riferimento a questa interpretazione personale è esplicitato anche nella trama e riguarda la visione in TV di Ricomincio da capo, che potrebbe rappresentare un ultimo suggerimento comportamentale, lanciato al protagonista, che però non coglie rendendo vani i tentativi dell’esecutore della giustizia superiore di salvarlo dal supplizio. Bill Murray è infatti costretto a rivivere in loop lo stesso giorno fino a quando non imparerà (finalmente) la lezione, riuscendo a sciogliere il sortilegio, redimendosi e arrivando al miglioramento di sé. Tale film-nel-film è da vedersi, credo, come una sorta di premonizione per il protagonista, un invito a correggere il proprio comportamento, a costituirsi.
Ho trovato questo film un prodotto interessante, e, ragionandoci a lungo, sono anche giunta a una personale interpretazione di quello che potrebbe essere il reale significato de Il sacrificio del cervo sacro. Ci troviamo in un mondo sospeso, i quali unici abitanti possibili sono proprio quelli che ci appaiono davanti agli occhi. Chiaramente il nodo della trama è rappresentato dalla scelta del padre, ma non è da sottovalutare il percorso che egli compie prima di arrivare a doversi confrontare con questa: Steven e Martin si frequentavano da tempo ormai (non è chiaro se questa fosse più di una semplice relazione di “dovere”), e non sono state poche le volte in cui Martin ha tentato di portare l’uomo sulla strada della redenzione, ma la sua cecità e ottusità non lo hanno salvato. Aver ammesso l’errore commesso avrebbe evitato la tragedia finale? Forse sì, ma se così fosse stato ci saremmo privati del maestoso ritratto contemporaneo che Lanthimos ci dona: uno spaccato di società marcio, anaffettivo, robotico, reso ulteriormente tale dalla pantomima che si concluderà con la morte di Bob. Il figlio minore rappresenta l’unica vittima sacrificale possibile, essendo il diverso e quindi l’unico che potrebbe, un giorno, rompere l’ordine costituito, per questo motivo necessariamente da eliminare. Lanthimos ci scaraventa in una dimensione confusa, spaventosa, che vorremo vedere come lontana, ma che alla fine non lo sembra più di tanto, e ci chiede di fare uno sforzo: ci vediamo rappresentati? Perché Steven rappresenta l’uomo contemporaneo, rappresenta noi, esseri che rischiano di non provare più niente, di perdere ogni fantasia, ogni naturalezza, in favore della cruda e gelida scienza, che, per quanto indispensabile, a volte ci fa dimenticare che siamo essere umani, e ci fa perdere quel pizzico di magia (che poi si tratta di semplice senso di umanità) che solo nei bambini può riuscire a sopravvivere.
Matteo Bonfiglioli
Analisi di “Nimic”
Nimic, ultima collaborazione tra Yorgos Lathimos ed Efthymis Filippou, si presenta allo spettatore come un testo ermetico e laconico, un dramma muto, scaturito da un conflitto di cui apparentemente non si trova menzione. Il cortometraggio prodotto nel 2019 condensa in soli 11 minuti quelli che sono gli elementi narrativi più ricorrenti della filmografia di Lanthimos: il dramma famigliare e domestico, l’alienazione dell’individuo borghese, l’estraneità e l’intrusione di un ospite che scardina il tessuto consolidato della quotidianità. In apertura, la messa in scena presenta la routine di una famiglia, battezzata da un risveglio frammentato in diversi close-up che rendono i corpi un mosaico e strappano le azioni dalle agenti. Il dettaglio sull’uovo nella pentola, oltre ad ammiccare al tragico mcguffin di Funny Games (1997, 2007), ricorda quell’oggettificazione corporea presente in opere come Il Settimo Continente (1989), nel quale le mani e i corpi dei protagonisti parevano accessori all’oggetto usato, all’azione ripetitiva e routinaria, trasmettendo un’idea di asservimento umano e di alienazione consumistico-borghese. Le inquadrature ravvicinate, i primissimi piani e i dettagli oggettuali di Nimic vengono diluiti da semi-panoramiche e da totali in interno in cui la figura umana è ripresa intera, ma da un’angolatura decentrata e stridente, resa ancora più straniante dall’uso dell’anamorfico, che restituisce una rappresentazione spaziale malleabile e deformata. A questo sguardo massivamente mediato sullo spazio già incontrato ne La Favorita (2019), si va ad aggiungere una scenografia dello spazio domestico connotata da un design tanto glamour quanto affollato, incoerente e contraddittorio: le pavimentazioni e le pareti differiscono, creando una sorta di riassunto assemblato di più interni borghesi - potrebbe trattarsi di qualsiasi casa, qualsiasi famiglia, qualsiasi individuo -. Questa deformazione percettiva non si limita alla restituzione spaziale ed arriva a contagiare la dimensione temporale, tramite l’uso di un sonoro frammentato ed enigmatico. Per tutta la sequenza domestica, la colonna sonora ambientale si confonde e si alterna a quella che, solo nella sequenza successiva, scopriremo essere la partitura delle prove dell’orchestra di cui fa parte il protagonista. La focalizzazione uditiva risulta quindi confusa e per tutta la prima sequenza sembra priva di sorgente: il secondo picco di archi dell’orchestra combacia, non a caso, su un altro dettaglio oggettuale, quello che ha come protagonista il timer da cucina, concretizzazione del tempo, che qui è traslato proprio per quanto riguarda il dato uditivo. Ecco che, tramite lo smantellamento di riferimenti spaziali e temporali certi e consueti, il cineasta greco getta le basi per il sostrato emotivo che accompagnerà tutta l’opera e che tratteggia stati d’animo paranoici. È in questo modo che ciò che in Lanthimos risulta dapprima assurdo, surreale, metaforico, assume un realismo concreto e materico, una verità umana intima riconoscibile. Proprio quel tempo “spostato”, messo in questione dalla focalizzazione uditiva interna a posteriori, confluirà nella narrazione vera e propria sotto forma di domanda del protagonista e diventerà la chiave per l’immissione di un conflitto inspiegabile e al contempo cristallino: “Do you have the time?”; Il protagonista vuole sapere che ore siano ma al contempo palesa di non possedere il tempo, di non vivere il tempo in cui risiede, di essere alienato dalla storia. Saprebbe dirmi l’ora: una domanda che chiunque potrebbe fare in qualsiasi luogo della vita pubblica: un bar, un centro commerciale, una metropolitana; una domanda casuale e abitudinaria che apre un varco nel nonsense dello straniamento urbano. La ragazza a cui il personaggio interpretato da Matt Dillon chiede l’ora, replica con uno sguardo assente ma terribile, rivolgendogli la stessa domanda e inaugurando una messa in abisso concettuale e narrativa interminabile, accompagnata, non a caso, da uno zoom che ricorda quelli ne Il Sacrificio del Cervo Sacro (2017). Ecco che l’alienazione sorta dall’assenza di controllo umano sul tempo, contagia lo spazio. La sequenza dell’inseguimento è potente, formalmente perfetta e introduce il tema del doppio, della specularità, grazie ad un uso espressivo della semi-panoramica. Poco dopo aver acquistato i fiori per la moglie (altro grande classico della vita borghese), l’uomo svolta l’angolo di un edificio: la composizione visuale, coadiuvata dalla panoramica a schiaffo, fa sì che il tragitto del protagonista delinei un triangolo di cui la macchina da presa è il vertice; poi il punto di vista ripercorre all’indietro la sezione circolare della semi-panoramica appena conclusa, sottraendo l’inquadratura a sé stessa, negando il tempo e catturando il secondo soggetto, la ragazza, che compirà lo stesso percorso. Nelle carrellate successive, la rapida alternanza di inquadrature dei due soggetti arriva ad assottigliare e infine a consumare definitivamente la distanza temporale e spaziale tra i due personaggi in cammino, raccordando sulla posizione due individui diversi che la storia sta portando a non distinguere più. Alla fine i due protagonisti di questo inseguimento allucinatorio arriveranno a combaciare, a competere per una sola identità, in un contesto di assurdità grottesca in cui i riferimenti spaziali e temporali sono perduti, mangiati e digeriti dalla routine in un unico grande bolo di azioni ripetute. Tornati nello spazio domestico, i due contendenti dicono le stesse battute, inizialmente in successione, finché non arrivano a parlare in simultanea. “How should we know? We are just kids”: Una risposta glaciale, assurda ma al contempo, tragicamente spontanea e consequenziale che precede la sequenza chiave del cortometraggio. La forza tossica dell’abitudine che annulla l’uomo e ci impedisce di riconoscere anche chi è stato accanto a noi una vita, anche nostro padre. Il climax del racconto è ambientato laddove tutto è iniziato, la camera da letto, teatro e quinta della vita borghese, cellula primaria del nucleo famiglia: proprio come nei provini teatrali, i due pretendenti simulano un momento di intima e affettuosa vicinanza, incastrandosi nel corpo cieco della moglie, davanti allo sguardo assente dei figli. Il dettaglio feticista, da una parte richiama al trittico e al triangolo tipico di Lanthimos, dall’altra riprende il linguaggio cinematografico ravvicinato che spezza e aliena i corpi in tanti frammenti. Questa sequenza, che sancirà la vittoria dell’intrusa sul protagonista, è il giro di boa narrativo, lo zenit e l’apice del triangolo. Da qui, le sequenze sembreranno procedere a ritroso, con la sola differenza della nuova protagonista, che troveremo a sua volta alle prese con uova, timer, famiglia e prove d’orchestra. È soprattutto in questo senso che Nimic è un’opera sulla specularità, tanto nel contenuto riguardante il doppio, quanto nella struttura formale, nel linguaggio del mezzo e in ultimo, nella successione delle scene. Lo specchio ideale di questo cortometraggio, è però uno specchio opaco che impedisce qualsiasi riconoscibilità, uno specchio deformato e distorto proprio come la performance musicale della “sostituta” durante il concerto, comunque vivacemente applaudita dal pubblico. Nell’ultima scena con il “vecchio” protagonista ora esule, quel loop inaugurato dalla fatidica domanda, attesta la sua ciclicità. Questa volta, quello che un tempo era il nostro protagonista e che ora è solo uno dei tanti passeggeri della metro, è seduto dal lato opposto ed è lui a ricevere la domanda (la messa in abisso, oltre che dal tema dello specchio, è qui richiamata anche dalla struttura stessa della metropolitana). L’ultima disturbante inquadratura in primissimo piano, mostra l’intrusa intenta a mangiare voracemente un uovo sodo, riecheggiando la stessa ferocia bulimica di un altro intruso della filmografia di Lanthimos, il Martin Lang interpretato da Barry Koeghan nel già citato Il Sacrificio del Cervo Sacro (nel suo caso il pasto era un abbondante piatto di spaghetti). Con una continua sintonia tra il dato narrativo e il dato formale, Yorgos Lanthimos riesce a delineare in pochi minuti una parabola che si muove in bilico tra la distopia e l’incubo paranoico, senza mai apparire delirante o iperbolico. Come in Dogtooth, Alps o The Lobster, ad essere presa in causa è l’estraneità tra simili, il freddo distacco tra intimi, l’impossibilità dell’umano di riconoscersi come tale (tema che riecheggia anche la struttura narrativa del capolavoro di Ingmar Bergman, Persona). In Lanthimos, la relazione umana si svuota e diventa simulazione, coazione a ripetere, mentre la vita appare come un demo musicale, una sinfonia vecchia e conosciuta, suonata distrattamente, in cui nessun assolo avrà mai occasione di distinguersi dalla nenia dell’abitudine. Non a caso Nimic significa “Nulla”.
Claudia Carloni
CORTOCIRCUITO DI ESISTENZE
Alpi, questo è il nome in codice di un gruppo di persone che svolgono un lavoro alquanto particolare : personificare i morti, per aiutare i familiari rimasti in vita ad elaborare il dolore della perdita.
Secondo il capo di questa specie di associazione segreta le Alpi, per la loro maestosità e importanza, possono sostituirsi a tutte le altre vette, ma non sono a loro volta sostituibili.
Questo è il ruolo e la posizione che il gruppo tenta di esercitare sotto compenso per chiunque voglia usufruire del loro servizio, facendo leva sulla fragilità mentale di chi ha appena subito un lutto, per andare più che altro a soddisfare un proprio bisogno di sentirsi indispensabili, o di sentirsi semplicemente qualcuno.
La protagonista delle vicende principali è Monte Rosa, un' infermiera che vedremo interpretare diversi ruoli, tra cui la migliore amica di una donna non vedente, mentre Cervino, un altro componente del gruppo, ne interpreterà il marito.
Nella scena in questione ci troviamo di fronte ad uno schema ricorrente nel cinema di Lanthimos, una " figura triangolare": tre personaggi interagiscono tra loro e ciò che vediamo è una recita asettica e priva di coinvolgimento emotivo di un momento di quotidianità ricreato su misura per la cliente, ma non siamo gli unici a osservare, ad un certo punto infatti Cervino saluta la finta moglie e apre la porta di casa, fingendo di uscire, per poi sedersi e osservare la scena.
Uno sguardo estraneo ed esterno che guarda, analizza, come noi spettatori, ricordandoci di essere di fronte a una messa in scena.
Uno sguardo sfocato, annebbiato, come Cervino che resta sullo sfondo e non ne vediamo i dettagli, come succederà nelle scene seguenti i personaggi saranno spesso fuori fuoco, dando l' impressione di far parte anch' essi dello sfondo sul quale si svolgono le vicende, senza avere delle caratteristiche che li rendano unici e riconoscibili.
Lanthimos spesso nelle inquadrature esclude la testa e il volto dei personaggi, sottolineando l' impossibilità di ricondurli a un' identità precisa, li depersonalizza, rende i loro corpi simili a quelli di un manichino, privi di una linfa vitale percepibile, come burattini che si muovono meccanicamente, mossi dai fili di un burattinaio invisibile.
Il tema dell'identità è centrale nel film, non abbiamo informazioni sui protagonisti che ci permettano di delineare un carattere, un background, e loro stessi sanno pochissimo dei defunti che si ritrovano ad interpretare, una serie di dettagli superficiali, quel tanto che basta per rendere la finzione( secondo loro) plausibile, riducendoli ad un gusto, una frase, un gesto, un'abitudine, un tic nervoso. Una simulazione fredda e distaccata della vita.
Non sappiamo da quanto tempo questa attività di sostituzione vada avanti, il tempo stesso sembra sospeso e non definito, come se la storia potesse svolgersi tranquillamente nel presente, nel passato o in un futuro prossimo , e riguardare chiunque, mentre gli spazi assumono un ruolo fondamentale e riflettono, con i loro colori desaturati e una luce che vira dal giallo pallido al grigio, l'atmosfera surreale, asettica e disturbante che ci si prospetta davanti; vediamo persone divenire " contenitori" delle identità altrui, dimenticandosi probabilmente di chi siano realmente, e ci sorge il dubbio che non siano mai stati qualcuno, se non simulacri di se stessi.
In una società egoriferita come la nostra, dove tutti vogliono essere riconosciuti, unici, originali, Lanthimos provoca lo spettatore e ci rende tutti sostituibili e non necessari, persino la nostra esistenza può fare a meno di noi e sopravvivere alla morte.
Lo humor a sfumature grottesche che nei film successivi sarà più esplicito, qui è più velato ma presente, come nella scena in cui Monte Rosa accetta di ricevere del sesso orale da un suo cliente, in veste di fidanzata, e dovrà dire, sotto richiesta dell' uomo, le stesse parole che era solita dire la sua compagna : "non fermarti, è come l' Eden", una scena tutt' altro che erotica, al limite dell' assurdo, la stessa Monte Rosa non riesce a trattenere una risata, e anche noi proviamo sensazioni contrastanti in cui si mescolano ridicolo e repulsione.
Il gruppo Alpi sembra funzionare fino a che Monte Rosa non decide di agire in totale autonomia, senza sottostare alle regole del gruppo, decide di appropriarsi dell' identità di una giovane tennista deceduta da poco, senza dire niente agli altri, e pian piano si insinua nella famiglia in lutto, confondendosi sempre di più con il personaggio che dovrebbe interpretare.
Qualcosa sfugge al controllo del dispotico leader Monte Bianco, nel suo progetto non aveva considerato l' umanità dei suoi collaboratori, la ricerca di autenticità, di una vita diversa da quella di un semplice automa, la ginnasta infatti tenta di uccidersi, Monte Rosa di sostituirsi completamente ad un morto, andando al di là dell' "etica professionale" che le impone dei limiti e dei comportamenti rigidi e non modificabili( cercherà infatti di instaurare un legame con il fidanzato della defunta, lo presenterà al padre spacciandolo per il proprio, e alla fine proverà a restare a tutti i costi in quella casa dove non è più desiderata, essendo stata sostituita a sua volta dalla ginnasta dopo il suo tradimento).
Monte Rosa non cerca solo un' identità, cerca di essere "vista", di essere importante per qualcuno, di appartenere ad un gruppo, cerca un ambiente familiare che non potrebbe avere altrimenti.
Il padre infatti non sembra essere interessato a lei e ignora le sue richieste di attenzione e di contatto, la madre è morta, non ha nessuno.
Nel cinema di Lanthimos la famiglia diventa il microcosmo in cui osservare l' apatia e la freddezza dei rapporti umani e l' incomunicabilità tra le persone. Le frasi che ripetono i protagonisti per somigliare ai defunti appartengono infatti alla parte più superficiale della personalità, non certo alla parte più intima, che ci rende unici e irripetibili, o alla sfera emotiva, perché questo significherebbe conoscere davvero qualcuno, andare in profondità, prendersi cura del dolore dell' altro , quel dolore appunto che non si vuole ascoltare ed elaborare, ma si tenta di anestetizzare attraverso la sostituzione dei corpi.
Monte Rosa alla fine del film scivola in un " gioco di ruoli" senza ritorno, la vediamo danzare come una marionetta impazzita cercando di sostituire il partner di un' anziana signora, tentare un approccio sessuale con suo padre prendendo il posto della madre morta, entrare nella casa della tennista rompendo la vetrata d' ingresso, intrappolata in un loop di frasi imparate a memoria, svuotate di qualsiasi significato, perché l' unico modo di esistere ormai per lei è essere qualcun altro.
Ma vivere una vita inautentica, fatta di ripetizioni infinite, che cristallizzano la fluidità della vita stessa, non è come essere già morti?
Se ad inizio film l' identità di Monte Rosa era poco delineata , alla fine perde qualsiasi possibilità di averne una: non è più Monte Rosa, non è più la tennista, non è neanche sé stessa, perché forse non lo è mai stata.
Dopo essere stata cacciata con la forza dalla casa della tennista, si ritrova a fissare una serranda chiusa, dove di riflesso vediamo la sua ombra, un' ombra appunto, questo è ciò che resta di lei.
Il film inizia e finisce con la stessa scena , creando una circolarità narrativa interessante: la ginnasta si esibisce davanti al suo allenatore , ma se all'inizio è costretta a danzare sulle note della solenne " O Fortuna" , ora può finalmente avere la musica più pop che tanto desiderava, e abbraccia l' allenatore in un moto d' affetto che può sembrare sincero, quando dice con più convinzione : " sei il miglior allenatore del mondo", ma questa sostituzione di musica e di intenzioni nelle parole non è accompagnata dallo sguardo, che torna assente negli ultimi istanti del film. Che sia l' ennesima interpretazione?
Lanthimos non dà giudizi, né risposte o spiegazioni, ma ci spinge inevitabilmente a riflettere sul legame tra la vita e la morte attraverso il binomio -anche cinematografico- finzione/realtà, non a caso la prima domanda che viene posta alla tennista morente è quale sia il suo attore preferito, non a caso la ginnasta pretende di imitare Prince , che non è ancora morto, ma poco importa, tanto è tutta una rappresentazione, imitazione del reale, è tutta una messa in scena, che nonostante questo parla di realtà, di vita, di esistenze, proprio come il Cinema.
Stefano Gatti
The Lobster, Il Sacrificio del Cervo Sacro, La Favorita
Tre film che a mio parere andrebbero visti in sequenza: sicuramente perché sono usciti in quest’ordine, ma soprattutto perché, ad un’analisi più attenta, si possono notare alcune progressioni, sia dal punto di vista stilistico che da quello narrativo, di cui parlerò di seguito.
Innanzitutto si può notare come, un film dopo l’altro, vi sia una graduale ma sistematica diminuzione delle regole in gioco.
In che senso?
In The Lobster, le regole che governano la storia sono tra le più elevate possibili: le leggi. E come tali, sono valide per l’intera società, qualsiasi cittadino ne è soggetto. In questa realtà, gli individui sono obbligati “per legge” a vivere in coppia. La solitudine è proibita, essere single è reato. Pena: la deportazione, l’obbligo a trovare una compagna o un compagno in un tempo prestabilito, e, in caso di insuccesso, la trasformazione in un animale a propria scelta, allo scopo di avere una seconda possibilità di riuscita.
In un certo senso, questo “spoglia” il termine individuo del proprio significato: l’“individuo” (dal lat. individuus «indivisibile»), diventa quindi la coppia: essa è indivisibile per legge, pena la reclusione.
Ne Il Sacrificio del Cervo Sacro abbiamo già la prima riduzione, meno regole. Le leggi sono quelle odierne, quindi non ci interessano. La regola importante ai fini della storia è una sola (uccidi un membro della tua famiglia), e vale solo per la famiglia protagonista, quattro persone. Il resto del mondo continua a vivere ignaro, soggetto solo alle normali e attuali leggi americane.
Siamo quindi già passati da “Leggi, valide per tutti” a “una regola, valida solo per quella famiglia”.
L’ultimo passo si compie ne La Favorita. Anche qui esistono ovviamente le leggi dell’epoca, ma, come per Il Sacrificio del Cervo Sacro, si tratta delle leggi in vigore in quel periodo, quindi non ci interessano. Quelle che interessano a noi, quelle che governano la trama, semplicemente… non esistono! Ogni mossa, ogni colpo basso, ogni tradimento, ogni finzione, tutto sembra legittimo, se lo scopo è diventare “la favorita” della regina Anna.
Eccoci quindi all’apoteosi: da “Leggi, valide per tutti” a “Non ci sono regole”.
Verrebbe da chiedersi quale potrebbe essere il prossimo passo (posto che, per Lanthimos, fosse intenzionale): cosa potrebbe esserci oltre il “Nessuna regola”?
Ma questa graduale riduzione di regole in gioco non è l’unica progressione che possiamo notare: analizzando bene i film, infatti, possiamo discernere altre due progressioni, a crescere o a diminuire.
Quasi a voler compensare il progressivo decadimento delle regole in gioco, si nota come il realismo sia in continua crescita.
The Lobster si svolge in un mondo che è molto probabilmente il nostro, ma in un futuro distopico. Potrebbe trattarsi anche di una realtà del tutto inventata, ma non vi sono indizi in merito, pertanto considerarlo un futuro prossimo fa al caso nostro. I personaggi inoltre sono fittizi. Insomma, non c’è molto di vero, se non che siamo sul pianeta Terra, abitato da esseri umani e da animali contemporanei. La società sicuramente non è la nostra, la tecnologia (dato che trasformare un essere umano in un animale a piacere non sembra presentare difficoltà, anzi, viene effettuato direttamente nei locali di servizio di un albergo) nemmeno; e, come detto prima, l’apparato legislativo ci è del tutto estraneo.
Ne Il Sacrificio del Cervo Sacro abbiamo un primo passo verso il realismo. La storia è ambientata ai giorni nostri, nel mondo reale (gli Stati Uniti) e segue le vicende di una famiglia normale; i personaggi sono sì inventati, ma rappresentano un campione di una qualsiasi famiglia borghese statunitense; l’apparato legislativo si suppone sia quello realmente in vigore negli USA. L’unica nota di non-realismo è, appunto, quella componente sovrannaturale su cui si sviluppa tutta la vicenda, artificio che comunque, grazie alla sospensione dell’incredulità, non ci sembra affatto avulso.
Ne La Favorita, abbiamo il massimo del realismo. Questa volta la storia è ambientata non al al presente ma in un passato realmente esistito, soggetto ad usi, costumi e leggi di quel periodo; non solo, i personaggi non sono solo plausibili ma addirittura addirittura reali: sia la regina Anna che Sarah che Abigail sono personaggi realmente vissuti, che hanno ricoperto veramente i ruoli raccontati nel film. Ecco dunque ottenuto il massimo del realismo: il film storico.
L’ultima progressione che possiamo notare riguarda lo stile cinematografico, in particolare le inquadrature.
Partendo da The Lobster, abbiamo inquadrature tutto sommato abbastanza convenzionali. Funzionali sì alla storia, ma niente di “strano” agli occhi dello spettatore.
Ne Il Sacrificio del Cervo Sacro cominciamo a notare qualcosa di strano. Carrellate perfettamente simmetriche; campi che tagliano la parte bassa della scena e delle figure per inquadrare “troppo soffitto” a discapito delle figure umane; verticali perfettamente a piombo che scendono di due piani. Le ambientazioni sono squadrate, fredde, asettiche, alienanti, prive di qualsiasi calore umano, sia quelle (e ci sta) nelle stanze d’ospedale che quelle (ben più strano) nel salotto di casa, l’ambiente che più di tutti dovrebbe essere umanizzato e confortevole. L’essere umano appare quasi inserito a forza in un ambiente che non sembra appartenergli.
Insomma, inquadrature decisamente poco realistiche, che non riproducono di certo ciò che vedrebbe l’occhio umano in quella situazione, ma sicuramente suggestive e funzionali alla storia, adatte a stimolare le emozioni e le sensazioni di disagio cercate e volute dal regista.
Ne La Favorita, si va ancora oltre. Un uso accurato ed estensivo del fish eye ricrea un mondo distorto, incurvato, convesso, simile, come alcuni fanno notare, al mondo riflesso negli specchi distorcenti dell’epoca; di certo, non il mondo che vedrebbe il nostro occhio. Garantisce inoltre un campo visivo decisamente più esteso del normale, che va ben oltre il campo visivo naturale. Un modo, sicuramente, di rendere piccolo e insignificante l’essere umano, di costringerlo all’interno di campi troppo vasti per lui, ma anche di distorcere in modo innaturale il mondo circostante, quasi a volerci ricordare che, benché sia una storia vera, questa è solo una visione personale della vicenda.
D’altronde, in un’intervista, un collaboratore di Lanthimos (l’operatore o il direttore della fotografia, non ricordo) aveva racconto di quando Lanthimos gli avesse chiesto “Come andrebbe fatta questa inquadratura?”. L’operatore rispose “Come la stiamo facendo”. E Lanthimos: “Allora facciamo il contrario”.