Il cinema giapponese: le vostre analisi!
11/05/2021

Durante il workshop dedicato al cinema giapponese, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi su un elemento emblematico di questa ricca filmografia: ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!

Valeria Chiantese
Shinya Tsukamoto
Il cinema giapponese è pieno di suggestioni visive che conducono lo spettatore in un mondo in cui regna un confine labile tra la poetica più pervasiva e la brutalità più atroce. È un cinema che si guarda attorno, contemplando letture del contesto sociale reale/ideale, ma che guarda anche oltre, proponendo significati che esulano dalla mera immagine filmica o dalla storia raccontata, parlando a un livello più universale che abbatte la discrepanza culturale. C’è molto altro, nel buio della sala.
Tra i maestri indiscussi del cinema Giapponese possiamo menzionare Shinya Tsukamoto, regista di culto pioniere del cinema Cyberpunk nipponico. I suoi film sono contraddistinti da una costruzione visiva mirabile e sensazionale, basti pensare al suo film d’esordio, Tetsuo.
La sua opera rimane molto impressa allo spettatore anche a un livello più inconscio, che si può ricondurre tra i tanti temi, anche a quello del Perturbante.
Freud nel suo saggio Das Unheimliche analizza il tema del Perturbante nell’arte, indagando le circostanze in grado di trasformare ciò che è consueto e familiare in qualcosa di sconvolgente o spaventoso.
È interessante cogliere diverse modalità di Perturbante nella poliedrica suggestione filmica di Tsukamoto, che rimandano a un livello ancestrale di partecipazione dello spettatore alla visione: Doppelgänger; effetti sovrannaturali; morte/morte apparente; malattia psichica; confine realtà/irrealtà (animazione dell’inanimato; rapporto tra macchina e essere umano).
Il confine tra realtà e irrealtà è una modalità che è possibile rintracciare sin dalla prima pellicola: Tetsuo. Il film inizia presentando una situazione del tutto ordinaria, che presto verrà stravolta: il protagonista è un salary-man che ha dentro di sé un forte sentimento di frustrazione, riconducibile sia a una routine insopportabile che intrappola lo slancio di vita (atteggiamento passivo) sia alla minacciosa deriva del progresso tecnologico che, lungi dalla funziona salvifica che dovrebbe incrementare la qualità di vita del genere umano, sembra risucchiarne la naturale potenza. L’ascesa tecnologica disumanizza la vita, scavalcando il labile equilibrio dei buoni intenti. Ne scaturisce necessariamente una lotta (atteggiamento attivo) tra l’uomo e la macchina, tra l’etica e il sistema capitalistico; tra una vita degna di essere vissuta/ una non vita. Per farsi portavoce di un movimento di protesta, l’uomo deve incorporare elementi tecnologici e cercare di riallineare il più possibile l’equilibrio sovvertito, a qualunque costo.
La macchina che meccanizza la vita è un concetto molto caro a Luigi Pirandello, approfondito nel suo romanzo “I quaderni di Serafino Gubbio Operatore”. Pirandello fa una feroce critica alla nuova società industrializzata e mette in guardia dagli effetti devastanti delle innovazioni tecnologiche. L’autore parla di alienazione meccanica, che nasce dal conflitto tra la natura umana e i soffocanti dettami sociali. L’uomo crede di conoscere sé stesso, ma in realtà non sa che non è uno solo, perché la sua personalità cambia in base a ciò con cui viene in contatto. L’uomo comune non è capace di capire che questa maschera soffoca la vita, rendendola pura finzione: dal vivere passa al vedersi vivere. In certi momenti eccezionali, l’uomo sorprende in sé stesso rivelazioni che sono oltre i limiti relativi della sua esistenza cosciente.
La repressione sperimentata dall’uomo nella sua grigia routine ha delle ripercussioni su di sé e sulle sue relazioni. Si rende necessario un intervento demiurgico (spesso è lo stesso regista a investire tale carica) a rompere uno schema di per sé deleterio, affinché l’energia di questa repressione sia convertita in qualcosa di straordinario e a tratti rivoluzionario.
Il tema del Doppelgänger riecheggia in Gemini, dove due gemelli separati dalla nascita si riuniscono in circostanze grottesche al sapore amaro della vendetta e, impossibilitati a coesistere nella propria identità apparentemente definita, dovranno assumere quella dell’altro per sopravvivere, chi a un primordiale desiderio di riscatto, chi a un’esigenza di espiazione. Il tema del doppio incarna l’eterno dissidio tra bene e male, non sempre così netto. Nel confine tra ciò che è giusto e cosa non lo è, si assiste ad una battaglia senza esclusione di colpi che coinvolge una terza persona che dovrà scardinare gli equilibri sanciti dalla società in un gioco di luci ed ombre.
Il film ha molti elementi comparabili a Dead Ringers di David Cronenberg, dove Jeremy Irons ha un gemello ed entrambi basano la propria vita sulla condivisione, fino a che intrecciano una relazione morbosa e tossica con una donna, superando di gran lunga il consueto e collaudato distacco emotivo, per cui l’unione gemellare è destinata a vacillare tra il raziocinio medico e il delirio più destabilizzante. Ciò che accade alla vita dell’uno avrà inevitabilmente ripercussioni sulla vita dell’altro, la loro identità sancita dal dualismo non potrà emanciparsi, pena la morte.
Altra modalità di perturbante è la morte/morte apparente che possiamo ritrovare in Vital, film profondamente delicato in cui si esplora il tema della rielaborazione del lutto, ma anche il tema del dolore
associato al piacere, infatti il protagonista e la sua fidanzata raggiungono il massimo piacere con la pratica dell’asfissia erotica. L’incapacità di raggiungere il piacere sessuale in maniera convenzionale è un tema ricorrente nei film di Tsukamoto, come in Snake of June (voyeurismo) e Tokyo Fist (assenza di desiderio).
In Vital, a causa di un incidente stradale, la ragazza muore e il protagonista sopravvive, ma ha una grave amnesia. La mente difende ciò che non può sostenere, come il suo forte senso di colpa, ma grazie ad una coincidenza eticamente scabrosa, assistiamo al graduale recupero dei suoi ricordi in una modalità del tutto estrema, ma necessaria a ristabilire una viva consapevolezza. Vivisezionando un corpo morto, entra in connessione con l’essenza di una ragazza apparentemente ancora viva, fortemente comunicativa con la sua immensa presenza fisica che danza inarrestabile, ripercorrendo la fragilità ma anche l’unicità di un rapporto che può continuare a esistere solo dopo averne recuperato il valore mnemonico e canalizzato la giusta dose di energia verso uno sguardo riposto al futuro. Il film ricorda per certi versi Film Blu di Krzysztof Kieślowski, dove Juliette Binoche deve superare il dolore indicibile della morte del marito e della figlia a causa di un incidente stradale. Arresa all’assenza di un senso a cui aggrapparsi per vivere, la nostra protagonista affronterà un percorso di rinascita solo dopo essersi impigliata in un terreno di deprivazioni, nocche insanguinate, apatia e rassegnazione. La crisi interiore va metabolizzata fase per fase, pena l’immobilità.

La modalità della malattia psichica viene affrontata in Kotoko, dove una madre soffre di doppia visione e ha un disturbo paranoide che getta un’ombra sulla sua quotidianità, fatta di magia e profonda instabilità. Lo spettatore guarda con gli occhi della protagonista, ma il dubbio risiede nella veridicità di ciò che viene descritto o percepito, calato in un mondo onirico spezzato.
La sofferenza psicologica è stata magistralmente trasposta sul grande schermo da grandi registi come Lars Von Trier (Melancholia), David Cronenberg (Spider), Kim Ki-Duk (La samaritana) e Michael Haneke (La pianista).
In definitiva, il cinema di Tsukamoto indaga l’umanità all’interno di un grosso palcoscenico che è la vita, ponendo una necessaria riflessione nello spettatore. La sua visione sposa la prospettiva pirandelliana che concepisce l’uomo alienato come una marionetta che vive e si muove meccanicamente, fino a che un evento imprevisto ne sconvolge le presunte certezze, lo “strappo” nel cielo di carta. Svelata la grande bugia, la marionetta entra in crisi in quanto non riesce più a recitare la sua parte: la denuncia di quel cielo falso a cui ostinatamente credeva, la costringe a vedere in modo nuovo sé stessa e la sua realtà.
E in questo grande risveglio, la marionetta continuerà a farsi manovrare o si riapproprierà del movimento dei suoi fili? La settima arte del grande Shinya Tsukamoto cerca risposte a questo cruciale dilemma.

Lucia Cirillo

Dettagli su "vite invisibili"
Come si sopporta un peso a cui non si è pronti? E come si riconosce il dolore quando non si è neppure ancora avuto il tempo di assaporare un po’ di gioia? Dove si trova la forza per piangere quando ci si sente “invisibili” così che al dolore già presente si aggiunge anche quello dell’indifferenza? Se non si trattasse di un fatto di cronaca realmente accaduto si faticherebbe a crederla una storia plausibile quella di “Nessuno lo sa”, nella quale Kore Eda tratta con commuovente delicatezza la storia di quattro fratellastri abbandonati da una madre incapace di occuparsi di loro e per questo costretti a pensare esclusivamente a come trovare il modo di sopravvivere. Per loro nessun diritto: per la società giapponese non esistono, per questo non possono andare a scuola, né farsi vedere in giro assieme o giocare per strada, coltivare amicizie o passioni. Tutto ciò che riescono a fare è non morire di fame. Eppure non c’è mai un solo momento in cui nessuno dei fratelli si abbandoni al pianto, al rancore, allo sconforto. Il loro stare uniti è fonte sufficiente di pace. Ciò che prevale, mentre si fatica a credere possibile il comportamento di una madre che non esita a lasciare dei bambini cosi piccoli per rincorrere sogni d’amore non meglio definiti, è il senso di tenerezza, soprattutto quando il regista indugia in certi dettagli: piedini che si muovono in una casa troppo calda e disordinata, manine intente a giocare con residui di colori a cera, lo sguardo “adulto” del fratello maggiore che rifiuta i soldi di un’amica che si è accompagnata ad un uomo.
L’ultimo gesto di tenerezza della madre, poco prima di andarsene è stato passare lo smalto rosso sulle unghie della figlia maggiore. Ne cadranno un paio di gocce, quasi a suggerire il triste presagio che colpirà i fratelli nei mesi successivi. E sarà quello stesso smalto, ormai sbiadito sulle unghie della ragazzina, a fare da indicatore di tutto il tempo che è intanto trascorso da quel giorno di intimità interrotta e nel quale il contegno di tutti i fratelli è rimasto intatto, tanto da pensare che senza quei piccoli artifici per scandire il tempo che passa neppure ci si accorgerebbe di tutta la fatica che stanno facendo per sopravvivere. C’è quasi la sensazione che l’infanzia interrotta renda colpevole lo stesso scorrere del tempo e una società che neppure si è ancora accorta di loro.
Quando accadrà l’irreparabile, saranno ancora i dettagli a farsi carico del macabro racconto: della sorellina morta per un incidente domestico non si vedrà mai il volto, ma solo una manina immobile, i capelli, i dettagli di un piedino. E poi tanto silenzio. Un silenzio soffocante. Soltanto dopo, finalmente, arriverà un primo, ed unico, momento liberatorio, la prima e sola possibilità di abbandonarsi al pianto. La fase straziante della sepoltura, nei pressi dell’aeroporto, sarà la sola in cui il fratello maggiore cederà alle lacrime. Per pochissimi secondi, ma lo farà. L’infanzia è passata senza trascorrere. I dettagli minimi hanno scandito un tempo che non tornerà più per fare finalmente spazio, col supporto dell’ampia inquadratura finale, su una città che si risveglia, un treno che copre lunghe distanze, i tre fratelli che percorrono assieme le strade di un mondo che fino ad allora si è rifiutato di vederli. Il futuro include ancora tutto. Persino loro.  

Elia Meregalli
I colpi inesplosi nel cinema di Takeshi Kitano
Nel "modo di vivere" c'è anche un percorso verso la morte, così come nel "percorso verso la morte" c'è un modo di vivere. Nel Giappone contemporaneo si cerca di ignorare la morte, problema che invece andrebbe assolutamente affrontato […] Credo sia necessario un equilibrio tra vita e morte, che si debba dare a entrambe lo stesso peso […]
(Takeshi Kitano, in un’intervista rilasciata nel 1997 a Venezia)

Se vita e morte fossero due facce arrugginite della stessa moneta, Takeshi Kitano ne accarezzerebbe da sempre i bordi fra le dita. Se la lanciasse, molto probabilmente accadrebbe l’improbabile, e quella moneta cadrebbe in piedi. Durante l’infanzia infatti, abbandonato dal padre, vive la realtà della criminalità organizzata di Senju, quartiere povero alla periferia di Tokyo. Il 2 agosto 1994, invece, rimane coinvolto in un violento incidente motociclistico che lo costringerà ad una lunga convalescenza, e ad un intervento di chirurgia estetica al volto che ne causerà la parziale paralisi nella parte destra. Quest’ultimo incidente rappresenta per Kitano una cesura fondamentale per impatto e risonanza, sia nella sua vita che, indelebilmente, nel suo cinema, che di vita si è sempre nutrito. 

Il primo colpo inesploso del cinema di Takeshi Kitano avviene però in “Sonatine”, del 1993. Sonatine è la terza parte di una trilogia tematica che affronta il tema della criminalità organizzata giapponese, la yakuza, composta dal suo esordio registico Violent Cop (1989) e da Boiling Point (1990). All’interno di queste opere Kitano reinterpreta gli stilemi del genere yakuza-eiga creando un tono nichilista e violento accompagnato da sprazzi di commedia dell’assurdo. 
Su una spiaggia dell’isola di Okinawa, luogo di bellezza selvaggia e romantica, il criminale Murakawa porge a due suoi sottoposti una pistola da cui ha rimosso quattro proiettili. Inizia una partita di morra cinese: chi perde vede il grilletto premuto nella propria direzione. Per tre volte, di cui l’ultima accompagnata da una magnifica inquadratura rivolta su Kitano stesso (che recita qui con lo pseudonimo di Beat Takeshi), il grilletto viene premuto. Per tre volte, il colpo non esplode. Murakawa aveva svuotato completamente la pistola. Fra le risate tese dei personaggi, lo spettatore assiste straniato ad un gioco che sospende il tempo e annulla contemporaneamente vita e morte. Questa scena riassume alla perfezione l’essenza di Sonatine, ed assume ancor più significato quando anche il pubblico comprende un dato fondamentale della trama: il gruppo di yakuza giunto sulla spiaggia conosce perfettamente la propria sorte, e sta rimandando l’inevitabile. Quei tre colpi di pistola avrebbero potuto uccidere i personaggi, ma per loro, e in ultima sede per l’osservatore, nulla sarebbe tematicamente cambiato. Nonostante ciò, per un film privo di tragicità drammatica, dove la morte è per gli yakuza un momento naturale e consequenziale ad una decisione come quella del premere il grilletto, a cui sono anestetizzati da anni di violenze, quei colpi inesplosi sono fondamentali per l’economia dell’opera (tant’è che le precedenti morti e sparatorie sono anti-spettacolari, e più staticamente inquadrate nel loro esito che nella loro esecuzione).
Il territorio in riva al mare dove i protagonisti attendono la fine diventa un metaforico limbo, una dimensione prima dell’aldilà dove tutto sembra essere falsato e dissacrante, seppur emotivamente coinvolgente per chi osserva. Il tempo smette di scorrere, e la compagnia ripete ciclicamente giochi di ogni tipo e rappresentazioni teatrali improvvisate. Durante la notte, la luna è sempre piena. Musica e silenzi accompagnano la visione. In Sonatine si parla poco. La forza di Kitano sta nel realizzare un cinema che quando è violento è alienante e distaccato, indurito come i suoi yakuza, anestetizzato nella staticità delle inquadrature e nell’impassibilità dei propri protagonisti di fronte alla fine. In fondo, di fronte ad un uomo già morto, non importa se il colpo esploda o meno.

L’incidente è il secondo colpo inesploso del cinema di Takeshi Kitano, un atto violento ma incompleto che rompe il racconto, e che nonostante lanci un artista diverso seppur nuovamente impassibile in diverse interpretazioni successive rese ancor più uniche proprio da una limitata espressività facciale, cambia per sempre la narrazione della sua storia.

Il terzo colpo inesploso del cinema di Takeshi Kitano avviene in “Hana-bi – fiori di fuoco” del 1997. Si tratta del film del regista giapponese più amato dalla critica, vincitore del Leone d'oro alla 54ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Inseguito da un gruppo di yakuza con cui aveva contratto dei debiti, l’ex-poliziotto Nishi porge ad uno di loro la pistola, dicendogli di sparare. Ancora una volta, l’arma è stata svuotata dei proiettili. Pur sembrando un momento secondario, si tratta invece di un messaggio fondamentale: quegli uomini non possono ucciderlo. Eppure, anche per Nishi, la fine è già scritta. Nishi ed i precedenti protagonisti delle opere del regista nipponico, soprattutto Murakawa, si assomigliano molto, soprattutto nei modi impassibili e violenti e nelle assurde risate. Eppure, hanno una differenza fondamentale espressa dallo stesso Kitano: “Azuma [Il protagonista di Violent Cop (1989), esordio al lungometraggio del regista, ndr] vive nel terrore e nell'apprensione di avere lo stesso sangue di sua sorella, che soffre di un handicap psichico, e si trasforma perciò in uno spietato detective. Murakawa è invece uno yakuza alla ricerca di un luogo in cui morire. In pratica fuggono entrambi in direzione della morte. Al contrario, Nishi cerca di fronteggiare la morte, di sfidarla direttamente. Per questo è diverso dagli altri.”
La morte da fronteggiare è principalmente quella della moglie, malata terminale a cui manca poco tempo da vivere. Nishi intraprenderà con lei un poetico viaggio fra templi e nature, accompagnandola con tenerezza e regalandole risate grazie ad altri giochi fanciulleschi che ricordano, anche se con toni differenti, proprio quelli di Sonatine. Fino all’ultimo momento Nishi sarà il suo guardiano. All’interno di un’opera che lascia percepire la potenza emotiva di ogni singola scena, la complicità della coppia riesce a toccare nel profondo. In Hana-bi il cinema di Kitano non perde però la propria violenza, poiché il gruppo alla ricerca di Nishi cerca più volte di interrompere l’idillio sospeso dei protagonisti. Nessuno di quegli uomini riesce a sfuggire alla sprezzante furia dell’ex poliziotto, impassibile di fronte alla morte proprio come i criminali del cinema di Kitano. Nel finale, due colpi di pistola fuoricampo sanciscono (presumibilmente) l’omicidio-suicidio di Nishi, che conclude così il proprio viaggio e quello della moglie. Dopo la tempesta viene ripristinata la quiete, associata al rumore delle onde tanto caro al regista. Ancora una volta, di fronte ad un uomo già morto, non importa se il colpo esploda o meno.
I colpi più importanti del regista quindi, e quelli che più dialogano con la fine della propria esistenza, sono paradossalmente quelli inesplosi. Da una parte, in Sonatine, diventano metafora di un gioco con la morte, una partita a scacchi Bergmaniana senza tristo mietitore in cui la scacchiera prende le sembianze di una pistola. Dall’altra, in Hana-bi, sono la sentenza di chi assume il potere di decidere della propria fine, e ne diventa quindi padrone. Da una parte uno yakuza che gioca, dall’altra un ex poliziotto che non esita ad usare la violenza per proteggere colei che ama. Ad unire i due monti è in ultima sede il Kitano attore, curiosamente  giovane e giocoso per quanto cinico nel ruolo dello yakuza Murakawa; duro, arido e sfigurato dall’incidente in cui ha rischiato di perdere la vita nell’interpretazione dell’ex agente Nishi.

Giulia Pugliese

“KOTOKO” 
“Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo,  coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini“ —  Alda Merini
Kotoko è un film su una donna che parla di un tema poco trattato: maternità e malattia mentale. Kotoko vive una maternità spaventosa. A causa di una malattia ha delle terribili allucinazioni che le fanno vedere cose che non ci sono e sdoppiamenti di persone, il mondo diventa un luogo ostile per lei e il suo bambino, Dajiro. 
Kotoko è sola, è piccola, provata dalla sua malattia e dalla stanchezza di tenere il bambino che invece è pesante, spesso pensa, quando va sul tetto del suo appartamento,  che basterebbe aprire le braccia per farlo cadere. Kotoko canta, le piace, a parte suo figlio, sembra che sia l’ unica altra cosa che la calma. L’arte, il canto e la danza sono reali. Un'altra abitudine che la ancora alla vita terrena è il dolore fisico.
Kotoko si taglia ma non per morire, per vedere il suo corpo lottare; la modificazione del corpo è una tematica importante per Tsukamoto ed è presente in tutti i suoi film. 
Per la sua malattia e le sue abitudini poco sane, a Kotoko viene portato via il figlio, perché gli assistenti sociali dicono “che ha uno strano modo di dimostrarli amore”, Dajiro va a stare in una cittadina sul mare dalla sorella di Kotoko e lei si chiude ancora di più in se stessa. 
Gli uomini sono qualcosa da cui difendersi, da non lasciare avvicinare e ferire fisicamente. Finché nella sua vita non entra lo scrittore Tanaka, interpretato dallo stesso regista Tsukamoto, che prima respinge in maniera brusca e violenta, poi fa avvicinare, Tanaka si presta a farsi brutalizzare da Kotoko così che lei non faccia male a se stessa.  Poi lui scompare, tanto che non si capisce se lui era nella sua testa o era reale ( Tsukamoto durante la conferenza stampa a Venezia, dove il film è stato presentato nella sezione “Orizzonti”, ha detto che entrambe le interpretazioni sono possibili ), lei ottiene nuovamente la custodia del figlio, ma le cose non migliorano. La televisione di Kotoko trasmette sempre notizie di crimini violenti, per lo più sui bambini, forse il preludio di qualcosa che accadrà. 
Il film si apre con Kotoko da bambina che balla sulla spiaggia, in “Vital”, il film precedente del regista, c’è una scena molto simile. Tsukamoto mette da parte, ma non abbandona completamente, il cyber punk (le scene in cui Kotoko si taglia ricordano quelle in cui “Tetsuo-Iron Man”),  per parlare di corpo e anima “my theme started to change from human body and urban city to human body and soul” dice lo stesso regista.  
Kotoko quando è con suo figlio al mare è serena e non ha le allucinazioni (il mare è luogo di pace per tutta la filmografia giapponese), quando torna in città ed è sola, ricomincia a stare male. La città è soggiogante, alienante ed asettica. Il film è una critica alla società giapponese, che toglie il figlio alla madre, senza però preoccuparsi della sua salute mentale, per poi alla fine ridarglielo e lasciarla in balia di se stessa. Una società estremamente individualista, dove nessuno sembra accorgersi del malessere di Kotoko. 
Il regista ci racconta in modo estremamente scarno ed usando una camera a mano, il quotidiano di Kotoko, intervallando performance artistiche (l’ attrice Cocco è una cantante ) di canto e ballo, momenti di serenità e momenti di malessere, non è chiaro che lavoro faccia Kotoko ma a volte la si vede sottolineare dei fogli, a seconda del suo livello di stabilità le linee sono più o meno dritte; Kotoko è un film sperimentale e come tale ne porta tutti gli archetipi e sembra un tributo al cinema di Maya Deren: le performance di danza, lo sdoppiamento, i fiori, i dettagli del viso e delle mani, le scale e il mare, sembrano essere presi da lì. 
Le performance artistiche sono una parte importante del film, sembrano scollegate dalla narrazione, Kotoko canta come se fosse davanti un pubblico, e quando canta è come se ritrovasse se stessa, la sua interiorità viene mostrata allo spettatore. Un film creato a due mani: l’artista ha messo l’idea, lei stessa ha perso suo figlio; il regista ha dato l’impianto visivo, la commistura delle due personalità si percepisce;  novità assoluta per Tsukamoto che di solito scrive, gira e recita nei suoi film. Un film creato da due persone che parla di doppio, della dicotomia tra il bene e il male, che non esterna, ma interna al personaggio della protagonista. 
Nel finale c’è un richiamo all’arte contemporanea e al mondo del gioco, spesso infatti l’arte contemporanea ha reinterpretato in modo diverso l infanzia e il gioco, Kotoko che spesso si chiudeva in casa con il figlio e la trasformava in un parco giochi con oggetti colorati e giochi, vede questi giochi animarsi:  girandole, corde con animali, scatole che si aprono e poi due bambole brutte che forse rappresentano lei e il figlio. 
Alla fine Kotoko  verrà sopraffatta dal suo malessere che la porterà a compiere un gesto estremo, vediamo una Kotoko che perde la sua libertà, la vediamo cantare sotto la pioggia, ma non vi è liberazione in questo gesto; ma proprio quando tutto sembra perso: Kotoko ritroverà suo figlio. 
“Non lo faccio per morire, sono solo stupita dalla volontà del mio corpo di vivere. Sa di pesce quando sanguina. Sento l’ odore del mare. Da questo si capisce che gli esseri umani vengo dall’ oceano. “ 

Elia Meregalli
I colpi inesplosi nel cinema di Takeshi Kitano

Nel "modo di vivere" c'è anche un percorso verso la morte, così come nel "percorso verso la morte" c'è un modo di vivere. Nel Giappone contemporaneo si cerca di ignorare la morte, problema che invece andrebbe assolutamente affrontato […] Credo sia necessario un equilibrio tra vita e morte, che si debba dare a entrambe lo stesso peso […]

(Takeshi Kitano, in un’intervista rilasciata nel 1997 a Venezia)

Se vita e morte fossero due facce arrugginite della stessa moneta, Takeshi Kitano ne accarezzerebbe da sempre i bordi fra le dita. Se la lanciasse, molto probabilmente accadrebbe l’improbabile, e quella moneta cadrebbe in piedi. Durante l’infanzia infatti, abbandonato dal padre, vive la realtà della criminalità organizzata di Senju, quartiere povero alla periferia di Tokyo. Il 2 agosto 1994, invece, rimane coinvolto in un violento incidente motociclistico che lo costringerà ad una lunga convalescenza, e ad un intervento di chirurgia estetica al volto che ne causerà la parziale paralisi nella parte destra. Quest’ultimo incidente rappresenta per Kitano una cesura fondamentale per impatto e risonanza, sia nella sua vita che, indelebilmente, nel suo cinema, che di vita si è sempre nutrito. 

Il primo colpo inesploso del cinema di Takeshi Kitano avviene però in “Sonatine”, del 1993. Sonatine è la terza parte di una trilogia tematica che affronta il tema della criminalità organizzata giapponese, la yakuza, composta dal suo esordio registico Violent Cop (1989) e da Boiling Point (1990). All’interno di queste opere Kitano reinterpreta gli stilemi del genere yakuza-eiga creando un tono nichilista e violento accompagnato da sprazzi di commedia dell’assurdo. 

Su una spiaggia dell’isola di Okinawa, luogo di bellezza selvaggia e romantica, il criminale Murakawa porge a due suoi sottoposti una pistola da cui ha rimosso quattro proiettili. Inizia una partita di morra cinese: chi perde vede il grilletto premuto nella propria direzione. Per tre volte, di cui l’ultima accompagnata da una magnifica inquadratura rivolta su Kitano stesso (che recita qui con lo pseudonimo di Beat Takeshi), il grilletto viene premuto. Per tre volte, il colpo non esplode. Murakawa aveva svuotato completamente la pistola. Fra le risate tese dei personaggi, lo spettatore assiste straniato ad un gioco che sospende il tempo e annulla contemporaneamente vita e morte. Questa scena riassume alla perfezione l’essenza di Sonatine, ed assume ancor più significato quando anche il pubblico comprende un dato fondamentale della trama: il gruppo di yakuza giunto sulla spiaggia conosce perfettamente la propria sorte, e sta rimandando l’inevitabile. Quei tre colpi di pistola avrebbero potuto uccidere i personaggi, ma per loro, e in ultima sede per l’osservatore, nulla sarebbe tematicamente cambiato. Nonostante ciò, per un film privo di tragicità drammatica, dove la morte è per gli yakuza un momento naturale e consequenziale ad una decisione come quella del premere il grilletto, a cui sono anestetizzati da anni di violenze, quei colpi inesplosi sono fondamentali per l’economia dell’opera (tant’è che le precedenti morti e sparatorie sono anti-spettacolari, e più staticamente inquadrate nel loro esito che nella loro esecuzione).

Il territorio in riva al mare dove i protagonisti attendono la fine diventa un metaforico limbo, una dimensione prima dell’aldilà dove tutto sembra essere falsato e dissacrante, seppur emotivamente coinvolgente per chi osserva. Il tempo smette di scorrere, e la compagnia ripete ciclicamente giochi di ogni tipo e rappresentazioni teatrali improvvisate. Durante la notte, la luna è sempre piena. Musica e silenzi accompagnano la visione. In Sonatine si parla poco. La forza di Kitano sta nel realizzare un cinema che quando è violento è alienante e distaccato, indurito come i suoi yakuza, anestetizzato nella staticità delle inquadrature e nell’impassibilità dei propri protagonisti di fronte alla fine. In fondo, di fronte ad un uomo già morto, non importa se il colpo esploda o meno.

L’incidente è il secondo colpo inesploso del cinema di Takeshi Kitano, un atto violento ma incompleto che rompe il racconto, e che nonostante lanci un artista diverso seppur nuovamente impassibile in diverse interpretazioni successive rese ancor più uniche proprio da una limitata espressività facciale, cambia per sempre la narrazione della sua storia.

Il terzo colpo inesploso del cinema di Takeshi Kitano avviene in “Hana-bi – fiori di fuoco” del 1997. Si tratta del film del regista giapponese più amato dalla critica, vincitore del Leone d'oro alla 54ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Inseguito da un gruppo di yakuza con cui aveva contratto dei debiti, l’ex-poliziotto Nishi porge ad uno di loro la pistola, dicendogli di sparare. Ancora una volta, l’arma è stata svuotata dei proiettili. Pur sembrando un momento secondario, si tratta invece di un messaggio fondamentale: quegli uomini non possono ucciderlo. Eppure, anche per Nishi, la fine è già scritta. Nishi ed i precedenti protagonisti delle opere del regista nipponico, soprattutto Murakawa, si assomigliano molto, soprattutto nei modi impassibili e violenti e nelle assurde risate. Eppure, hanno una differenza fondamentale espressa dallo stesso Kitano: “Azuma [Il protagonista di Violent Cop (1989), esordio al lungometraggio del regista, ndr] vive nel terrore e nell'apprensione di avere lo stesso sangue di sua sorella, che soffre di un handicap psichico, e si trasforma perciò in uno spietato detective. Murakawa è invece uno yakuza alla ricerca di un luogo in cui morire. In pratica fuggono entrambi in direzione della morte. Al contrario, Nishi cerca di fronteggiare la morte, di sfidarla direttamente. Per questo è diverso dagli altri.”

La morte da fronteggiare è principalmente quella della moglie, malata terminale a cui manca poco tempo da vivere. Nishi intraprenderà con lei un poetico viaggio fra templi e nature, accompagnandola con tenerezza e regalandole risate grazie ad altri giochi fanciulleschi che ricordano, anche se con toni differenti, proprio quelli di Sonatine. Fino all’ultimo momento Nishi sarà il suo guardiano. All’interno di un’opera che lascia percepire la potenza emotiva di ogni singola scena, la complicità della coppia riesce a toccare nel profondo. In Hana-bi il cinema di Kitano non perde però la propria violenza, poiché il gruppo alla ricerca di Nishi cerca più volte di interrompere l’idillio sospeso dei protagonisti. Nessuno di quegli uomini riesce a sfuggire alla sprezzante furia dell’ex poliziotto, impassibile di fronte alla morte proprio come i criminali del cinema di Kitano. Nel finale, due colpi di pistola fuoricampo sanciscono (presumibilmente) l’omicidio-suicidio di Nishi, che conclude così il proprio viaggio e quello della moglie. Dopo la tempesta viene ripristinata la quiete, associata al rumore delle onde tanto caro al regista. Ancora una volta, di fronte ad un uomo già morto, non importa se il colpo esploda o meno.

I colpi più importanti del regista quindi, e quelli che più dialogano con la fine della propria esistenza, sono paradossalmente quelli inesplosi. Da una parte, in Sonatine, diventano metafora di un gioco con la morte, una partita a scacchi Bergmaniana senza tristo mietitore in cui la scacchiera prende le sembianze di una pistola. Dall’altra, in Hana-bi, sono la sentenza di chi assume il potere di decidere della propria fine, e ne diventa quindi padrone. Da una parte uno yakuza che gioca, dall’altra un ex poliziotto che non esita ad usare la violenza per proteggere colei che ama. Ad unire i due monti è in ultima sede il Kitano attore, curiosamente  giovane e giocoso per quanto cinico nel ruolo dello yakuza Murakawa; duro, arido e sfigurato dall’incidente in cui ha rischiato di perdere la vita nell’interpretazione dell’ex agente Nishi.


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