Il riflesso distopico nel cinema di Yorgos Lanthimos
28/03/2021
Si è concluso nelle scorse settimane il nostro workshop su uno dei registi che negli ultimi dieci anni ha fatto maggiormente parlare di sé. Il cinema di Yorgos Lanthimos ha infatti acquistato sempre più peso, prima in patria e poi all’estero, venandosi sempre più di un timbro autoriale. Da stella nascente ad autore ormai affermato, il regista ateniese ha rilanciato il cinema greco, regalandoci una serie di pellicole caratterizzate da una fronte impronta distopica e da un black humor estremamente grottesco.
Le opere di Lanthimos possono essere lette come un riflesso distorto della nostra realtà: un universo distopico, molto simile in alcuni aspetti al mondo che conosciamo ma, al contempo, estremamente lontano. Il regista greco gioca con le iperboli, andando a enfatizzare e a portare all’estrema conseguenza le dinamiche che regolano la nostra società. Ci ritroviamo quindi catapultati a spiare un mondo scomodo, inquietante e apatico: non c’è infatti spazio per il calore e il sentimento, lo stesso modo in cui Lanthimos decide di inquadrare i corpi è estremamente freddo, distaccato e meccanico, del tutto privo di sensualità e seduzione, bensì abulico. L’autore vuole quindi creare una netta separazione tra il pubblico e i personaggi dei suoi film e questa mancanza di empatia viene raggiunta attraverso un’accurata scelta delle inquadrature: la macchina da presa è spesso al di sotto della linea dello sguardo dei personaggi, concentrandosi piuttosto sui loro busti, gambe e piedi; Lanthimos ricorre spesso a campi lunghissimi e campi lunghi, presentandoci i personaggi come soggetti distanti, in balia del mondo che li circonda. Questa scelta ha ovviamente accentuato una sensazione di straniamento, privando lo spettatore di empatia; quest’ultimo è infatti rilegato a ruolo di voyeur, figura passiva che spia e assiste passivamente: la camera è spesso collocata in posizioni angolari e questo ci permette di essere osservatori esterni e distanti.
In questa rappresentazione distopica della realtà Lanthimos gioca con il grottesco e il black humor, come dicevamo: i personaggi si esprimono in maniera monotonale creando contrasto tra ciò che dicono e come questi concetti vengono espressi. L’universo immaginato dal regista greco e le dinamiche sociali che lo regolano risultano quindi stranianti e surreali ma, al contempo, traggono spunto dalla nostra realtà: in The Lobster (2015), ad esempio, ci viene presentata un’iperbole, per quanto distorta e surreale, della pressione sociale che ci spinge a cercare un compagno o una compagna. Una riflessione interessante potrebbe essere volta a indagare il modo in cui i personaggi abbracciano e accettano passivamente le regole sociali, senza domandarsi la vera natura di quest’ultime ma accogliendole come fatti tautologici. Lanthimos si interroga proprio sull’arbitrarietà che si nasconde dietro le dinamiche sociali e, proprio come il padre in Dogtooth (2009), costruisce un mondo artefatto, regolato da convenzioni e dogmi finti, ma al quale noi crediamo, proprio come i giovani figli presenti nel film, passivi e apatici sonnambuli in totale balia della finzione.
Le opere di Lanthimos possono essere lette come un riflesso distorto della nostra realtà: un universo distopico, molto simile in alcuni aspetti al mondo che conosciamo ma, al contempo, estremamente lontano. Il regista greco gioca con le iperboli, andando a enfatizzare e a portare all’estrema conseguenza le dinamiche che regolano la nostra società. Ci ritroviamo quindi catapultati a spiare un mondo scomodo, inquietante e apatico: non c’è infatti spazio per il calore e il sentimento, lo stesso modo in cui Lanthimos decide di inquadrare i corpi è estremamente freddo, distaccato e meccanico, del tutto privo di sensualità e seduzione, bensì abulico. L’autore vuole quindi creare una netta separazione tra il pubblico e i personaggi dei suoi film e questa mancanza di empatia viene raggiunta attraverso un’accurata scelta delle inquadrature: la macchina da presa è spesso al di sotto della linea dello sguardo dei personaggi, concentrandosi piuttosto sui loro busti, gambe e piedi; Lanthimos ricorre spesso a campi lunghissimi e campi lunghi, presentandoci i personaggi come soggetti distanti, in balia del mondo che li circonda. Questa scelta ha ovviamente accentuato una sensazione di straniamento, privando lo spettatore di empatia; quest’ultimo è infatti rilegato a ruolo di voyeur, figura passiva che spia e assiste passivamente: la camera è spesso collocata in posizioni angolari e questo ci permette di essere osservatori esterni e distanti.
In questa rappresentazione distopica della realtà Lanthimos gioca con il grottesco e il black humor, come dicevamo: i personaggi si esprimono in maniera monotonale creando contrasto tra ciò che dicono e come questi concetti vengono espressi. L’universo immaginato dal regista greco e le dinamiche sociali che lo regolano risultano quindi stranianti e surreali ma, al contempo, traggono spunto dalla nostra realtà: in The Lobster (2015), ad esempio, ci viene presentata un’iperbole, per quanto distorta e surreale, della pressione sociale che ci spinge a cercare un compagno o una compagna. Una riflessione interessante potrebbe essere volta a indagare il modo in cui i personaggi abbracciano e accettano passivamente le regole sociali, senza domandarsi la vera natura di quest’ultime ma accogliendole come fatti tautologici. Lanthimos si interroga proprio sull’arbitrarietà che si nasconde dietro le dinamiche sociali e, proprio come il padre in Dogtooth (2009), costruisce un mondo artefatto, regolato da convenzioni e dogmi finti, ma al quale noi crediamo, proprio come i giovani figli presenti nel film, passivi e apatici sonnambuli in totale balia della finzione.
Simone Manciulli