Il sol dell'avvenire: una analisi
01/05/2023
Riceviamo e con piacere condividiamo quest'analisi di Mirta Tealdi sull'ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell'avvenire
In linea con una certa tendenza degli ultimi due, tre anni dove la pandemia da covid sembra abbia portato molti cineasti ad una riflessione e rielaborazione delle proprie istanze e del proprio percorso, seguendo un impulso più autobiografico e personale (vedasi ad esempio Sorrentino con É stata la mano di Dio, per rimanere in Italia, o Steven Spielberg con The Fabelmans); anche Nanni Moretti, dopo la tiepida accoglienza del suo precedente Tre piani, pare aver ritrovato sé stesso con Il Sol dell’Avvenire, non fosse altro che per il ritorno del suo straniato e sagace umorismo che, per la gioia dei suoi ammiratori, riappare fulgido e brillante. Un Nanni che strizza l’occhio furbo e stralunato al meglio della sua cinematografia. Moretti ha confezionato un film complesso (costruito su una sceneggiatura estremamente solida ma anche fluida) che finisce per diventare il più morettiano dei suoi ultimi film, e dove il regista può permettersi di essere se stesso senza risultare autocelebrativo, ma anzi evidenziando comicamente le esagerazioni del suo carattere “faticoso”, come gli dice la figlia Emma. E tutta morettiana è la riflessione politica, di una delle linee narrative. Il suo revisionismo diventa quindi occasione per cambiare la Storia, e allora ecco che nella finzione, alla luce dell’oggi, si può torcere la realtà e cambiarla, così come con un semplice “strap”, è facile togliere dal poster il dittatore Stalin e lasciare solo Lenin. Disillusione politica, forse, ma non ideologica.
Ci sono dunque due trame principali: quella in cui il regista Giovanni sta girando un film sull’invasione russa del’56 in Ungheria, con tutte le problematiche connesse alla produzione, alla realizzazione e alla promozione di un film di tale argomento, e poi c’è la trama che riguarda la sua vita personale e professionale, scandita dalle sue fantasiose idiosincrasie e affabulatorie manie, su cui si innesta la crisi con la moglie a cui è legato, anche professionalmente, da una vita.
L’opera diventa così una materia filmica composta di sottili strati interconnessi: la dimensione politica appunto. E poi la dimensione personale e professionale e non ultima quella metafilmica. Sul piano metacinematografico infatti il lungometraggio si può anche banalmente definire come il suo personale 8 e 1/2 per l’evidente omaggio a Fellini: con la sequenza finale della Dolce Vita e lo sguardo al futuro della giovane attrice (ma quel futuro lì è ormai stra-passato), e le riprese dell’arrivo del circo Budavari con cui celebra il grande maestro, citando anche sé stesso: (Palombella Rossa). Un’opera che guarda ai grandi maestri ma che ragiona anche sagacemente sul piano teorico, produttivo e distributivo dell’industria cinematografica contemporanea. A questo proposito è irresistibile il momento in cui Giovanni prende in ostaggio la troupe dell’enfatico giovane regista (di cui sua moglie Paola è la produttrice), in un impeto irrefrenabile di opposizione alla scena che stanno per girare. Una scena dove un uomo sta per ucciderne un altro inginocchiato e con una pistola puntata al viso. C’è una grande verve comica e c’è la solita esagerazione maniacale di Giovanni che ritma i tempi della comicità tra la disperazione di tutti. In realtà nonostante l’afflato ironico Moretti è serissimo e ci sta dando una grande lezione di Cinema citando nientemeno che Kieslowski e il suo Decalogo 5. Utilizzando un registro surreale e grottesco fa passare un concetto teorico, estetico e morale di grande valore: la banalizzazione della morte, rappresentata come spettacolarizzazione. Chiunque abbia visto la sequenza di Kieslowski di cui parla Moretti capisce il senso profondo delle sue parole come uomo di Cinema. Noi ridiamo ma lui parla con molta serietà.
Si schiera così contro un certo modo contemporaneo di messa in scena e gli oppone una sua personale poetica fatta forse di temi scarsamente commerciali ma che lui persegue con tenace ostinazione e totale libertà espressiva. E What a f…
Insomma Moretti si conferma uomo di cinema di lungo corso che sa tenere con mano ferma un materiale così eterogeneo e ci conduce dove vuole lui. Un re assoluto che oltre ad inventarlo abita il proprio mondo e noi lo seguiamo docili, emozionati e divertiti nel suo personale circo di complessità e leggerezza. Per Nanni, voltare pagina senza drammi è ancora possibile, nella Storia, nella vita e perché no anche nel Cinema.
Mirta Tealdi
In linea con una certa tendenza degli ultimi due, tre anni dove la pandemia da covid sembra abbia portato molti cineasti ad una riflessione e rielaborazione delle proprie istanze e del proprio percorso, seguendo un impulso più autobiografico e personale (vedasi ad esempio Sorrentino con É stata la mano di Dio, per rimanere in Italia, o Steven Spielberg con The Fabelmans); anche Nanni Moretti, dopo la tiepida accoglienza del suo precedente Tre piani, pare aver ritrovato sé stesso con Il Sol dell’Avvenire, non fosse altro che per il ritorno del suo straniato e sagace umorismo che, per la gioia dei suoi ammiratori, riappare fulgido e brillante. Un Nanni che strizza l’occhio furbo e stralunato al meglio della sua cinematografia. Moretti ha confezionato un film complesso (costruito su una sceneggiatura estremamente solida ma anche fluida) che finisce per diventare il più morettiano dei suoi ultimi film, e dove il regista può permettersi di essere se stesso senza risultare autocelebrativo, ma anzi evidenziando comicamente le esagerazioni del suo carattere “faticoso”, come gli dice la figlia Emma. E tutta morettiana è la riflessione politica, di una delle linee narrative. Il suo revisionismo diventa quindi occasione per cambiare la Storia, e allora ecco che nella finzione, alla luce dell’oggi, si può torcere la realtà e cambiarla, così come con un semplice “strap”, è facile togliere dal poster il dittatore Stalin e lasciare solo Lenin. Disillusione politica, forse, ma non ideologica.
Ci sono dunque due trame principali: quella in cui il regista Giovanni sta girando un film sull’invasione russa del’56 in Ungheria, con tutte le problematiche connesse alla produzione, alla realizzazione e alla promozione di un film di tale argomento, e poi c’è la trama che riguarda la sua vita personale e professionale, scandita dalle sue fantasiose idiosincrasie e affabulatorie manie, su cui si innesta la crisi con la moglie a cui è legato, anche professionalmente, da una vita.
L’opera diventa così una materia filmica composta di sottili strati interconnessi: la dimensione politica appunto. E poi la dimensione personale e professionale e non ultima quella metafilmica. Sul piano metacinematografico infatti il lungometraggio si può anche banalmente definire come il suo personale 8 e 1/2 per l’evidente omaggio a Fellini: con la sequenza finale della Dolce Vita e lo sguardo al futuro della giovane attrice (ma quel futuro lì è ormai stra-passato), e le riprese dell’arrivo del circo Budavari con cui celebra il grande maestro, citando anche sé stesso: (Palombella Rossa). Un’opera che guarda ai grandi maestri ma che ragiona anche sagacemente sul piano teorico, produttivo e distributivo dell’industria cinematografica contemporanea. A questo proposito è irresistibile il momento in cui Giovanni prende in ostaggio la troupe dell’enfatico giovane regista (di cui sua moglie Paola è la produttrice), in un impeto irrefrenabile di opposizione alla scena che stanno per girare. Una scena dove un uomo sta per ucciderne un altro inginocchiato e con una pistola puntata al viso. C’è una grande verve comica e c’è la solita esagerazione maniacale di Giovanni che ritma i tempi della comicità tra la disperazione di tutti. In realtà nonostante l’afflato ironico Moretti è serissimo e ci sta dando una grande lezione di Cinema citando nientemeno che Kieslowski e il suo Decalogo 5. Utilizzando un registro surreale e grottesco fa passare un concetto teorico, estetico e morale di grande valore: la banalizzazione della morte, rappresentata come spettacolarizzazione. Chiunque abbia visto la sequenza di Kieslowski di cui parla Moretti capisce il senso profondo delle sue parole come uomo di Cinema. Noi ridiamo ma lui parla con molta serietà.
Si schiera così contro un certo modo contemporaneo di messa in scena e gli oppone una sua personale poetica fatta forse di temi scarsamente commerciali ma che lui persegue con tenace ostinazione e totale libertà espressiva. E What a f…
Insomma Moretti si conferma uomo di cinema di lungo corso che sa tenere con mano ferma un materiale così eterogeneo e ci conduce dove vuole lui. Un re assoluto che oltre ad inventarlo abita il proprio mondo e noi lo seguiamo docili, emozionati e divertiti nel suo personale circo di complessità e leggerezza. Per Nanni, voltare pagina senza drammi è ancora possibile, nella Storia, nella vita e perché no anche nel Cinema.
Mirta Tealdi