Riceviamo e con piacere riportiamo l'analisi di I giorni del cielo (Days of Heaven) di Gisella Vitale
Days of Heaven, film del 1978 diretto da Terrence Malick, si apre sulle note di “Aquarium” – da Le Carnaval des Animaux- di Camille Saint-Saens, che accompagnano immagini d’epoca di figure e paesaggi rurali americani. Questa scelta preannuncia l’intensione del film di portare in scena una riflessione sul tempo, sulla memoria e soprattutto sull’impotenza dell’uomo davanti alla natura. Il film è ambientato nel 1916 e paesaggio rurale è il grande protagonista del film, sicuramente grazie al ruolo della fotografia, che con i suoi toni naturali e pastellati ci riporta ai quadri di Vermeer o Wyeth. Ed è proprio nei colori del cielo e dei suoi tramonti che possiamo trovare gli elementi del sublime che non ha un ruolo rassicurante, bensì è l’elemento che permette all’uomo di realizzare la propria piccolezza davanti alla natura. È quasi un pessimismo cosmico, che raggiunge il suo apice nella scena dell’incendio: scena tragica, dove i lavoratori con l’intento di scacciare delle locuste appiccano un incendio, distruggendo tutto il raccolto. È la scena madre del film, quella in cui la natura rivela tutta la sua potenza, prevalendo sull’impotenza dell’uomo. Pur essendo questa una scena tragica, Malick la filma con una delicatezza e una solennità che rendono un momento tragico quasi un’estasi visiva. Alla delicatezza delle immagini si aggiunge la colonna sonora, curata da Ennio Morricone, che accentua la solennità della natura e l’impotenza dell’uomo davanti a essa. Morricone accentua il dramma con una musica piena, ma ancora controllata. L’orchestrazione amplifica il senso di apocalisse ma anche di purificazione, quasi a rappresentare la fine di un ciclo. Gli stracci che si innalzano tra le fiamme sono sicuramente associati ad una richiesta d’aiuto (chiaramente utilizzati nel tentativo di spegnere le fiamme) ma allo stesso tempo da questi gesti ripetuti traspare un’instancabile resilienza, ricollegabile ad un‘immagine quale quella de La zattera della medusa di Géricault, dove disperazione e forza si uniscono in una rappresentazione solenne. La natura, infatti, durante tutto il film non punisce né premia, c’è sempre una sorta di devozione, di rassegnazione riconducibile al pessimismo cosmico di Leopardi, il quale afferma che l’infelicità è legata alla vita stessa dell’uomo, che è quindi destinato a soffrire per l’eternità e che la natura condanna all’infelicità senza possibilità di riscatto. In una sorta di sublime esistenziale, in cui l’uomo è destinato a scomparire davanti alla natura. La prevalsa della natura sull’uomo può essere analizzata anche come una decostruzione del sogno americano (la fuga dalla città, simbolo dell’io represso). In qualche modo, la fuga dei tre protagonisti: Bill, insieme a sua sorella Linda e Abby fuggono dal degrado e dalla disillusione, in cerca di una nuova vita che sembra piena di speranza, ma che cela ulteriori ingiustizie e sfruttamenti. Aspetti che possono essere ricollegati all’esodo biblico, alla ricerca della terra promessa. Ed è proprio così che il paesaggio rurale appare inizialmente, prospero e ricco di prospettive. Anche la musica che accompagna il viaggio è leggera e ariosa, mettendo in evidenza subito questo contrasto quando i personaggi arrivano alla dimora del loro padrone, dove a prevalere sono gli ordini di quest’ultimo e i movimenti dei lavoratori, a presagire quanto questo equilibrio di serenità sia solo apparente e temporaneo. L’amore tra Abby e Bill e il legame familiare che si crea dà una parvenza di stabilità, che finirà per sgretolarsi molto presto. Proprio nel momento in cui inizia a crearsi tensione tra Bill e Abby, la colonna sonora ricorda allo spettatore di essere soltanto tale: uno sguardo passivo che non ha possibilità di interagire o modificare ciò che sta osservando. Nel brano che sentiamo non ci sono particolari enfasi, la melodia è tranquilla, portando la tensione del momento ad emergere sempre di più. Una calma, ancora una volta, apparente. Anche la voce narrante contribuisce ad accentuare il senso di straniamento e rassegnazione: la voce che racconta le vicende è quella di Linda, la sorellina di Bill. La scelta di avere come voce narrante una bambina non è casuale. Linda narra le vicende in modo straniato, con l’innocenza di una bambina, senza giudizio, accettando gli avvenimenti che si susseguono, aspetto che appunto si associa alla rassegnazione umana. Lo straniamento è accentuato anche in un altro dei momenti di maggiore tensione del film: quello in cui Bill, dopo che anche l’equilibrio con Abby si è sgretolato, uccide il proprietario della fattoria: qui la musica è si, solenne, ma anche molto più tranquilla, Morricone carica di drammaticità il momento, ma non c’è un crescendo, né la tensione tipica di momenti così drammatici, tutto è tranquillo, quasi poetico, anche attraverso le note riusciamo a percepire la calma della rassegnazione, anche la musica in qualche modo è un osservatore impassibile. Le sequenze sono lunghe, lente, sempre accompagnate da colori caldi, ad accentuare la bellezza e la potenza della natura, che resta sovrana di fronte all’uomo che si distrugge con le sue mani. C’è un continuo intreccio tra sublime e ostile che arriva fino allo spettatore il quale, così come i personaggi del film, è impotente. Ulteriore scena di tensione che preannuncia il finale è quella della morte di Bill. Anche in questa sequenza prevale il contrasto con la natura: al pianto disperato sul corpo di Bill segue l’inquadratura del fiume che scorre inesorabile, simboleggiando il tempo che continua a scorrere, non curandosi di ciò che succede. Se l’uomo scompare, “finisce”, la natura continua il suo ciclo, e proprio come un fiume la vita di Lidia torna a scorrere, in un insieme di azioni normali e serene, caratterizzate da quella tranquillità che per tutto il film è stata sfuggente. Un collegamento fondamentale, soprattutto per il tipo di finale che il film ci presenta, è quello dell’idealismo trascendentale elaborato da Kant, nello specifico dello spazio e del tempo come forme A priori: secondo Kant lo spazio e il tempo non sono oggetti esterni da noi percepiti, bensì le forme attraverso cui la nostra mente struttura le esperienze sensibili e costituiscono quindi le condizioni necessarie per avere qualsiasi esperienza sensibile. Per tutto il film, infatti, i personaggi sono al servizio della natura, come se gli fosse “concesso” di vivere determinate esperienze, come se fosse la natura a decidere. Ed è interessante che l’inquadratura del fiume che scorre sia associata alla vita della bambina che continua il suo corso. Il fiume viene spesso utilizzato come metafora di cambiamento, del tempo che scorre e che porta con sé la vita e la morte. Ed è proprio ciò che succede ai due fratelli, il fiume scorre dopo la morte di Bill e procede con il futuro di Lidia, che fino a quel momento aveva narrato la storia in modo impersonale e distaccato e ora smette per iniziare a vivere la sua vita. Anche il simbolo del “pianoforte che suona da solo” può essere ricondotto al continuo senso di straniamento ricorrente in tutto il film: una sorta di incontro tra diegetico ed extradiegetico che contribuisce all’intreccio tra spettatori interni e pubblico. Nell’ultima sequenza del film ritorna una musica onirica, quasi un carillon (visto anche come un probabile richiamo all’approccio di Lidia con la danza). È come se in qualche modo si chiudesse il cerchio narrativo ed emotivo del film, con un ritorno rassegnato alla quotidianità ma da cui in questo caso traspare, non solo dalla musica ma anche dalle parole di Lidia, una speranza per il futuro.
Gisella Vitale