Il primo è già uscito lo scorso 6 Luglio, il secondo invece arriverà al cinema soltanto il prossimo 18 Agosto, entrambi sacrificati nel deserto della programmazione estiva ma tutt’e due a dir poco sorprendenti e assolutamente da non perdere: sono It Follows di David Robert Mitchell e The Witch di Robert Eggers, due horror chiave del nostro tempo che vedono la luce delle sale italiane a poco più di un mese di distanza l’uno dall’altro e che si sono imposti all’attenzione del pubblico e della critica nei mesi, o per meglio dire negli anni scorsi. Due film che parlano di paura in termini ancestrali e profondamente contemporanei, che non offrono certezze e paradigmi consolidati agli occhi dello spettatore (soprattutto il film di Mitchell, incentrato su un’entità sfuggente e non localizzabile, un it duro e puro) e che indagano la natura fenomenica dell’angoscia, in scia a un susseguirsi di interrogativi, misteri e tensioni che in entrambi i casi né si conoscono, né possono essere risolti.

In It Follows siamo nella Detroit disgregata e desertificata che i suoi abitanti e non solo hanno imparato a conoscere (raccontata in maniera indimenticabile da Jim Jarmusch in Only Lovers Left Alive): un’area urbana con sprazzi da autentico non-luogo, divisa tra la drastica diminuzione della popolazione e un inarrestabile sentore di declino. In The Witch, invece, ci spostiamo nel New England del diciassettesimo secolo, addentrandoci nelle radici profonde e oscure di uno Stato americano la cui rapida e fulminea industrializzazione è spesso coincisa con squilibri, diseguaglianze e asimmetrie altrettanto marcate, che nel film di Eggers si traducono nella violenza feroce di un’idea di mondo rurale e padronale, naturalmente superstiziosa, esoterica e predatoria, dove perfino la famiglia si riduce a vincolo sanguinolento privo di sicurezze. Innegabile che i due giovani registi traggano notevoli elementi di interesse dalle rispettive ambientazioni, utilizzandole come specchi riflettenti per i tremori e le insicurezze destabilizzanti delle loro storie.

Sia Mitchell che Eggers parlano con lo spazio e dello spazio nel quale le loro opere sono immerse, disegnano traiettorie perturbanti e non accomodanti, lavorano meravigliosamente sull’apparato sonoro (maestoso il contributo dei synth elettronici del compositore Disasterpeace in It Follows) e sulle luci (esemplare la fotografia Jarin Blaschke di The Witch, nei pieni come nei vuoti). Il risultato sono due romanzi di formazione ma soprattutto di di deformazione, che plasmano la realtà, o ciò che di essa può essere percepito, a misura di ossessione, raccontando l’esperienza della perversione con lucidità e schiettezza e seguendo il sentimento di inevitabile inadeguatezza che caratterizza ogni passaggio che si rispetti, dall’adolescenza alla fase adulta della vita.

La Thomasin di The Witch e la Jay Height di It Follows esperiscono sullo schermo un’estraneità rispetto a se stesse che pure le abita e le insegue, alimentando una contraddizione insolubile e nevrotica, sia esso un germe stregonesco fino a quel momento ignoto, come nel caso della prima, o un persecutore privo di nome e di motivazione, come accade alla seconda. Sta di fatto che in entrambe l’orrore, da sconosciuto che era, assume una dimensione estremamente privata, di fatto familiare e nello specifico paterna, in una sorta di complesso di Elettra non esplicitato: si pensi al rendez-vous di Thomasin e di suo padre, una delle scene più intense di The Witch, o alla manifestazione finale dell’entità di It Follows, che assume le sembianze del corpo del padre di Jay, intravisto in una fotografia all’inizio del film. Una delle tante assonanze di due horror che lavorano sull’assenza di baricentro, sull’en plein air, sull’evocazione, sulla componente ferina che sta dietro a ogni non detto e sul campo lungo, che in It Follows diventa addirittura un meccanismo insostituibile per far crescere a dismisura l’incertezza dello spettatore e le possibilità di individuazione di un carnefice che non è dato sapere da dove si materializzerà o farà capolino all’interno dell’inquadratura.

Se in It Follows la soggettiva carpenteriana diventa la massima forma di rappresentazione del mondo, l’unità di misura linguistica dalla quale non si può prescindere per ingigantire la sensazione che il bandolo delle nostre vite non ci appartenga più, The Witch lavora piuttosto sull’immobilità neoclassica dell’immagine, prontamente elusa però da spiazzamenti improvvisi, da dettagli accentratori dell’attenzione, lungo il perimetro di un’infanzia che assume contorni sempre più turbati e sempre meno rassicuranti. La regia di Mitchell fluttua, dilata a dismisura e affonda solo quando deve e la stessa cosa fa, in compenso, quella di Eggers: basta confrontare la scena della possessione del piccolo Caleb in The Witch e quella della piscina in It Follows, dove il punto di fuga rappresentato dalla presenza umana è solo un pretesto per scatenare l’orrore e le molteplici prospettive che intorno ad esso si ramificano. Per non parlare dei rispettivi finali, entrambi parimenti agghiaccianti e in grado di offrire un ribaltamento di prospettiva che moltiplica all’infinito ogni timore, esasperando e insieme azzerando ogni dubbio sul senso ultimo di quanto visto fino a quel momento.