La Doina delle memorie carbonizzate - Analisi di Carbon
22/04/2025
Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo l'analisi del film Carbon, scritta da Mihaela Teleaga, studentessa del Master MICA.


Moldova: un paese sospeso tra due mondi, ridotto in ceneri e intrappolato in un tempo che non passa. Il corpo aggrappato all’Unione Sovietica, l’anima rivolta all’Unione Europea. Una nazione divisa, con un’identità collettiva fossilizzata in una memoria bruciata, sospesa tra il desiderio di rinascita e l’impossibilità di dimenticare il passato.

In questa frattura si inserisce Carbon (2022), esordio di Ion Borș, realizzato con fondi statali e partner europei. Un’opera che interroga il presente scavando nel passato e dando voce a un’industria cinematografica fragile, ma in cerca di legittimazione internazionale. Il cinema diventa strumento critico e di denuncia, rivolto a una società che non ha mai elaborato il proprio passato sovietico e che oggi convive con contraddizioni irrisolte.

A fare da sfondo alla narrazione è guerra di Transnistria (1992) – conflitto fratricida breve, ma lacerante, combattuto tra la Moldova e la regione separatista filorussa a est del fiume Dniester – che ha lasciato una ferita aperta nella memoria collettiva e nell’identità nazionale. Eppure, nel film, non viene mai nominata, un’assenza significativa che restituisce l’immagine di un conflitto mai concluso, celato nel tempo trasformandosi in una guerra politica. 

Carbon non mostra il conflitto diretto, ma il suo riverbero: un’eco che attraversa paesaggi, corpi, silenzi, e fantasmi di un paese che fatica a riscrivere la propria storia. 

Un’ecco che si intensifica di più nell’attualità, da quando ai confini orientali della Moldova, le bombe hanno ricominciato a fare rumore. La guerra in Ucraina ha riattivato paure placate e confermato la precarietà geopolitica di un paese frammentato. In questo senso, Carbon, si configura come gesto politico e atto di riattivazione della memoria.

A dare corpo alla riflessione politica e simbolica del film sono due figure stereotipate della Moldavia post-sovietica - come se fossero caricature delle barzellette nazionali - Dima e Vasea. 

Vasea, soprannominato cântujnic[1], incarna la memoria traumatica del passato sovietico: un reduce segnato da guerre imposte e ideologie non scelte.  Dima, al contrario, rappresenta una generazione distaccata, per cui il passato sovietico è solo un’eco idealizzata. Si arruola per convenienza, rincorrendo un eroismo svuotato di senso. La loro dinamica incarna la frattura generazionale e ideologica del Paese.

La narrazione si apre con un’inquadratura ricca di significato: le porte che vengono aperte, da una figura anonima, suggeriscono l’accesso alla memoria e la disponibilità a raccontare ciò che è stato celato. 

Sin dai primi istanti, l’atmosfera si costruisce su toni ironici e confusionari: una colonna sonora che mescola il tono delle serie poliziesche americane anni ’90 – come CHiPs – al celebre brano moldavo Ioane, Ioane, il cui ritornello - sempre più insistente - diventa emblema della condizione di Moldova, un paese che rimane sveglio, sospeso tra il desiderio di scordare e perdonare il passato, e il peso di una memoria bruciata che, come il carbonio, è diventata una sostanza organica del suolo. 

L’insonnia diventa metafora politica, chi ha vissuto il trauma - o chi lo eredità - non può addormentarsi nel presente. Il riposo significherebbe dimenticare, adattarsi al passato, integrandolo nel presente. 

Mentre il telegiornale celebra la nascita della Repubblica Moldova e l’eroismo dei volontari, le immagini mostrano quegli stessi volontari impegnati a vendere le proprie armi sul mercato nero. È un invito a non credere a ciò che si ascolta, ma a osservare ciò che si vede. 

La vendita delle armi - strumento di difesa della patria - rappresenta la svendita della patria, del cinismo che antepone il profitto personale al bene comune. Quelle stesse armi - usate in seguito contro la Moldova dall'esercito della Transnistria - rendono visibile una frattura identitaria profonda, non fondata sul sangue, ma sulla memoria, sulla politica e sull'orientamento ideologico. Il conflitto non oppone due entità distinte, ma attraversa la nazione dall’interno: è la Moldova che combatte contro sé stessa.

Il film coinvolge lo spettatore attraverso un uso consapevole del linguaggio: da osservatore, è progressivamente condotto all’interno della narrazione, fino a identificarsi con il corpo carbonizzato – frammento bruciato di una memoria collettiva

Quel corpo annerito - privo di nome, bandiera o appartenenza - diventa allegoria di un’identità frammentata, intrappolata tra narrazioni contrastanti, confini instabili e appartenenze forzate. In questo vuoto, lo spettatore è chiamato a spogliarsi delle proprie certezze e a confrontarsi con un’assenza che riflette la fragilità della nazione moldava. 

Il cadavere non parla, ma dice: una materia silenziosa e resistente, come una memoria che non si dissolve, ma persiste sotto forma di residuo carbonizzato, ingombrando il presente.

Come il carbonio - che non si decompone, ma si cristallizza - anche la memoria collettiva moldava resta sospesa, non rielaborata, trasformata in scarto permanente e invisibile. Una memoria muta, incrostata sulla superficie sociale, che impedisce la nascita di una nuova narrazione condivisa.

Questa lettura trova ulteriore conferma nelle parole di Vasea, rivolte a Dima, ma destinate allo spettatore: una critica amara verso il nazionalismo vuoto e il discorso patriottico. Una denuncia collettiva, che invita a rimettere in discussione il senso stesso della guerra in Transnistria: conflitto fratricida tra popoli uniti da lingua e cultura, ma divisi da ideologie imposte.

Una delle sequenze più emblematiche di Carbon è l’incontro tra i protagonisti e il sacerdote del villaggio, a cui viene chiesta una sepoltura cristiana per il corpo carbonizzato. Dopo il rifiuto delle autorità civili, anche la Chiesa si mostra indifferente. Il prete, in paramenti sacri, benedice un veicolo carico di armi, mentre i protagonisti restano sullo sfondo, ignorati insieme al cadavere.

Attraverso un registro ironico e satirico, il film rovescia il sacro e il profano: le armi - strumenti della morte - sono al centro della scena e ricevano la benedizione da parte della Chiesa, mentre la memoria del trauma - rappresentata dal corpo - resta ai margini.

La religiosità ritrovata dopo l’ateismo di Stato si adatta alle logiche del potere, svuotandosi di senso. La spiritualità cede il passo all’utile: vita, lutto e memoria vengono marginalizzati a favore di ciò che garantisce controllo e consenso. I valori, come tutto il resto, sono diventati carbone: anneriti, svuotati, privi di sostanza, che sopravvivono solo come apparenze.

La marginalizzazione del cadavere riflette l’esclusione della memoria storica: il corpo resta fuori campo, come l’identità collettiva moldava, incapace di confrontarsi con il proprio passato. Nessuna preghiera, nessuna sepoltura: è un resto non elaborato, troppo scomodo per essere accolto nella narrazione ufficiale.

In una nazione segnato dalla guerra fratricida e da un’identità frammentata, la scelta di benedire strumenti di morte, invece che prendersi cura della memoria, suggerisce la persistenza di un ciclo irrisolto, dove viene protetto il potere e non la memoria.

Dopo numerose peripezie, Dima e Vasea raggiungono una piccola chiesa, portando con sé il corpo carbonizzato. Lo spazio sacro, scelto come rifugio, viene trasformato - con l’arrivo degli agenti del KGB - in un ambiente carico di tensione, dove sacralità e minaccia si sovrappongono.

La regia costruisce la scena attraverso un efficace gioco di luci e ombre: l’ambiente è illuminato unicamente da candele tremolanti e dalla luce naturale che filtra dalle finestre, proiettando ombre instabili. Ogni volto è diviso tra luce e tenebra, e l’atmosfera che ne risulta suggerisce una tensione morale irrisolta.

Per salvaguardare la propria vita, i protagonisti inscenano un atto di venerazione religiosa: si inginocchiano davanti al cadavere del leader transnistriano, Smirnov - identificato, erroneamente, proprio con il corpo carbonizzato. È una liturgia fittizia, dove la sacralità viene preformata per evitare la violenza. Piegarsi davanti al corpo carbonizzato equivale a piegarsi davanti al passato, a un'eredità ingombrante che continua a esercitare la propria influenza anche se apparentemente superata. 

L’ambiguità della scena è rafforzata dalla composizione: i protagonisti restano nell’ombra del cadavere - fulcro dell’inquadratura e soggetto da venerare, mentre il sacerdote irrompe con una preghiera che legittima il rito. Si tratta di un gesto profondamente politico: la religione non si pone più come coscienza morale, ma si adatta al contesto, accetta la simulazione. La sacralità è svuotata, ridotta a strumento di sopravvivenza individuale. Una dinamica che trova eco nella realtà politica moldava: durante le presidenziali del 2016, la Chiesa Ortodossa sostiene il candidato filorusso Dodon, piegandosi apertamente alla logica del potere. Il rito diventa performance, la fede simulazione.

La luce instabile che attraversa la scena riflette la fragilità del discorso nazionale: il buio che avvolge i personaggi non è solo visivo, ma culturale e politico, espressione di un’identità ancora irrisolta.

L’eredità sovietica, come un’ombra persistente, riaffiora nella bandiera che sventola sullo sfondo: simile a quella ufficiale, ma cucita con frammenti dell’URSS e della Transnistria.

Non è un compromesso tra passato e presente, ma tra due versioni del presente: quella ufficiale e quella che sopravvive oltre il confine. La Moldova non si confronta soltanto con la propria storia, ma con un’alterità interna.

Il gesto di ricucire la bandiera diventa atto di sottomissione silenziosa, o di ammissione d'impotenza: la realtà di una sovranità incompiuta.  È il segno di una società che non ha ancora scelto da che parte stare, o che forse non può permettersi di scegliere. Una scena che funziona come specchio della Moldavia contemporanea, divisa tra due sfere d’influenza, due alfabeti, due memorie. Tuttavia, non è una separazione netta, ma una convivenza forzata tra elementi discordanti. Nella Moldova contemporanea, l’alfabeto latino e quello cirillico coesistono, e sebbene rappresentino due mondi simbolici opposti, sono entrambi leggibili da tutti. La distanza non è linguistica, né tanto meno culturale, è politica, si tratta di una frattura della memoria - proprio come la frattura nel monumento dedicato ai caduti in guerra - non della parola. 

Questo dualismo si riflette anche nei risultati elettorali: nonostante la vittoria di Maia Sandu nel 2020 e nel 2024, il voto interno ha premiato il fronte filorusso. Questo risultato, assieme alla bandiera cucita con il passato, è la materializzazione visiva di un'identità nazionale costruita sul compromesso e sulla rimozione, cucita con le stoffe del passato e mantenuta insieme da fili instabili. Tale metafora suggerisce che sul territorio nazionale, il passato non è stato superato, ma assimilato: sopravvive come nostalgia, pragmatismo, paura del cambiamento.

Come la bandiera, il passato è diventato parte del presente non per scelta, ma per necessità. La vecchia identità, mai realmente abbandonata, si è trasformata in una memoria imposta, tollerata più che condivisa.

Nessuno dei personaggi la nota, nessuno la commenta: è proprio questo silenzio a renderla simbolica. È stata accettata, è diventata parte del paesaggio, un pezzo di realtà che non si può - o non si vuole - più mettere in discussione.

In questa immagine finale, Carbon lascia allo spettatore una domanda muta ma centrale: si può davvero immaginare un futuro, se il tessuto della nazione è ancora ricamato con le stoffe dell’ideologia che si voleva superare?


 
Mihaela Teleaga

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