La donna che visse due volte: le vostre analisi!
17/05/2021
Durante il workshop dedicato all'analisi del capolavoro di Alfred Hitchcock, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi su questo film straordinario: ecco il lavoro che ha meritato la pubblicazione!
Guido Nosari
Analisi de La donna che visse due volte
"So we beat on, boats against the current": lungo il fiume del tempo, inseguendo la luce verde
Il passato è forse una delle dimensioni più diffusamente affrontate dai cineasti di tutti i tempi, ed è facilmente intuibile come l’ineluttabilità del suo stesso incedere lo renda oggetto di uno sguardo tendenzialmente sofferto ma allo stesso concupiscente sull’intrinseca perdita ad esso legata.
“La donna che visse due volte” si declina, ad una prima occhiata, sul registro del thriller, di un ipnotico viaggio noir attraverso gli occhi, talora trasognati talora angosciati, del Detective John Ferguson/Scottie, intimo alter ego del regista medesimo. Il tentativo di Scottie di ritorno ad una pseudo-normalità, dopo un drammatico incidente lavorativo, diventa in ultima istanza un volano per una riflessione di Hitchcock di clamoroso spessore esistenziale sul tema del tempo e del ricordo, con risultati tali da rendere questa produzione la colonna portante della sua cifra stilistica.
L’indagine su tali temi avvicina Hitchcock ad un altro gigante della cultura anglosassone, quel F. Scott Fitzgerald che nel suo “Il grande Gatsby” ha dipinto forse l’affresco più malinconico e profondo in assoluto dell’inconciliabile dialettica fra vita e ricordo. La frase conclusive di quest’opera (riportata nel titolo del paragrafo) risulterebbe infatti quanto mai appropriata anche sulle labbra del nostro Scottie nella sua definitiva solitudine in cima al campanile, nell’ultima scena del film (scena che Hitchcock lascia volutamente silenziosa e insatura, in modo da renderla per gli spettatori un vettore di significato “ad ampio raggio”).
Jay Gatsby e John Ferguson sono ambedue “sacerdoti” e custodi della luce verde, il nucleo di simbolizzazione della loro intera apertura esistenziale, volta ad un tragico tentativo di recupero e attualizzazione di un passato mai vissuto ma ferocemente desiderato.
Le romance dei due personaggi di fatto appartengono a una dimensione fantasmatica, sono proiezioni di infinita gratificazione che i protagonisti eleggono a motore delle proprie esistenze. Questo anelito di concretare nel mondo reale i fantasmi del proprio desiderio viene dipinto dai due autori nella forma di una luce verde, pur con connotazioni leggermente diverse.
Nel caso di Hitchcock, la luce verde è parte di un apparato iconografico-simbolico trasversale a tutta la sua cinematografia. Lo scopo primario di tale simbologia è guidare lo spettatore nello sviluppo semantico delle scene-chiave: il verde è il colore della reverie, dei fantasmi, dell’intersezione tra piani temporali. Esso compare una prima volta, maestoso e quasi abbacinante, nella scena del primo incontro con Madeleine, come un’isola malinconica nell’oceano rosso che avvolge gli ambienti. La compresenza dei due colori sembra quasi voler suggerire come negli sviluppi di trama la passione amorosa risulterà sempre embricata con la malinconia del ricordo.
Ma forse la scena più universalmente nota in questo senso, ove l’aura verde risulta un vero e proprio protagonista aggiunto, è quella dell’”epifania”, del riconoscimento della perduta Madeleine nella persona della ben più prosaica Judy da parte di Scottie. In questa scena l’aura verde risulta una sorte di canale dimensionale tra lo spettatore e il protagonista, di fatto consente una totale comunione di punti di vista. Attraverso l’aura verde che circonda Madeleine/Judy, lo spettatore è reso partecipe dell’emozione soverchiante di John, della sua ebbrezza nell’illusione del ricordo tornato realtà. Il movimento vorticoso di camera, che sembra abbracciare i protagonisti, enfatizza ancora di più questo illusorio “cortocircuito” tra piani temporali, questo miracolo che solo il cinema può compiere nell’unificare dimensioni inconciliabili quali passato e presente, vita e morte, realtà e fantasmi.
In ambedue questi casi, la luce verde è una dimensione per lo più extradiegetica, è un artifizio cinematografico ad elevato contenuto simbolico inserito nel complesso codice simbolico di Hitchcock (insieme, ad esempio, alla colonna sonora, che svolge un ruolo parimenti cruciale nel realizzare l’identificazione emotiva tra protagonista e spettatore).
Diverso è il caso del Grande Gatsby, ove la luce verde è un elemento fortemente diegetico, un interlocutore concreto e costante del protagonista. “Gatsby believed in the green light”; la luce verde è materialmente il faro sul molo della casa di Daisy dall’altro lato della baia rispetto alla villa di Gatsby, è il centro di gravità dell’ubriacante parabola di vita del tormentato protagonista. La prima rappresentazione che l’autore fornisce di Gatsby lo vede inquieto in una solitudine notturna, con la mano protesa verso il bagliore verde che occhieggia tra la nebbia, a cui si rivolge come “Daisy….”. Gatsby incarna l’universale paradosso umano dell’essere obbligati vivere una temporalità “in avanti” riuscendo tuttavia a comprenderla solo “all’indietro”, ovvero nella dimensione della reminiscenza. Nel suo sostanziale immobilismo esistenziale, dettato dall’essere costantemente rivolto al passato, è facile per chiunque riconoscersi; in particolare può farlo Scottie, congelato dal ricordo di Madeleine e integralmente teso ad un’impossibile istanza di recupero del tempo sfuggito.
È interessante notare come tempo e amore siano spesso avviluppati, in questi due Autori, in una sorta di incomunicabile dialettica; al netto dei momenti dell’infatuazione e della lussuria, (intrinsecamente legati alla temporalità del presente) sembra che il sentimento amoroso possa svilupparsi solo nella direzione dell’ideale, che per sua natura rifugge l’imperfezione materica del presente per svilupparsi invece nella dimensione apollinea di un passato idealizzato. Si genera così il paradosso per cui il sentimento più dirompente (e “immanente” per definizione) dell’esperienza umana cresca nel terreno per lui concettualmente più inospitale, quello di un tempo passato: indubbiamente glorioso attraverso la lente del ricordo, ma scevro di ogni vitalità e spazio evolutivo. È solo attraverso lo sguardo “terzo” di Nick Carraway che emerge tutta la dimensione tragica del personaggio di Gatsby. È solo attraverso questo punto di vista che anche lo spettatore di Hitchcock può identificare Daisy/Madeleine nella loro effettiva natura: evanescenze prive di consistenze, illusioni di un tempo morto, promesse mendaci di riconciliazione con un passato popolato da spettri. Sembra quasi una crudele ironia che il colore verde, in buona parte dell’iconografia occidentale, sia invece inteso comunemente come il colore della speranza, giacché nel caso dei nostri due personaggi mai speranza fu più ingannevole.
La performance attoriale di Stewart probabilmente raggiunge in questo film lo zenit della sua carriera; l’attore protagonista riesce sapientemente a mescere la sua allure di uomo “del fare”, concreto e stenico, con le inquietudini dei suoi fantasmi. In questo caso, risulta quanto mai evidente lo stacco rispetto ai suoi lavori pre-belllici, ove Stewart aveva impersonato per lo più ruoli connotati da risonanza ottimistica e leggera vitalità. Nel suo John emerge stridente l’antinomia tra la iniziale regolarità di una vita “borghese” e di un’identità solida con il successivo sprofondare un gioco di ombre, di sguardi allucinati, di movimenti nevrotici e angosciati. Nella progressiva evoluzione dell’impostazione di mimica, tono vocale e motricità Stewart dipinge magistralmente la caduta di un uomo dalle sue certezze di vita per inseguire un canto di sirena, perseguendo un abbandono della realtà a favore dell’ideale.
Leggermente diverso è il caso di Gatsby, nelle sue varie interpretazioni. Daisy è per lui il punto di arrivo della sua trasformazione, la motivazione che lo spinge a diventare “Grande”. Ben ponderato e pianificato è il suo progetto di evoluzione, a differenza del vertiginoso abisso in cui sprofonda Scotte.
Anche Gatsby comunque, al pari del personaggio di Hitchcok, proietta nella donna amata ogni sua insicurezza o speranza in un’ottica di redenzione, rendendo sia Daisy che Madeleine due simulacri riempiti di aspettative irrazionalmente elevate. Nessuno dei due progetti di relazione infatti sopravvive al contatto con la realtà. Ormai in perenne contemplazione estatica del proprio ideale di Madeleine (con i suoi connotati ipertrofici di mistero, raffinatezza ed aristocrazia in ogni declinazione) Scottie rifugge sia dalla più concreta Judie sia dalla fedele amica – caregiver Midge, di fatto le sue due uniche “occasioni” reali di tradurre i suoi demoni in una effettiva relazione sentimentale. La sua ossessione assume presto una dimensione patologica di derealizzazione, portandolo ad un ricovero psichiatrico, trovando poi un momentaneo palliativo nella relazione con Judy.
Allo stesso modo, seppur con esiti meno clamorosi, Gatsby “era venuto da cosi lontano e il suo sogno deve esserli sembrato così vicino, da non credere di non poterlo afferrare, ma non sapeva di averlo già alle spalle.." e “..si era gettato in quella storia con una passione creativa, accrescendola continuamente, ornandola con tutte le piume più colorate trovate sulla sua strada. Non c'è fuoco o gelo che possa sfidare ciò che un uomo può immagazzinare nella sua anima...”.
Nei passaggi finali del film, per Scottie questa fiamma creatrice assume anche connotati profondamente oscuri; al pari di un crudele demiurgo che voglia modellare il mondo concreto al fine di renderlo all’altezza del proprio mondo degli ideali, John arriva a praticare una forma di perversa violenza su Judy, obbligandola a ricreare la perduta illusione di Madeleine in ogni suo aspetto, fino alla tragica scena finale.
Sul finale de “La donna che visse due volte” probabilmente intere generazioni di cinefili si sono interrogati sul significato delle azioni del protagonista, sul messaggio intrinseco al suo tentativo quasi prometeico di inseguire una dimensione ideale a scapito di una reale.
Una possibile chiave di lettura potrebbe essere: “.. credeva nella luce verde, nel futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ieri c'è sfuggito, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia… e un bel mattino… Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”
Guido Nosari
Analisi de La donna che visse due volte
"So we beat on, boats against the current": lungo il fiume del tempo, inseguendo la luce verde
Il passato è forse una delle dimensioni più diffusamente affrontate dai cineasti di tutti i tempi, ed è facilmente intuibile come l’ineluttabilità del suo stesso incedere lo renda oggetto di uno sguardo tendenzialmente sofferto ma allo stesso concupiscente sull’intrinseca perdita ad esso legata.
“La donna che visse due volte” si declina, ad una prima occhiata, sul registro del thriller, di un ipnotico viaggio noir attraverso gli occhi, talora trasognati talora angosciati, del Detective John Ferguson/Scottie, intimo alter ego del regista medesimo. Il tentativo di Scottie di ritorno ad una pseudo-normalità, dopo un drammatico incidente lavorativo, diventa in ultima istanza un volano per una riflessione di Hitchcock di clamoroso spessore esistenziale sul tema del tempo e del ricordo, con risultati tali da rendere questa produzione la colonna portante della sua cifra stilistica.
L’indagine su tali temi avvicina Hitchcock ad un altro gigante della cultura anglosassone, quel F. Scott Fitzgerald che nel suo “Il grande Gatsby” ha dipinto forse l’affresco più malinconico e profondo in assoluto dell’inconciliabile dialettica fra vita e ricordo. La frase conclusive di quest’opera (riportata nel titolo del paragrafo) risulterebbe infatti quanto mai appropriata anche sulle labbra del nostro Scottie nella sua definitiva solitudine in cima al campanile, nell’ultima scena del film (scena che Hitchcock lascia volutamente silenziosa e insatura, in modo da renderla per gli spettatori un vettore di significato “ad ampio raggio”).
Jay Gatsby e John Ferguson sono ambedue “sacerdoti” e custodi della luce verde, il nucleo di simbolizzazione della loro intera apertura esistenziale, volta ad un tragico tentativo di recupero e attualizzazione di un passato mai vissuto ma ferocemente desiderato.
Le romance dei due personaggi di fatto appartengono a una dimensione fantasmatica, sono proiezioni di infinita gratificazione che i protagonisti eleggono a motore delle proprie esistenze. Questo anelito di concretare nel mondo reale i fantasmi del proprio desiderio viene dipinto dai due autori nella forma di una luce verde, pur con connotazioni leggermente diverse.
Nel caso di Hitchcock, la luce verde è parte di un apparato iconografico-simbolico trasversale a tutta la sua cinematografia. Lo scopo primario di tale simbologia è guidare lo spettatore nello sviluppo semantico delle scene-chiave: il verde è il colore della reverie, dei fantasmi, dell’intersezione tra piani temporali. Esso compare una prima volta, maestoso e quasi abbacinante, nella scena del primo incontro con Madeleine, come un’isola malinconica nell’oceano rosso che avvolge gli ambienti. La compresenza dei due colori sembra quasi voler suggerire come negli sviluppi di trama la passione amorosa risulterà sempre embricata con la malinconia del ricordo.
Ma forse la scena più universalmente nota in questo senso, ove l’aura verde risulta un vero e proprio protagonista aggiunto, è quella dell’”epifania”, del riconoscimento della perduta Madeleine nella persona della ben più prosaica Judy da parte di Scottie. In questa scena l’aura verde risulta una sorte di canale dimensionale tra lo spettatore e il protagonista, di fatto consente una totale comunione di punti di vista. Attraverso l’aura verde che circonda Madeleine/Judy, lo spettatore è reso partecipe dell’emozione soverchiante di John, della sua ebbrezza nell’illusione del ricordo tornato realtà. Il movimento vorticoso di camera, che sembra abbracciare i protagonisti, enfatizza ancora di più questo illusorio “cortocircuito” tra piani temporali, questo miracolo che solo il cinema può compiere nell’unificare dimensioni inconciliabili quali passato e presente, vita e morte, realtà e fantasmi.
In ambedue questi casi, la luce verde è una dimensione per lo più extradiegetica, è un artifizio cinematografico ad elevato contenuto simbolico inserito nel complesso codice simbolico di Hitchcock (insieme, ad esempio, alla colonna sonora, che svolge un ruolo parimenti cruciale nel realizzare l’identificazione emotiva tra protagonista e spettatore).
Diverso è il caso del Grande Gatsby, ove la luce verde è un elemento fortemente diegetico, un interlocutore concreto e costante del protagonista. “Gatsby believed in the green light”; la luce verde è materialmente il faro sul molo della casa di Daisy dall’altro lato della baia rispetto alla villa di Gatsby, è il centro di gravità dell’ubriacante parabola di vita del tormentato protagonista. La prima rappresentazione che l’autore fornisce di Gatsby lo vede inquieto in una solitudine notturna, con la mano protesa verso il bagliore verde che occhieggia tra la nebbia, a cui si rivolge come “Daisy….”. Gatsby incarna l’universale paradosso umano dell’essere obbligati vivere una temporalità “in avanti” riuscendo tuttavia a comprenderla solo “all’indietro”, ovvero nella dimensione della reminiscenza. Nel suo sostanziale immobilismo esistenziale, dettato dall’essere costantemente rivolto al passato, è facile per chiunque riconoscersi; in particolare può farlo Scottie, congelato dal ricordo di Madeleine e integralmente teso ad un’impossibile istanza di recupero del tempo sfuggito.
È interessante notare come tempo e amore siano spesso avviluppati, in questi due Autori, in una sorta di incomunicabile dialettica; al netto dei momenti dell’infatuazione e della lussuria, (intrinsecamente legati alla temporalità del presente) sembra che il sentimento amoroso possa svilupparsi solo nella direzione dell’ideale, che per sua natura rifugge l’imperfezione materica del presente per svilupparsi invece nella dimensione apollinea di un passato idealizzato. Si genera così il paradosso per cui il sentimento più dirompente (e “immanente” per definizione) dell’esperienza umana cresca nel terreno per lui concettualmente più inospitale, quello di un tempo passato: indubbiamente glorioso attraverso la lente del ricordo, ma scevro di ogni vitalità e spazio evolutivo. È solo attraverso lo sguardo “terzo” di Nick Carraway che emerge tutta la dimensione tragica del personaggio di Gatsby. È solo attraverso questo punto di vista che anche lo spettatore di Hitchcock può identificare Daisy/Madeleine nella loro effettiva natura: evanescenze prive di consistenze, illusioni di un tempo morto, promesse mendaci di riconciliazione con un passato popolato da spettri. Sembra quasi una crudele ironia che il colore verde, in buona parte dell’iconografia occidentale, sia invece inteso comunemente come il colore della speranza, giacché nel caso dei nostri due personaggi mai speranza fu più ingannevole.
La performance attoriale di Stewart probabilmente raggiunge in questo film lo zenit della sua carriera; l’attore protagonista riesce sapientemente a mescere la sua allure di uomo “del fare”, concreto e stenico, con le inquietudini dei suoi fantasmi. In questo caso, risulta quanto mai evidente lo stacco rispetto ai suoi lavori pre-belllici, ove Stewart aveva impersonato per lo più ruoli connotati da risonanza ottimistica e leggera vitalità. Nel suo John emerge stridente l’antinomia tra la iniziale regolarità di una vita “borghese” e di un’identità solida con il successivo sprofondare un gioco di ombre, di sguardi allucinati, di movimenti nevrotici e angosciati. Nella progressiva evoluzione dell’impostazione di mimica, tono vocale e motricità Stewart dipinge magistralmente la caduta di un uomo dalle sue certezze di vita per inseguire un canto di sirena, perseguendo un abbandono della realtà a favore dell’ideale.
Leggermente diverso è il caso di Gatsby, nelle sue varie interpretazioni. Daisy è per lui il punto di arrivo della sua trasformazione, la motivazione che lo spinge a diventare “Grande”. Ben ponderato e pianificato è il suo progetto di evoluzione, a differenza del vertiginoso abisso in cui sprofonda Scotte.
Anche Gatsby comunque, al pari del personaggio di Hitchcok, proietta nella donna amata ogni sua insicurezza o speranza in un’ottica di redenzione, rendendo sia Daisy che Madeleine due simulacri riempiti di aspettative irrazionalmente elevate. Nessuno dei due progetti di relazione infatti sopravvive al contatto con la realtà. Ormai in perenne contemplazione estatica del proprio ideale di Madeleine (con i suoi connotati ipertrofici di mistero, raffinatezza ed aristocrazia in ogni declinazione) Scottie rifugge sia dalla più concreta Judie sia dalla fedele amica – caregiver Midge, di fatto le sue due uniche “occasioni” reali di tradurre i suoi demoni in una effettiva relazione sentimentale. La sua ossessione assume presto una dimensione patologica di derealizzazione, portandolo ad un ricovero psichiatrico, trovando poi un momentaneo palliativo nella relazione con Judy.
Allo stesso modo, seppur con esiti meno clamorosi, Gatsby “era venuto da cosi lontano e il suo sogno deve esserli sembrato così vicino, da non credere di non poterlo afferrare, ma non sapeva di averlo già alle spalle.." e “..si era gettato in quella storia con una passione creativa, accrescendola continuamente, ornandola con tutte le piume più colorate trovate sulla sua strada. Non c'è fuoco o gelo che possa sfidare ciò che un uomo può immagazzinare nella sua anima...”.
Nei passaggi finali del film, per Scottie questa fiamma creatrice assume anche connotati profondamente oscuri; al pari di un crudele demiurgo che voglia modellare il mondo concreto al fine di renderlo all’altezza del proprio mondo degli ideali, John arriva a praticare una forma di perversa violenza su Judy, obbligandola a ricreare la perduta illusione di Madeleine in ogni suo aspetto, fino alla tragica scena finale.
Sul finale de “La donna che visse due volte” probabilmente intere generazioni di cinefili si sono interrogati sul significato delle azioni del protagonista, sul messaggio intrinseco al suo tentativo quasi prometeico di inseguire una dimensione ideale a scapito di una reale.
Una possibile chiave di lettura potrebbe essere: “.. credeva nella luce verde, nel futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ieri c'è sfuggito, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia… e un bel mattino… Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”