La timidezza delle chiome: un viaggio emozionale nei meandri della crescita che vi folgorerà sulla lunga distanza.
11/09/2022
Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo questo pezzo-intervista realizzato da Nicolò Barretta.
Valentina Bertani, nata a Mantova nel 1984, l’estro ce l’ha insito nel dna, fin da quando bambina, insieme a sua sorella Nicole passava le proprie notti a guardare film dell’orrore: “Profondo rosso”, “It”, “Arancia meccanica”, con la complicità della propria mamma (una nota creatrice di bambole) che, poiché aveva paura a guardare quel determinato genere da sola, si avvaleva delle figlie, completamente ignare di quello che avrebbero assistito, per trascorrere serate indelebili all’insegna del brivido, in compagnia di grandi registi della storia del cinema.
Ed è proprio in una di quelle innumerevoli visioni “clandestine” che è scaturita in Valentina una passione sfrenata per il mondo dell’audiovisivo, dapprima musicale, in qualità di regista di videoclip per noti cantanti e gruppi nazionali (Ligabue, Negramaro, Arisa, Stadio, Dolcenera, Grignani) e poi con la maturità per quello della regia prettamente cinematografica.
Nel 2016 ha diretto la seconda unità del lungometraggio internazionale Disney: “Tini, the new life of Violetta”. Successivamente ha realizzato per Fox Channel un documentario su Luciano Ligabue.
Da poco ha presentato in anteprima al Festival di Venezia nella sezione Notti Veneziane delle Giornate degli Autori la sua opera prima “La timidezza delle chiome”, una co-produzione Italia – Israele, prodotto da Diaviva per l’Italia e Movieplus per Israele, realizzata con il sostegno di MiBACT e NFCT e distribuita in Italia da I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection.
L’opera, che abbiamo avuto il privilegio di vedere in anteprima a Venezia, conferma il talento di Bertani nel rappresentare la realtà quotidiana, in questo caso quella di due gemelli ebrei omozigoti con disabilità intellettiva, con uno sguardo disincantato, graffiante e a tratti viscerale che scalfisce il cuore degli spettatori, proiettandoli a vivere un viaggio emozionale nei meandri della crescita che li folgorerà sulla lunga distanza.
Al centro della vivida drammaturgia che mescola sequenze reali ad altre riadattate, sceneggiata dalla stessa regista in collaborazione con Emanuele Milasi, Alessia Rotondo e Irene Pollini Giolai, due ragazzi appena ventenni che si confrontano con le restrizioni imposte dalle altre persone, senza però avere il timore di affrontarli a testa alta, ripresi costantemente in movimento: a piedi, in auto, in bici, espressione simbolica di una libertà, la loro, che si libra in un affollato cielo stellato, irto di difficoltà, ma anche di buoni propositi.
Alla luce di quello che per la nostra redazione si è rivelato il vero e proprio colpo di fulmine della sezione Notti Veneziane, abbiamo deciso di dedicare uno spazio introspettivo alla regista, in modo tale che potesse svelarci ulteriori aneddoti sul film che presto vedrà la luce anche nelle nostre sale.
Partiamo dal bellissimo titolo, che cosa sottintende?
“È un titolo che ho voluto fortemente e del quale sono molto orgogliosa. Si tratta di un fenomeno botanico che consiste nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano, andando a comporre quello che dall’alto è descrivibile come un mosaico e che rappresenta un’efficace metafora visiva per raccontare la vita di Benjamin e Josh che, dopo essere cresciuti in simbiosi, pensano ora ad emanciparsi, prendendo due strade diverse per non farsi ombra a vicenda”.
All’inizio del film si vedono i gemelli intenti a correre. Verso che cosa corrono?
“Verso il loro futuro, un futuro in cui secondo me possono davvero intraprendere entrambi un percorso attoriale perché sono stati molto bravi ad interpretare alcune scene di finzione, come ad esempio quelle girate nel campeggio che hanno richiesto un arduo lavoro di immedesimazione”.
Come hai conosciuto i gemelli?
“Li ho conosciuti nel 2017 a Milano. Era primavera e stavo camminando sui Navigli, quando la mia attenzione si spostò su due ragazzi che sembravano usciti da un film indipendente americano di Harmony Korine o Todd Solondz, tra i miei registi indie preferiti. Ho provato a fermali, ma loro hanno continuato a camminare, senza degnarci di uno sguardo.
Osservandoli meglio, mi sono poi accorta (data la mia formazione pregressa in ambito psico-pedagogico) che avevano una disabilità intellettiva.
Li ho lasciati andare sul momento, salvo poi rendermi conto di essermi lasciata sfuggire una potenziale storia.
Da quel momento è partita una vera e propria caccia all’uomo, agli uomini in questo caso, e ho percorso in lungo e largo tutto il quartiere dei Navigli per chiedere a tutti i negozi storici se avessero informazioni da fornirmi sui due fratelli.
Ben presto scoprii che erano noti a tutti e che i loro genitori erano stati proprietari del locale jazz “Le scimmie”. Ho quindi recuperato il numero della mamma, senza sapere cosa dirle e che lavoro intendessi fare con i suoi figli, dicendole solamente che avevo girato un documentario su Ligabue, per cercare di far subito breccia nel suo cuore.
La donna, dopo avere visto i miei lavori, mi ha richiamato e io e i miei sceneggiatori abbiamo organizzato un incontro a Cusago dove la famiglia Israel risiede”.
Come hai catturato la loro fiducia?
“Non è stato affatto semplice perché inizialmente la mamma era restia a parlarci delle disabilità intellettive dei propri figli e non sapevamo bene come muoverci. I gemelli inoltre erano indisposti nei nostri confronti e non volevano scendere le scale per incontrarci. Allora, semplicemente, in modo del tutto spontaneo, ho proposto loro di andare a prendere un gelato e con mia grande gioia hanno acconsentito di buon grado. In particolar modo sono rimasta colpita dalla spiccata sensibilità di Benjamin che ha scelto di indossare una fascia floreale a fiori di sua mamma.
Appena ho avuto modo di stare del tempo con loro, ho immediatamente capito che avevano un potenziale comedy innato: memorabile, a tal proposito, la battuta di Ben davanti alla tomba del nonno in Israele: mi dispiace vederlo così pietrificato!
Basti pensare inoltre che ci hanno costretto a giocare una partita di calcio senza porte, con delle regole completamente inventate da loro. Un’esperienza assolutamente irripetibile!”.
In che modo hai messo in scena la disabilità intellettiva? Come sei riuscita ad evitare stereotipi o facili ipocrisie?
“I ragazzi stessi sono già fuori da ogni stereotipo, lo stereotipo infatti è nell’occhio di chi guarda. Io stessa, facendo parte della comunità queer, non potrei mai avere dei pregiudizi. Abbiamo inoltre studiato tantissimo dagli attivisti con disabilità, coinvolgendo Henry Scorner e Max Ulivieri. Henry è un tiktoker con disabilità fisica che sa parlare ai giovani in modo diretto e vero, mentre Max Ulivieri è fondatore di Lovegivers, un’associazione che si occupa di offrire assistenza sessuale per persone disabili. Tutti e due hanno visto il film in anteprima, prima della chiusura del montaggio, per fornire il loro parere sulla corretta rappresentazione della disabilità all’interno del film. E il responso è stato estremamente positivo”.
I gemelli sono entrambi di fede ebraica. Quanto la componente religiosa ha influito sulla loro crescita?
“Tantissimo perché il padre Sergio, una delle persone più colte e divertenti che abbia mai conosciuto, ha deciso di utilizzare i precetti del suo credo come guida per dare regole ben definite ai figli. Entrambi poi fanno parte di Hashomer Hatzair, un movimento scout giovanile sionista”.
Josh vive la sua sessualità in modo molto intenso. Come hai gestito questa sua caratteristica?
“Non l’ho assolutamente gestita, ma l’ho semplicemente raccontata, sono rimasta vittima del suo fare spontaneo e talvolta sopra le righe. Anche nella scena sotto alla doccia (assolutamente determinante a livello diegetico per cogliere le sfumature del suo carattere) gli ho lasciato libero arbitrio.
Vi svelo a tal proposito un dettaglio interessante: la vicenda che ruota attorno ad una prostituta, da lui stesso invitata a casa dei suoi genitori è del tutto vera: la donna ha rotto davvero il vetro dell’abitazione degli Israel con un vaso e abbiamo deciso di raccontarla allo spettatore, mettendo in scena una vera seduta psicologica”.
L’opera si distingue per un apparato sonoro davvero sorprendente. Come sei riuscita a renderlo così funzionale all’interno del racconto?
La soundtrack ha rappresentato un lavoro immane, così come la gestazione del film stesso. E se funziona così bene è per merito principalmente del compositore e sound designer Lorenzo Confetta, mio storico collaboratore e consulente musicale fin dai tempi delle mie esperienze musicali in qualità di regista di videoclip, che ha composto appositamente per il mio film musiche originali.
Possiamo individuare tre fasi che secondo me sono assolutamente determinanti per lo sviluppo della soundtrack: quella della parte della parte iniziale (dell’esame di maturità) dove primeggia la musica suonata dai ragazzi fino ad arrivare ai tre semplici accordi che sottolineano il titolo di testa, chiara citazione alla quinta di Beethoven, il cui riferimento caratterizza il personaggio di Josh.
Nella seconda fase, predominano gli archi suonati dal trio “Le chic Ensemble”, caratterizzanti la sequenza del fiume (una composizione originale di Lorenzo Confetta e Nicoletta Bassetti).
Sono inoltre inserite le sonorità di un giovanissimo artista israeliano di nome Shay Tra Litman che ho scovato sul web e che canta in ebraico canzoni con testi impegnati, dai messaggi non scontati, ma soprattutto con un suo stile personale e riconoscibile. In questo secondo atto musicale ho scelto anche un brano di Guido Smider, compositore che stimo e apprezzo da anni, che ho inserito nella sequenza del ballo di Josh.
Infine nell’ultima fase ho voluto dare piena libertà alla creatività di Confetta che si è avvalso di musicisti, arrangiatori e produttori di sua fiducia (Luca Antolini dj, Roberto Vernetti, Riccardo Nanni)”.
Nicolò Barretta
Valentina Bertani, nata a Mantova nel 1984, l’estro ce l’ha insito nel dna, fin da quando bambina, insieme a sua sorella Nicole passava le proprie notti a guardare film dell’orrore: “Profondo rosso”, “It”, “Arancia meccanica”, con la complicità della propria mamma (una nota creatrice di bambole) che, poiché aveva paura a guardare quel determinato genere da sola, si avvaleva delle figlie, completamente ignare di quello che avrebbero assistito, per trascorrere serate indelebili all’insegna del brivido, in compagnia di grandi registi della storia del cinema.
Ed è proprio in una di quelle innumerevoli visioni “clandestine” che è scaturita in Valentina una passione sfrenata per il mondo dell’audiovisivo, dapprima musicale, in qualità di regista di videoclip per noti cantanti e gruppi nazionali (Ligabue, Negramaro, Arisa, Stadio, Dolcenera, Grignani) e poi con la maturità per quello della regia prettamente cinematografica.
Nel 2016 ha diretto la seconda unità del lungometraggio internazionale Disney: “Tini, the new life of Violetta”. Successivamente ha realizzato per Fox Channel un documentario su Luciano Ligabue.
Da poco ha presentato in anteprima al Festival di Venezia nella sezione Notti Veneziane delle Giornate degli Autori la sua opera prima “La timidezza delle chiome”, una co-produzione Italia – Israele, prodotto da Diaviva per l’Italia e Movieplus per Israele, realizzata con il sostegno di MiBACT e NFCT e distribuita in Italia da I Wonder Pictures in collaborazione con Unipol Biografilm Collection.
L’opera, che abbiamo avuto il privilegio di vedere in anteprima a Venezia, conferma il talento di Bertani nel rappresentare la realtà quotidiana, in questo caso quella di due gemelli ebrei omozigoti con disabilità intellettiva, con uno sguardo disincantato, graffiante e a tratti viscerale che scalfisce il cuore degli spettatori, proiettandoli a vivere un viaggio emozionale nei meandri della crescita che li folgorerà sulla lunga distanza.
Al centro della vivida drammaturgia che mescola sequenze reali ad altre riadattate, sceneggiata dalla stessa regista in collaborazione con Emanuele Milasi, Alessia Rotondo e Irene Pollini Giolai, due ragazzi appena ventenni che si confrontano con le restrizioni imposte dalle altre persone, senza però avere il timore di affrontarli a testa alta, ripresi costantemente in movimento: a piedi, in auto, in bici, espressione simbolica di una libertà, la loro, che si libra in un affollato cielo stellato, irto di difficoltà, ma anche di buoni propositi.
Alla luce di quello che per la nostra redazione si è rivelato il vero e proprio colpo di fulmine della sezione Notti Veneziane, abbiamo deciso di dedicare uno spazio introspettivo alla regista, in modo tale che potesse svelarci ulteriori aneddoti sul film che presto vedrà la luce anche nelle nostre sale.
Partiamo dal bellissimo titolo, che cosa sottintende?
“È un titolo che ho voluto fortemente e del quale sono molto orgogliosa. Si tratta di un fenomeno botanico che consiste nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano, andando a comporre quello che dall’alto è descrivibile come un mosaico e che rappresenta un’efficace metafora visiva per raccontare la vita di Benjamin e Josh che, dopo essere cresciuti in simbiosi, pensano ora ad emanciparsi, prendendo due strade diverse per non farsi ombra a vicenda”.
All’inizio del film si vedono i gemelli intenti a correre. Verso che cosa corrono?
“Verso il loro futuro, un futuro in cui secondo me possono davvero intraprendere entrambi un percorso attoriale perché sono stati molto bravi ad interpretare alcune scene di finzione, come ad esempio quelle girate nel campeggio che hanno richiesto un arduo lavoro di immedesimazione”.
Come hai conosciuto i gemelli?
“Li ho conosciuti nel 2017 a Milano. Era primavera e stavo camminando sui Navigli, quando la mia attenzione si spostò su due ragazzi che sembravano usciti da un film indipendente americano di Harmony Korine o Todd Solondz, tra i miei registi indie preferiti. Ho provato a fermali, ma loro hanno continuato a camminare, senza degnarci di uno sguardo.
Osservandoli meglio, mi sono poi accorta (data la mia formazione pregressa in ambito psico-pedagogico) che avevano una disabilità intellettiva.
Li ho lasciati andare sul momento, salvo poi rendermi conto di essermi lasciata sfuggire una potenziale storia.
Da quel momento è partita una vera e propria caccia all’uomo, agli uomini in questo caso, e ho percorso in lungo e largo tutto il quartiere dei Navigli per chiedere a tutti i negozi storici se avessero informazioni da fornirmi sui due fratelli.
Ben presto scoprii che erano noti a tutti e che i loro genitori erano stati proprietari del locale jazz “Le scimmie”. Ho quindi recuperato il numero della mamma, senza sapere cosa dirle e che lavoro intendessi fare con i suoi figli, dicendole solamente che avevo girato un documentario su Ligabue, per cercare di far subito breccia nel suo cuore.
La donna, dopo avere visto i miei lavori, mi ha richiamato e io e i miei sceneggiatori abbiamo organizzato un incontro a Cusago dove la famiglia Israel risiede”.
Come hai catturato la loro fiducia?
“Non è stato affatto semplice perché inizialmente la mamma era restia a parlarci delle disabilità intellettive dei propri figli e non sapevamo bene come muoverci. I gemelli inoltre erano indisposti nei nostri confronti e non volevano scendere le scale per incontrarci. Allora, semplicemente, in modo del tutto spontaneo, ho proposto loro di andare a prendere un gelato e con mia grande gioia hanno acconsentito di buon grado. In particolar modo sono rimasta colpita dalla spiccata sensibilità di Benjamin che ha scelto di indossare una fascia floreale a fiori di sua mamma.
Appena ho avuto modo di stare del tempo con loro, ho immediatamente capito che avevano un potenziale comedy innato: memorabile, a tal proposito, la battuta di Ben davanti alla tomba del nonno in Israele: mi dispiace vederlo così pietrificato!
Basti pensare inoltre che ci hanno costretto a giocare una partita di calcio senza porte, con delle regole completamente inventate da loro. Un’esperienza assolutamente irripetibile!”.
In che modo hai messo in scena la disabilità intellettiva? Come sei riuscita ad evitare stereotipi o facili ipocrisie?
“I ragazzi stessi sono già fuori da ogni stereotipo, lo stereotipo infatti è nell’occhio di chi guarda. Io stessa, facendo parte della comunità queer, non potrei mai avere dei pregiudizi. Abbiamo inoltre studiato tantissimo dagli attivisti con disabilità, coinvolgendo Henry Scorner e Max Ulivieri. Henry è un tiktoker con disabilità fisica che sa parlare ai giovani in modo diretto e vero, mentre Max Ulivieri è fondatore di Lovegivers, un’associazione che si occupa di offrire assistenza sessuale per persone disabili. Tutti e due hanno visto il film in anteprima, prima della chiusura del montaggio, per fornire il loro parere sulla corretta rappresentazione della disabilità all’interno del film. E il responso è stato estremamente positivo”.
I gemelli sono entrambi di fede ebraica. Quanto la componente religiosa ha influito sulla loro crescita?
“Tantissimo perché il padre Sergio, una delle persone più colte e divertenti che abbia mai conosciuto, ha deciso di utilizzare i precetti del suo credo come guida per dare regole ben definite ai figli. Entrambi poi fanno parte di Hashomer Hatzair, un movimento scout giovanile sionista”.
Josh vive la sua sessualità in modo molto intenso. Come hai gestito questa sua caratteristica?
“Non l’ho assolutamente gestita, ma l’ho semplicemente raccontata, sono rimasta vittima del suo fare spontaneo e talvolta sopra le righe. Anche nella scena sotto alla doccia (assolutamente determinante a livello diegetico per cogliere le sfumature del suo carattere) gli ho lasciato libero arbitrio.
Vi svelo a tal proposito un dettaglio interessante: la vicenda che ruota attorno ad una prostituta, da lui stesso invitata a casa dei suoi genitori è del tutto vera: la donna ha rotto davvero il vetro dell’abitazione degli Israel con un vaso e abbiamo deciso di raccontarla allo spettatore, mettendo in scena una vera seduta psicologica”.
L’opera si distingue per un apparato sonoro davvero sorprendente. Come sei riuscita a renderlo così funzionale all’interno del racconto?
La soundtrack ha rappresentato un lavoro immane, così come la gestazione del film stesso. E se funziona così bene è per merito principalmente del compositore e sound designer Lorenzo Confetta, mio storico collaboratore e consulente musicale fin dai tempi delle mie esperienze musicali in qualità di regista di videoclip, che ha composto appositamente per il mio film musiche originali.
Possiamo individuare tre fasi che secondo me sono assolutamente determinanti per lo sviluppo della soundtrack: quella della parte della parte iniziale (dell’esame di maturità) dove primeggia la musica suonata dai ragazzi fino ad arrivare ai tre semplici accordi che sottolineano il titolo di testa, chiara citazione alla quinta di Beethoven, il cui riferimento caratterizza il personaggio di Josh.
Nella seconda fase, predominano gli archi suonati dal trio “Le chic Ensemble”, caratterizzanti la sequenza del fiume (una composizione originale di Lorenzo Confetta e Nicoletta Bassetti).
Sono inoltre inserite le sonorità di un giovanissimo artista israeliano di nome Shay Tra Litman che ho scovato sul web e che canta in ebraico canzoni con testi impegnati, dai messaggi non scontati, ma soprattutto con un suo stile personale e riconoscibile. In questo secondo atto musicale ho scelto anche un brano di Guido Smider, compositore che stimo e apprezzo da anni, che ho inserito nella sequenza del ballo di Josh.
Infine nell’ultima fase ho voluto dare piena libertà alla creatività di Confetta che si è avvalso di musicisti, arrangiatori e produttori di sua fiducia (Luca Antolini dj, Roberto Vernetti, Riccardo Nanni)”.
Nicolò Barretta