È rosso il furgone che guida Jack. Rosso è il cric del primo omicidio. Con quello spacca il cranio di Uma Thurman lasciandola schizzata ovunque di un rosso sangue con il viso incantato nel vuoto come certe bambole rotte.
La casa di Jack di Lars Von Trier apre con una compulsione trinitaria nella morsa di un ingegnere ossessivo che uccide in un paese dove, lo sa bene, nessuno vuole darti una mano. Così, Mr. Sophistication – dentro il progetto realizzato dall’Architetto supremo – strangola, squarcia, soffoca. Trascina con il suo furgone il cadavere di una donna legato dietro lasciando una striscia rossa lungo la strada di tutto il paese. Laverà via la traccia della sua fuga una pioggia tutrice scortando le pena in una cascata rosso vivo giù per un tombino redentore.
La donna, in casa, teneva un quadro con dei tulipani rossi, l’imposta esterna della sua finestra fatta a croce è rossa.
L’ostinazione scarlatta del regista danese non arriva subito, si rivela intorno al supplizio del terzo capitolo.
Sua moglie e i suoi due figli indossano tre cappellini rossi con la visiera. Anche lui che pensa che il modo migliore di nascondersi sia non nascondersi affatto, ne indossa uno. Sono macchie roventi in uno sfondo crudo di toni freddi, presagio del crollo inumano più feroce di tutti i 155 minuti del film. Cadono soppressi due cappelli rossi con colpi di fucile nella celebrazione del decesso più alienante che si possa immaginare.
In questa danza del rosso, Jack chiede alla moglie di imboccare il figlio morto dandogli un pezzo della torta che avevano portato da casa.
Il picnic non deve finire.
Poi cade a terra il terzo cappello e l’unico rosso ancora in testa è il suo. Gli arti dello stesso figlio li lega con uno scotch rosso a delle stecche di legno perché il suo corpo sfinito possa restare ritto come quello di uno spaventapasseri nella cella frigo dove Jack colleziona morti e pizze.
La collana della moglie morta è rossa. Le calze di un soldato durante una battuta di caccia sono rosse. In un fashback si rivede bambino con un golfino rosso, una donna – forse la nonna – ha delle scarpe rosse.
Jack ha una ragazza bionda, adesso, la chiama Simple. Si telefonano da dentro la stessa casa con solo una parete che li separa. Usano due telefoni rossi. La donna ha uno smalto rosso sulle unghie delle mani. Lui si svela assassino alla ragazza paradisiaca nipote di Elvis Presley che non lo crede e quasi ne ride. Ha i tratti di una contadina illibata mentre gli allunga un pennarello assecondando la richiesta insensata del killer. È ovviamente rosso, l’indelebile.
Jack tratteggia la circonferenza delle tette di Simple con il colore in quella che diventa la scena madre per l’avvisaglia spietata che diffonde attorno all’olocausto dei seni. Simple viene legata con il filo rosso e apparentemente interminabile del telefono e una delle sue tette svuotata diventerà il portamonete di Jack costretto a una spietata misoginia vermiglia.
Il serial killer di Von Trier che crea carcasse perfette di una casa abbattuta ripetutamente viene domato per un momento da S.P., l’unico amico che vive in una roulotte e indossa una vestaglia rubino. È qui nella scelta del colore, il più forte manifesto dell’orrore che aggredisce il retroscena fuori fuoco di un paesaggio arcadico di una periferia insolita. Il rosso di S.P. lo indossa Jack dopo averlo accoltellato alla gola e procede l’ungo l’Inferno pedinato dal timbro magenta delle sirene della polizia.
Tiene addosso il mantello dantesco giù negli inferi dell’esistenza più truce, in attesa del prossimo whiskey bar – richiamo ad Alabama Song dei The Doors, anch’essi ritratti da un illustre simbolo rosso – fino ai Campi Elisi dove a lui e Virgilio non è permesso entrare.
Hit the road Jack and don’t you came back no more, no more, no more. Hit the road Jack and don’t you come back no more.
Hilary Tiscione