Laurence Anyways: 4 anni dopo

Xavier Dolan firma il suo terzo lungometraggio raccontando le vicende di Laurence Alia (Melvil Poupaud), un professore di letteratura che decide di diventare transessuale, mettendo così a dura prova la sua storia d’amore con Fred (Suzanne Clément).
In Italia, Laurence Anyways è stato distribuito dalla Movie Inspired nel 2016, 4 anni dopo l’esordio in Canada.
Vedere questo film in ritardo nelle sale italiane è una conferma di quanto la (nostra) società sia ancora ottusa e prigioniera dei pregiudizi riguardo alle scelte sessuali, etichettando ed emarginando coloro che non rientrano nei canoni della “normalità” prevista.
La storia d’amore si svolge in un arco temporale di 10 anni, straziata da alti e bassi e arricchita dall’incontro con le persone legate alle vite di entrambi: i familiari, gli amici e i conoscenti.
Un grande regista spesso è in grado di raccontare il film nei minuti, o meglio nei secondi, iniziali. Anche in questo caso, l’incipit è emblematico per comprendere già molte sfumature del film: il protagonista esce di casa, una casa ormai vuota di affetti, vestito da donna e deve superare quella barriera invalicabile costituita dagli sguardi delle persone. Laurence Anyways è stato già introdotto, in pochissimo tempo e in maniera magistrale.
Il protagonista, infatti, dopo aver annunciato la volontà di un cambio di sesso e aver manifestato la sua libertà, vestendosi da donna, va incontro a un'inesorabile emarginazione.
Il suo cambiamento è visto come un caso patologico. Come gli rinfaccia un suo collega di lavoro: “La transessualità è classificata come una malattia mentale”.
Sempre nell’incipit, questi occhi sconosciuti talvolta si rivolgono direttamente in camera. Quante volte ci siamo sentiti trafitti dagli sguardi offensivi della gente? Dolan ci provoca con molta raffinatezza, in quanto probabilmente siamo tutti casi patologici, entità solitarie erranti, oppresse e condizionate dai giudizi degli altri.

Cerca, con questo film, di disintegrare il concetto di normalità, in quanto esso, di per sé, non esiste. Non a caso dipinge personaggi ricchi di sfumature ambigue, uniche e fragili, che portano con sé quell’imperfezione umana da cui nessuno può prescindere. Il giovane regista riesce efficacemente nell’intento di raccontare con personalità il tema della transessualità, attraverso una naturalezza senza precedenti. Non ci sono forzature nel personaggio di Laurence: il suo non è un atto di rivoluzione da ostentare, ma semplicemente un atto liberatorio necessario, la dimostrazione di come si possa infinitamente amare sé stessi e soprattutto gli altri.
Dolan dimostra una notevole confidenza con il mezzo cinematografico sia nella cura della forma, utilizzando un 4:3 claustrofobico, metafora della condizione esistenziale del protagonista, sia in quella del contenuto, grazie alla scrittura di dialoghi e personaggi incisivi, in grado di esprimere tutta l’emotività necessaria per entrare in empatia con lo spettatore.
Bronson: 3 anni dopo

Nel nostro paese il film viene distribuito nel 2011 dalla OneMovie, 3 anni dopo l’uscita ufficiale, a seguito del trionfo di Refn al Festival di Cannes, dove vince il premio come miglior regista per l’eccezionale Drive.
Nicolas Winding Refn firma un personalissimo prison movie, unico nel suo genere, tratto dalla biografia di Michael Gordon Peterson, criminale che ha un solo obiettivo: diventare il prigioniero più temibile d’Inghilterra.
Tom Hardy si assume un’incredibile responsabilità, dando libero sfogo a tutto il suo talento e sottoponendosi a un periodo di duro allenamento fisico per aumentare la sua massa muscolare.
Il protagonista decide di farsi chiamare Bronson e di dialogare vis-a-vis con lo spettatore abbattendo la quarta parete, narrando le sue gesta, cercando consensi e fama. La sua vita è un grande palcoscenico su cui esibire un’estetica della violenza.
Con il passare dei minuti, Bronson catapulta lo spettatore in un mood di apatia totale nei confronti di un personaggio incomprensibile, anarchico, senza morale e senza concrete aspirazioni di vita.
Refn, ancora una volta molto maniacale nella cura della forma, adotta uno stile dall’impronta espressionista, con tinte grottesche e con una messinscena spettacolare della violenza. L’accostamento della musica classica ed elettronica a scene di lotta, l’uso del ralenti e l’utilizzo del racconto in prima persona di Bronson sono un chiaro omaggio ad Arancia Meccanica, capolavoro di Stanley Kubrick incentrato proprio sul tema della violenza.

È un protagonista che un po' si fa odiare, poiché i suoi continui eccessi di rabbia ingiustificata lo portano a un’inesorabile auto-distruzione: è davvero complicato entrare in empatia con Bronson, dato che dentro quel corpo tutto (solo) muscoli sembra non esserci traccia di un’anima. Nonostante ciò si rimane affascinati da un’opera ben congeniata, in grado di stimolare la curiosità dello spettatore, determinata a indagare a tutti i costi sull’uomo e sulla sua costante propensione verso il male.
Un insegnante d’arte, però, sembra cogliere un raggio di luce nel corpo oscuro e possente di Bronson. Infatti, il detenuto dimostra grandi doti artistiche, riuscendo a manifestare sé stesso con stile e personalità attraverso dei disegni, da interpretare come espressione della sua condizione interiore. Anche un duro come Bronson sembra nascondere (molto nel profondo) delle fragilità incomprese che continuano disperatamente a trasformarsi in aggressività animalesca.
Il mio vicino Totoro: 27 anni dopo

In occasione del 30º anniversario dello Studio Ghibli, la Lucky Red ha riproposto al cinema nel dicembre del 2015 Il mio vicino Totoro, ben 27 anni dopo l’uscita ufficiale. Il film diventa, così, il caso più eclatante della nostra classifica.
Le opere di Hayao Miyazaki, in particolar modo Ponyo sulla scogliera e Si alza il vento, possono essere considerate come un vero e proprio atto d’accusa verso sé stesso, dopo aver più volte dichiarato di essere stato un padre distante per suo figlio. Anche in Il mio vicino Totoro è presente questo tratto: come in molti film d’animazione giapponesi dell’epoca, al centro della storia troviamo due bambine a cui manca la figura genitoriale. La madre, infatti, è ricoverata in ospedale, costretta a rimanere lontano dalle figlie. Hayao Miyazaki dirige l’opera con un’impronta meno forte e brutale, collegandosi a temi ambientalisti.

Le giovani protagoniste si troveranno a dover inseguire dei piccoli esseri fantastici, raggiungendo così la tana di Totoro, un grosso demone della natura. A tal proposito, è interessante considerare come Miyazaki spesso inserisca dei rimandi ai film d’animazione Disney, in questo caso citando Alice nel paese delle meraviglie. E, come dimostrazione di un reciproco rispetto, anche la major americana non rinuncia talvolta a conferire un omaggio al regista giapponese: in Toy Story 3 vediamo comparire, tra gli altri giocattoli, proprio il pupazzo di Totoro.
Il nome nasce da un curioso gioco linguistico, in quanto fa riferimento alla pronuncia sbagliata della bambina che non riesce a dire correttamente “Troll” in giapponese. Totoro funge da surrogato simbolico della madre e aiuterà le bambine a crescere in armonia con la natura.
In apparenza può sembrare un film semplice, bonario e spensierato ma porta invece con sé interessanti spunti politici e sociologici, oltre a quelli riconducibili alla dimensione familiare.
Matteo Malaisi