
L’uscita su Netflix de L’Incredibile Storia Dell’Isola Delle Rose, opera quarta di Sydney Sibilia, è l’occasione per approfondire un discorso che appassiona critici e non, nell’ambito del nostro cinema e dei generi: ovvero se e in che modo si può parlare oggi di commedia all’italiana – facendo attenzione a non confondere con “commedia italiana”, perché là è tutt’altro, anzi è tutto.
Quindi, per fare chiarezza.
La “commedia all’italiana” è un genus comico-satirico di matrice neorealista che viene definita come vera e propria corrente solo negli anni Settanta, ovvero quando la stessa stava via via perdendo identità e forza, insieme ai suoi connotati essenziali. Che erano sostanzialmente il suo essere una continuazione un po’ spuria di quel neorealismo, producendo film che rendevano le regole meno rigide -parliamo di una ricostruzione che privilegiava la verità sulla programmatica artificialità del cinema classico- per attirare nuovi spettatori: si partiva dunque sempre dall’attualità a volte tragica del Belpaese impiegando però attori di natura comica. Da Erminio Macario in poi, passando per Totò, il raggiungimento di una fisionomia riconoscibile lo si ebbe in seguito solo con l’avvento di quell’Alberto Sordi (che aveva sì un fisic du role riconducibile ad una dimensione grottesca e ridicola di per sé, ma che simpatico non lo era affatto essendo invece moderatamente bugiardo, furbastro, con un buon cuore che si faceva spesso e volentieri travolgere dalla pigrizia) insieme a Vittorio Gassman, interprete di caratura altissima che fu usato da Monicelli per I Soliti Ignoti ma soprattutto per Il Sorpasso (anche qui, ritratto di uno sbruffone estroverso fuori ma tragicamente vuoto dentro).

Se quindi si tenta di parlare e aggiornare la nuova commedia all’italiana, dovremmo probabilmente fare un salto quantistico di quarant’anni quasi e partire da Smetto Quando Voglio, a tutti gli effetti una sorta di riassuntone che incarna le caratteristiche delle nuove generazioni, immergendo i personaggi in un ambiente comico ma svuotandoli progressivamente di ogni peso specifico di commedia.

Sibilia ha saputo raccontare la realtà del precariato, una delle forme più dolorose di attualità postmoderna italiana, utilizzando una chiave estremamente pop, estetizzata attraverso l’uso di cromatismi e location ad hoc, e trovando così un equilibrio che si era perduto sempre più nel cinema nostrano e che fondeva appunto la commedia con una modernità estetica proveniente più che altro dalla cinematografia d’oltreoceano fatta di strizzatine d’occhio al pubblico e ad una piacevolezza di una superficie lucida e tiratissima.
La chiave di volta, resa ancora più fresca e coinvolgente nonché immediatamente riconoscibile dai due capitoli successivi (l’opera prima del buon Sydney fa parte di una trilogia insieme ai successivi Smetto Quando Voglio: Masterclass e Ad Honorem), resta ad oggi la descrizione dell’inadeguatezza alla vita da parte di una generazione che della vita sembra farsene beffa, eppure messa al muro è costretta a fare i conti con la propria morale -se c’è- e con un codice etico ballerino e sfumato.
La trilogia sui ricercatori universitari disoccupati e in cerca di sostentamento quotidiano per loro e le loro famiglie è grammaticalmente, sintatticamente lontana da ogni cosa vista prima, specie nel vestito di certe opere fatto da una coperta finto intellettuale che si risolveva sempre in un cinema ombelicale quando non sbracato: il confronto che viene subito alla mente, passando in rassegna i film dichiaratamente appartenenti alla commedia, è di sicuro quello con i discussi cine-panettoni, opere che nel ventennio di raccordo hanno imperato al box-office portando con sé uno strascico di film che impiegavano attori provenienti dal successo televisivo e/o di cabaret, ben lontani però dal talento espresso dai vari Sordi, Gassman, Verdone o Benigni. Un confronto impari e impietoso, diciamolo, quando non inutile e fallato all’origine, per la natura stessa delle produzioni: ma che fa risaltare ancora di più la ventata di freschezza che nel 2014 Smetto Quando Voglio portò in sala. E soprattutto il fatto che da lì in poi si è come data la stura ad un certo modo di intenderla, la commedia, come di portarla sullo schermo: facendo attenzione a non confondere con registi che flirtano apertamente e programmaticamente con il dramma, come Virzì e Ozpetek ad esempio, Smetto Quando Voglio ha mostrato una dimensione dove il cinematografico coincide con il cinefilo. Perché Sibilia è stato probabilmente il primo, o colui che lo ha fatto apertamente, ad uscire dalla affannosa ricerca della risata a tutti i costi sguaiata e fracassona per offrire un cinema che ama il cinema e quindi conseguentemente lo rincorre, lo cita, lo vive e se ne nutre, per rimasticarlo e metabolizzarlo in una forma nuova.

Impossibile non notare i riferimenti ad opere come il citato I Soliti Ignoti, o anche Amici Miei, così come è impossibile non vedere che l’omaggio non rimane fine a sé stesso, esaurendosi in uno sterile citazionismo: diventa allora un modo per fotografare la realtà e la contemporaneità, costruita sull’ammasso, sull’accumulo, sulla coazione a ripetere. Elaborando la lezione dei maestri per passare oltre e costruire qualcosa di inedito.
Risultato ottenuto anche attraverso la contaminazione: se l’Ovosodo di Virzì, sempre per restare nel recinto degli esempi illustri, nasce già come impasto indissolubile e in questo trova la sua collocazione, la contaminazione negli Anni Dieci è ispirazione per includere generi e culture diversi e a volte lontani, costruendo una sceneggiatura attraverso canoni che echeggiano il thriller, l’action movie, anche il cinecomics, ma sempre e comunque attraverso una visione, uno sguardo e una cifra stilistica profondamente personali e quindi autoriali.
Senza dimenticare che ad oggi la contaminazione non viene effettuata solo con il crossover dei generi ma anche dei media: se quindi una delle forme espressive più importanti, imponenti e fluide dal punto di vista quantitativo sono i serial, ecco che anche la commedia all’italiana si apre alla serialità mutuandone gli stilemi. Scivolando non tanto impercettibilmente dalla struttura ad episodi (tipica, e canonizzata da capolavori come I Mostri di Risi) ad episodi che durano tutto un film per continuare nel seguente capitolo, autosufficiente ma pur sempre parte di una stessa macrostoria.
Si diceva prima di come Smetto Quando Voglio avesse “dato la stura” a questo mood: perché registi come Edoardo Leo e Paolo Genovese, attivi già dal Duemila in poi, hanno da lì iniziato a capire di potersi muovere liberamente all’interno della loro ispirazione motivando il linguaggio e donandogli natura autoriale. Il primo con Noi & la Giulia del 2015 e ancora più compiutamente con Che Vuoi Che Sia del 2016, il secondo con il fenomeno Perfetti Sconosciuti del 2016; arrivando dritti dritti a L’Incredibile Storia Dell’Isola Delle Rose, il nuovo progetto di Sibilia, come detto in apertura attualmente disponibile su Netflix.

Che conferma la visione ampia di cinema che hanno i nuovi cineasti: un’idea dell’Arte molto più grande rispetto a quella a cui siamo abituati, fatta di un uomo e la sua impresa, la sua smania di grandezza che si scontra (sottotraccia) con la sua innegabile medietà, la sua personalità eccezionale in un mondo mediocre, il suo lottare e sgomitare in un’epoca storica (gli anni Sessanta) che era un passaggio tra il grande ordine postbellico e il nuovo mondo globalizzato, quello in cui viviamo e annaspiamo oggi. Rispetto ai suoi tra film d’esordio, considerabili un unicum, nell’Isola Delle Rose è evidente come Sibilia riesca ad imprimere un’identità più marcata tra ciò che viene raccontato e come viene raccontato: perché, per raccontare di come un uomo costruì una piattaforma in mezzo al mare, si è costruita una piattaforma in mezzo al mare. A Sydney piace raccontare di nerd falliti ma potentissimi, sorta di supereroi del quotidiano, immersi in una grandeur produttiva che ha attirato Netflix (non Netflix Italia, che all’epoca dell’inizio della produzione non esisteva, ma proprio il colosso mondiale), che mettono in scena non solo uno scontro di matrice universale e letteraria -un uomo contro il suo destino- ma anche un altro scontro, meno bellicoso, tra generazioni di interpreti, unendo insieme la bravura mimetica di Elio Germano e quella storicizzata e pronta alla farsa, sempre nobile, di Luca Zingaretti e Fabrizio Bentivoglio.
L’Isola Delle Rose torna allora all’assunto dell’inizio: mette in scena e suggerisce la formazione di una coscienza civile personalizzando lo scontro tra autorità e autonomia, svincolando un racconto nato nel ’68 mentre lega la sua narrazione alla politica intesa in modo ampio fatta solo di grandi ideali. Il passato, insomma, che si fa presente.
E un interesse comico, che vernicia tutto, diretto sul conflitto sociale.
GianLorenzo Franzì