L’innocenza dei bambini: Kore’eda e la (de) costruzione del mostro. Analisi di un racconto polifonico
22/04/2025
Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo quest'analisi de L'innocenza, scritta da Uendi Alidemiraj, studentessa del Master MICA. 


Introduzione

Con il suo ultimo lungometraggio, il regista Hirokazu Kore’eda affronta tematiche quali il bullismo, le famiglie disfunzionali e le imposizioni sociali. Argomenti già presenti nella sua filmografia, ma che in quest’opera si arricchiscono di una tematica inedita: l’omosessualità. Mostrando come questa rivelazione incida sull’infanzia dei due giovani protagonisti, Minato e Yori, Kore’eda porta avanti un’indagine sulla percezione della realtà e sulle infinite sfumature della verità.

Con una struttura narrativa che si discosta dalla linearità classica e un forte realismo emotivo, il regista costruisce un racconto frammentato che analizza in profondità i personaggi, i loro conflitti interiori e le loro relazioni familiari e sociali.
Chi è il mostro di questa storia? Questa è la domanda che Kore’eda ci pone, inducendoci a cambiare prospettiva man mano che si rivelano nuovi dettagli. Attraverso tre piani narrativi, ci chiediamo: è il maestro Hori il mostro, accusato di aver picchiato Minato? O è Minato, che punisce Yori per la sua diversità? O forse Saori, madre di Minato, che incolpa il sistema scolastico pur di difendere il figlio?

Attraverso un racconto di formazione che scompone la sua narrazione in diverse prospettive, denudandosi lentamente di fronte ai nostri occhi, Kore’eda ci mostra come la verità possa essere soggettiva e manipolata dalla percezione delle emozioni. Ci lascia poi con un’ultima immagine: la corsa spensierata dei due bambini che, immersi nella natura, hanno la possibilità di essere sé stessi allontanandosi da una realtà che condanna senza comprendere, per godersi, finalmente, la loro piena innocenza.

Ed è proprio così che viene portato in Italia questo film, con il titolo: L’innocenza, e sebbene in questa versione ci venga negata la volontà del regista sul chiederci e individuare l’identità del mostro di questa vicenda, forse ci dà uno spunto di riflessione da cui partire, ovvero che l’innocenza stessa risiede nei bambini, che non potranno mai essere mostri, ma vittime di una società intrisa di pregiudizio e di come la diversità venga intesa come un mostro invisibile, “un cervello di maiale”, da cui tenersi a distanza di sicurezza.

Il rapporto tra uomo e maiale 

Il termine "cervello di maiale" compare già all’inizio del film, quando Minato pone a sua madre una domanda bizzarra: cosa accadrebbe se ad un uomo venisse trapiantato il cervello di un maiale. Questo pensiero, che inizialmente appare frutto della fantasia infantile, assume via via un significato sempre più profondo.

Durante un tragitto in macchina, Minato confessa alla madre che non sarà mai come il padre. E se in un primo momento quest’affermazione possa far trapelare una nota di amarezza all’idea di non poter eguagliare la figura paterna, assumerà tutt’altro valore quando, parlando con l’amico, Minato dirà che il padre, morto in un’incidente stradale, si stava dirigendo alle terme con una donna che non era sua madre. Questo spiega il rancore represso che percepiamo durante la commemorazione paterna.
Spiega anche, il comportamento schivo che il giovane ha nei confronti del maestro Hori, frequentatore di quel bar per adulti incendiato all’inizio del film. In un video fatto dai suoi compagni di scuola, apprende che il maestro frequenta quel bar e, inevitabilmente, capisce che condivide lo stesso vizio del padre: quello delle donne. Lo stesso bar viene frequentato anche dal padre di Yori che, buttandosi sull’alcool, sfogherà tutte le sue insoddisfazioni sul figlio, una volta tornato a casa. Minato identifica nel maestro Hori suo padre e il padre di Yori, per lui queste tre persone corrispondono ad una sola persona. Ha perso la fiducia nella figura paterna e più in generale in quella maschile che, diventata adulta, si perde lungo la strada dei vizi.

Il bar rappresenta il luogo, il polo attrattivo di questi “mostri” ed è per questa ragione che lo vediamo incendiarsi nei primi minuti del film e vediamo ancor prima, la figura del piccolo Yori che lo guarda in lontananza, mentre tiene tra le mani un accendino. Il fuoco cancella l’esistenza di quel luogo e delle persone che lo ospitano diventando, quindi, un segno di ribellione silenziosa. Quelle fiamme sono l’espressione delle emozioni represse dei due personaggi, rappresentando il tumulto interiore che i due giovani provano di fronte al mondo degli adulti.

"Cervello di maiale" diventa un insulto, una maledizione, un'etichetta che perseguita non solo i due giovani protagonisti, ma anche il maestro Hori accusato ingiustamente e privato del suo lavoro e della dignità. È ciò che Yori dice di avere: una malattia che suo padre gli ha diagnosticato, spiegandogli che l’avrebbe curato. Questa frase ritorna per tutta la durata del film come un mantra tossico, simbolo del male instillato dal genitore.

L'associazione uomo-maiale rimanda a un altro celebre film giapponese, La città incantata (2001) di Miyazaki, dove i genitori della protagonista vengono trasformati in maiali per la loro avidità. In entrambi i casi, la figura del maiale rappresenta la punizione da scontare: per l'ingordigia in Miyazaki, per l'odio verso la diversità in Kore’eda e in entrambi i casi, la speranza risiede nei bambini che sono chiamati a salvare qualcuno o sé stessi.

Maternità e istituzione: le donne in “Monster”

Ci sono due figure femminili contrapposte all’interno della narrazione: Saori, madre di Minato, e la preside della scuola. Due ruoli opposti, ma speculari, che incarnano due aspetti fondamentali del sistema educativo e del ruolo degli adulti nella vita dei bambini.

Saori è la madre emotiva e protettiva, pronta a tutto per difendere il figlio, anche a costo di puntare il dito senza comprendere appieno la verità. La preside, invece, rappresenta l’autorità razionale, distante, preoccupata più per l’immagine dell’istituzione che per i reali bisogni dei bambini. Entrambe agiscono per proteggere ciò che amano, ma finiscono per diventare simboli delle contraddizioni della società.

Kore’eda ci mostra come i bambini siano spesso travolti da un mondo adulto incapace di capirli. Nei suoi film, da Nobody Knows (2004) a Shoplifters (2018), i giovani protagonisti si trovano a dover crescere senza il sostegno degli adulti. Attraverso queste storie, il regista lancia un messaggio di speranza: nonostante tutto, possiamo scegliere chi diventare, anche se questo significa essere diversi da ciò che ci si aspetta.

Nel film, la società viene raccontata attraverso lo sguardo di Saori: una madre single iperprotettiva, ma anche accecata dall’amore, che identifica subito in Hori il colpevole. La sua reazione rappresenta quella di un’intera comunità pronta a giudicare senza conoscere i fatti. Al contrario, la preside Fushimi appare inizialmente fredda e distante, ma il suo passato – segnato dal senso di colpa per un incidente che ha distrutto la sua famiglia – ne svela progressivamente l’umanità. Il gesto di piegare una barchetta durante un colloquio col marito simboleggia il bisogno di equilibrio in una tempesta emotiva e sociale.

Attraverso queste due donne, Kore’eda riflette sull’ipocrisia di una società che, per salvare la facciata, preferisce nascondere la verità.

Il vagone deragliato: dove i mostri trovano pace

Minato e Yori trovano rifugio in un vagone abbandonato nella natura. Protetti da quella struttura di metallo, rafforzano la loro amicizia, esplorano dubbi identitari e sperimentano la libertà. Quel vagone diventa non solo il loro nascondiglio segreto, ma anche una casa, uno spazio protetto dal giudizio della società e dalla tempesta che li travolgerà.

Ritroviamo anche qui dei parallelismi con La città incantata di Miyazaki: il tunnel che percorrono per raggiungere il rifugio richiama quello di Chihiro, simbolo di passaggio verso un’altra dimensione e verso la conoscenza di sé e il treno che, bloccato nella foresta per Kore’eda e in movimento sull’acqua per Miyazaki, rappresenta la trasformazione e la transizione tra due mondi.

Il treno è un elemento simbolico che attraversa tutta la filmografia di Kore’eda: in Nobody Knows, rappresenta il sogno mai realizzato dei bambini, che diventa un gesto struggente quando Akira porta la sorella defunta a vedere gli aerei. In Shoplifters, accompagna una finta famiglia verso un’illusione di felicità al mare. In Monster, il treno è fermo, e sarà l’immaginazione dei bambini a rimetterlo in viaggio, rendendolo un simbolo di libertà.

Se nei primi due film il finale è segnato dalla sconfitta dell’infanzia – la morte di Yuki in Nobody Knows e la disgregazione della famiglia in Shoplifters – con Monster, Kore’eda ci regala una rivincita. Minato e Yori affrontano insieme una tempesta non solo atmosferica, ma metaforica: il pregiudizio sociale e l’incapacità degli adulti di accettare la loro diversità. Uniti, dimostrano una forza capace di superare quella degli adulti.

Il finale resta volutamente sospeso: i due bambini corrono liberi nella natura, e che siano vivi o no, quel momento rappresenta una vittoria dell’innocenza sull’ingiustizia. Kore’eda non ci chiede di capire cosa sia successo, ma di sentirlo. Minato e Yori non sono più vittime, ma semplicemente bambini liberi di essere sé stessi, lontani da una società che non li ha capiti.

Il messaggio che resta è quello della speranza: solo permettendo alle nuove generazioni di essere libere da etichette e costrizioni, potremo costruire un mondo migliore, più giusto di quello che vediamo sullo schermo – e forse anche di quello in cui viviamo.


Uendi Alidemiraj

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