L’odio: 25 anni fa il film di culto di Mathieu Kassovitz raccontava la società che precipita
13/06/2020
Venticinque anni fa eravamo del tutto impreparati ad assorbire l’impatto che L’odio (1995), secondo lungometraggio di Mathieu Kassovitz, avrebbe avuto su tutti noi spettatori. Pellicola pruriginosa quella del regista parigino, capace sia di restare impressa grazie a una magnifica e livida fotografia in bianco e nero, sia di scuotere e colpire le coscienze, come una pallottola che esplode dalla canna di una pistola. Il film vinse la miglior regia al Festival di Cannes e con gli anni è diventato un vero e proprio cult degli anni ’90 (recentemente Kassovitz, ospite della trasmissione RMC Story, ha perfino dichiarato di voler adattare il suo film in forma di musical hip-hop).

Nonostante siano passati molti anni, le tematiche affrontate ne L’odio restano tutt’oggi più attuali che mai: assistiamo attoniti e impotenti al ciclico ripetersi di tristi e drammatici eventi, osservatori impietriti di fronte alla perpetua caduta di una società - o forse un atterraggio, parafrasando il memorabile finale che trovate in fondo all'articolo - che non accenna a frenare la propria corsa (un tragico declino che viene simbolicamente impresso, ed espresso, in The Falling Man, fotografia scattata l’11 settembre 2001 da Richard Drew).



Il film di Kassovitz è una finestra sul Melting Pot che caratterizza le banlieue parigine: un crogiolo di culture e tradizioni completamente differenti fra loro, in grado però di preservare un certo equilibrio in questo ecosistema multietnico. Seguiamo la giornata tipo dei nostri tre protagonisti che, appartenendo a delle minoranze, sono confinati ai margini della società, costretti a bighellonare privi di una meta o di uno scopo e che, proprio come la struttura narrativa del film, sembrano girare a vuoto, inconsapevoli però di star silenziosamente scivolando verso un destino inevitabile. 

La prima metà della pellicola ci immerge nella cultura delle banlieue e possiamo respirare un forte carattere di identità e appartenenza: nonostante vivano a stretto contatto ceppi culturali eterogenei, sia le inquadrature sia i dialoghi (nella versione originale venne usato il verlan, un gergo parigino che inverte le sillabe di una parola per crearne una nuova) sono ricchi di riferimenti alla cultura pop, andando così a caratterizzare e a donare tridimensionalità a ogni personaggio. A metà film una panoramica dall’alto dei tetti e delle piazze appartenenti alla periferia ci trasmette comunanza e senso di appartenenza, andando così a sottolineare questo forte aspetto identitario che andrà poi scomparendo con l’inizio della seconda parte del film: adesso siamo nel centro di Parigi, gli edifici e le strade non fungono più da specchio della personalità dei nostri protagonisti. 

Altro aspetto interessante della pellicola è l’uso che Kassovitz fa dello sfondo. L’odio è un film che fotografa le sfumature in bianco e nero di una società in grado di generare azioni e reazioni dagli esiti drammatici. La pressione sociale, l’odio, la violenza e la discriminazione vanno a condizionare inevitabilmente la personalità degli individui (un’influenza esterna che va a intaccare il mondo interiore dei personaggi). Non sembra quindi un caso che il regista utilizzi il background scenografico per ricreare questa sorta di melliflua manipolazione: basti pensare a come gli sfondi, nella seconda metà della pellicola, siano a volte caratterizzati da schermi, vetrate o specchi, il tutto per trasmettere frammentarietà e disagio.

Il regista parigino si sofferma più volte sul volto dei tre ragazzi, e in particolare sui loro occhi: il film si apre con Said che spalanca gli occhi, davanti a lui la polizia, visione che anticipa il futuro dramma; lo stesso Said sceglierà di non guardare Hubert e il poliziotto uccidersi a vicenda sul finale della pellicola. Come ben sappiamo la società ha spesso preferito fingere di essere cieca e ignorare certe problematiche ormai divenute endemiche. Kassovitz sceglie invece di non farci volgere lo sguardo da un’altra parte, ci tiene incollati a seguire, come ipnotizzati, le vicende senza capo né coda (apparentemente senza senso come l’apparizione di una mucca per le strade della periferia parigina) dei tre protagonisti. Scivoliamo inconsapevoli, proprio come loro, in un crescendo di tensione scandito dal ticchettare di un orologio il cui eco rimbomba nelle nostre menti come il suono di un ordigno esplosivo. Siamo inconsciamente in attesa di un’esplosione che sappiamo essere inevitabile, e proprio come l’uomo che cade cerchiamo di esorcizzare le nostre paure continuando a ripetere come un mantra «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene».



Simone Manciulli

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