C’era molta curiosità intorno a Luna nera, esperimento di fantasy italiano con forti echi di girl power che è anche la terza produzione originale di Netflix nel nostro paese dopo Baby e Suburra. Il risultato finale (disponibile sulla piattaforma in streaming dal 31 gennaio), tuttavia, lascia parecchio a desiderare.
Nonostante le nobili premesse, tese a tenere insieme una coralità femminile d’ampio respiro e un immaginario fantasy a tinte fosche, la serie diretta da Francesca Comencini, Susanna Nicchiarelli e Paola Randi non centra i suoi obiettivi e gli elementi sfocati non sono pochi.

Luna nera ci catapulta in un Seicento italiano in cui Ade (Antonia Fotaras), una levatrice di 16 anni, viene accusata di stregoneria dopo la misteriosa morte di un neonato. Viene bruscamente allontanata dalla sua città e trova rifugio in una misteriosa comunità di donne emarginate, perseguitate perché ritenute anch’esse delle streghe e tallonate dai Benandanti, intenti a dare la caccia a tutte le accusate di eresia fino a condurle al rogo. Ade, ben presto, si ritroverà a scegliere l’amore di Pietro (Giorgio Belli), figlio del capo dei cacciatori di streghe e devotissimo alla razionalità illuminista dopo aver coltivato degli studi a Roma, e trarre in salvo la propria comunità.
Una vicenda raccontata nell’arco di sei puntate e caricata della responsabilità di inoltrarsi in un territorio produttivamente non facile come quello del fantastico, che necessiterebbe di slanci considerevoli per riuscire a reggere il confronto con prodotti internazionali di altissimo livello. Luna nera, che è anche la prima produzione seriale di questo tipo mai concepita nel nostro paese e prende le mosse dal romanzo Le città perdute. Luna nera di Tiziana Triana, sceglie invece una via conservativa e banalmente sentimentaloide: un tracciato in cui il romance di grana grossa arriva a cannibalizzare inesorabilmente il lavoro sulle livide ambientazioni laziali, quasi tutte notevoli, e sul conflitto tra scienza ed esoterismo molto nitido fin dalle prime due puntate, ma poi gettato alle ortiche.

La confezione visiva e formale è sicuramente ambiziosa, ma finisce anch’essa col naufragare e con lo smarrire interesse sotto i colpi incrociati di una recitazione tutt’altro che a fuoco (e spesso lasciata al caso), affettata sul versante degli attori più adulti e banalmente enfatica nel caso dei più giovani, con evidenti stonature nei tempi e nei toni. Senza contare che, man mano che la narrazione procede, nulla o quasi prende realmente corpo e la dialettica tra oscurantismo e poteri soprannaturali si risolve in un approssimativo e ridondante dualismo, tarpando le ali tanto all’immaginazione quanto alla possibile esplorazioni degli scenari medievali. Tanto che, con l’approssimarsi dell’epilogo, il tanto rumore per nulla si fa quasi assordante e l’eventuale acquolina per la seconda stagione si prosciuga vertiginosamente. Per tacere di tanti dettagli naïf di scenografie e costumi, che fanno somigliare Luna nera, a conti fatti, a una blanda versione con steroidi di Fantaghirò.
Difficile definire, alla luce di tutto ciò, Luna nera come un modello virtuoso, a causa di un velleitarismo fragile e confuso che trova forse solo nelle musiche di Black Casino & The Ghost l'unico vettore di insondabile, macabra e tetra fascinazione (anche sul versante della colonna sonora, però, la deriva rock delle ultime puntate è decisamente rivedibile). Probabilmente, e casomai potrà esistere davvero, il fantasy italiano meriterebbe una maggior conoscenza della materia e un’urgenza più flagrante che lo prenda per mano con scrupolosità, evitando le paludi dei proclami rivoluzionari e costruendo per davvero una cornice all’altezza. Anche perché, a pensarci bene, il lato più interessante di Luna nera è quello legato al realismo e all’umanità, a una femminilità marchiata a fuoco in quanto tale, alle sue ricadute ataviche e attualissime.
Un focus sacrosanto. Peccato, però, che manchi tutto il resto.

Davide Stanzione