Master MICA - Analisi di "Bones and All"
20/03/2024
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

"Bones and All"
di Anna Salogni

Cosa rimane dell’amore quando lo si consuma visceralmente?
È ciò che si domanda Luca Guadagnino quando a quattro anni da Suspiria torna a cimentarsi nel genere dell’orrore. Ad accompagnarlo è di nuovo il fidato sceneggiatore David Kajganich, che avvicinandosi al suo cinema viene rapito dai personaggi tormentati e meravigliosamente imperfetti che lo popolano.

Questa volta, il punto di partenza è un romanzo di Camille DeAngelis. Abbandonando l’ethos fiabesco del libro, Bones and All si ispira a road movies del passato per presentarsi come un itinerante racconto di formazione. Il film vuole offrire allo spettatore una visione intima del tema brutale dell’antropofagia. Grazie al suo impegno realista, che salvo alcune scene d’impatto spoglia il film del carattere gore, Bones and All è capace di una grande verosimiglianza: è questa la vera componente dell’orrore. Quello che i protagonisti attraversano non è un fittizio mondo distopico; è il mid-west americano, che al termine degli anni Ottanta i due percorrono, prima ancora che come predatori, come giovani adolescenti alla ricerca di una connessione umana di valore. Svincolando la narrazione dal giudizio, come di sua consuetudine, il regista utilizza il cannibalismo come metafora per altri impeti che risiedono nei meandri dell’esistenza umana. L’interpretazione più ricca, in questi termini, riguarda la chiave di lettura dell’antropofagia come tropo della tossicodipendenza.

Guadagnino è un grande appassionato di George Romero e legge, tra le righe delle sue storie di paura, degli importanti saggi sull’America. Allo stesso modo, Bones and All è disseminato di indizi che portano a una riflessione trasversale sulla società americana e i suoi spettri. Il film è ambientato nel 1988, a cavallo tra due decenni che segnano l’inizio della battaglia statunitense l’abuso di sostanze stupefacenti, e più in particolare di crack. Curiosamente, mentre alla 79ª edizione del festival il film vale a Luca Guadagnino il Leone d’Argento per la miglior regia, un film documentario contro la società farmaceutica Purdue Pharma vince il Leone d’Oro. La presenza di progetti come questi alla mostra d’arte cinematografica sottolinea l’urgenza della tematica.

L’innocenza selvaggia 
Come sua protagonista Luca Guadagnino sceglie Taylor Russell. L’attrice interpreta il personaggio di Maren Yearly, una giovane il cui sguardo dolce e curioso cela sin da subito un’oscura solitudine. Data la sua marginalità sociale, quando finalmente riceve l’invito a una serata tra compagne non indugia a disobbedire alle regole del padre per potervi partecipare. Quella che sembra un innocente ribellione adolescenziale è in realtà l’incauta illusione (la prima di diverse) di poter domare i propri impulsi. Poco dopo, infatti, la ragazza cede al suo primo impeto cannibale. Il prezzo da pagare per essersi arresa al desiderio di carne umana è altissimo: compromette la sua immagine, metaforicamente riflessa in uno specchio rotto, e il rapporto con il padre. Quest’ultimo, infatti, cede al rimorso per la sua impotenza e abbandona la figlia. Così, la giovane diciottenne inizia il suo viaggio: guidata dalle parole del padre, che le lascia un nastro registrato per raccontarle il suo passato, parte nella speranza di poter determinare il proprio futuro.

Ad introdurla veramente nella dimensione cannibale è Sully, frutto dell’impeccabile interpretazione di Mark Rylance. Il personaggio rievoca molto Joseph Beuys, un performance artist tedesco. Da lui Sully eredita lo stile, la peculiare postura e lo sguardo tormentato, che lo disegnano come una metafora del deterioramento del mito statunitense. L’inquietudine da lui trasmessa non ferma però Maren, che vigile accetta il suo invito a cena per ascoltare i suoi avveduti ma raccapriccianti racconti. Davanti a lei giace aperto Dubliners di James Joyce, che silenziosamente annuncia il tema della solitudine come motore dell’itinerario della ragazza. Cibatasi finalmente della tanto bramata carne umana, inizia a fare i conti con l’urgenza della sua dipendenza, ma diffida dall’uomo, e dunque scappa da lui riprendendo il suo anti-eroico monomito. 

Attraverso le costellazioni familiari della carne
A Maren non sono mai mancate le premure del padre, il quale ha sacrificato tanto per coprire le tracce dei suoi crimini. Ma il suo silenzio costituisce un limite che sarà causa del divario incolmabile tra di loro. Questa esperienza disfunzionale con la genitorialità spinge Maren a scavare nel passato della madre, nella speranza di trovare familiarità in ciò che non ha mai conosciuto. La prima a parlarle di lei è la nonna, interpretata da Jessica Harper. Sul suo volto, già protagonista del Suspiria di Argento, si legge la repulsione verso un passato che aveva sepolto e che è tornato a bussare alla sua porta. Per mantenere Maren all’oscuro dalla dipendenza della figlia, la dichiara morta. Quando si rende conto che la nipote ne condivide la natura oscura le rivela dove si trova, invitandola a non presentarsi più in casa sua. 

È così che la ragazza raggiunge finalmente l’ospedale psichiatrico in cui, da anni, risiede la madre. Ciò che trova davanti a sé è raggelante: il cannibalismo l’ha sottratta da una vita all’insegna dell’amore, e il rimpianto l’ha indotta all’automutilazione. Ormai quasi priva di lucidità mentale, Janelle si racconta alla figlia tramite una lettera scritta anni prima, al termine della quale cercherà di ucciderla in un ultimo paradossale atto d’amore. 

Il dolore inflitto loro dalla dimensione familiare unisce Maren e Lee quanto la fame di carne umana. Anche il ragazzo la eredita dal padre, figura abusiva che infonde in lui un profondo senso di protezione nei confronti della sorella e della madre. In uno dei suoi momenti violenti, Lee lo allontana e poi mangia. Prima lo uccide salvandole da lui, poi si allontana di casa per salvarle da se stesso. L’ombra del ricordo di quest’atto continuerà a perseguitarlo nel profondo: in una sequenza onirica, immagini legate alle sue pulsioni più viscerali vengono accompagnate dai rumori riconducibili all’atto cannibale. Quando incontra Maren, si rende conto di potersi finalmente prendere cura di qualcuno potendole stare accanto, potendola comprendere, e speranzoso di poter essere a sua volta compreso. I due si trovano, si guardano, si fiutano, si scelgono. Diventano l’uno la coscienza dell’altro, motivo per cui osservare i parallelismi costruiti tra loro corrisponde quasi ad indagare sfericamente lo stesso individuo. Lee è un personaggio eccentrico, molto dinamico. Maren è invece una persona riflessiva, più statica. Spesso la si vede immersa nella lettura o seduta a un tavolo in preda ai suoi pensieri.

Stare con Lee significa fare i conti con la sua natura, è come se impersonasse la sua coscienza: non a caso, quando si convince di voler reprimere il suo istinto cannibale si allontana da lui. Gli chiede di lasciarla andare, gli ordina di stare zitto, gli recrimina le azioni violente che hanno compiuto mossi dalla fame. Deve allontanarsi da lui perché lui, in un senso, la rappresenta. Sono entrambi le due facce della dipendenza: chi si abbandona ad essa percependola come immutabile e chi cerca in tutti i modi di combatterla. 

È in noi che i paesaggi hanno paesaggio
Viaggiare permette ai ragazzi di conoscere le persone che appartengono al loro mondo, che mostrano vari aspetti della loro stessa condizione. Si tratta di personaggi adulti che appartengono all’universo antropofago. Se i giovani amanti sono sensibili, intrepidi, si mettono in discussione, le persone che incontrano hanno già abbandonato la lotta morale. Questa contrapposizione dell’umano è fortemente guadagniniana. Nella sequenza di Bones and All in cui Maren e Lee incontrano Jake (Michael Stuhlbarg) e Brad (un cameo di David Gordon Green) e si scontrano con l’adultità che proietta il loro futuro da emarginati. Jake paragona Lee proprio a un tossicodipendente, riconoscendo in lui l’illusione di avere sotto controllo la propria condizione. Gli dice: “L’amore ti salverà”, ma la sua voce infonde tutt’altro che speranza. 

I due emarginati si alienano in una dimensione propria. A un certo punto del loro viaggio, la forza del loro legame li convince di poter bastare contro la loro dipendenza. Così, decidono: “Ci fermiamo, troviamo un posto, un lavoro… Come fa la gente normale. Diventiamo loro per un po’”. 

Queste parole suggeriscono la consapevolezza nei confronti della precarietà della loro nuova vita. A comprovarlo è il personaggio più emblematico del film, Sully. Il suo rapporto con Maren riassume in maniera brillante il rapporto dei tossici con le sostanze stupefacenti. Quando si conoscono Sully vuole convincere la ragazza di essere di buona compagnia, di poterla proteggere dal mondo esterno e di poterle offrire ciò che desidera. La seconda volta che si incontrano è quando Maren è già in viaggio da tempo. È cresciuta, è più matura, e diffida da Sully per i suoi sospetti comportamenti. Lui poi si ripresenta nel momento in cui i due giovani si stanziano. Piomba in casa loro, aggredendo Maren e immobilizzandola, esattamente come fa la dipendenza, che anche nel momento più sereno può ripresentarsi e far sprofondare nell’abisso. Maren osserva anche la treccia di capelli che Sally si portava dietro, un simbolo di tutte le persone che la dipendenza ha travolto e trascinato con sé. 

 “Amami e mangia”
Dopo la morte di Sully, i due giacciono sconvolti sul pavimento di casa. Gravemente ferito, Lee prega Maren di cibarsi di lui, fino all’osso. Lei lo bacia, poi lo morde e smembra: mangia il suo cuore, si sfama del suo amore. Lee si libera della sua corporeità offrendola a Maren. La nutrizione intraspecifica da atto disdicevole diventa qui atto d’amore, condizione pura dello spirito. In questa scena si rileva il contenuto: Maren che penetra il cuore gemente dell’amato rivela che la dipendenza è una dichiarazione al mondo, è l’impossibilità di sfuggirne, è l’atrofizzazione dell’umano, è il disegno a tratti invisibile a cui è destinato. 

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