Master MICA - Analisi di "Enemy"
12/03/2024
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

“ENEMY”: PAURA E DELIRIO A TORONTO
di Enrico Riziero

Nel 2013 Denis Villeneuve ha tra le mani una sceneggiatura complessa, stratificata, con forte carica allegorica. La “novel” di José Saramago, “L’uomo  duplicato”, sostrato narrativo della pellicola, racchiude una trama pregna di simboli ed allegorie ed è caratterizzata da un modus scribendi che si attorciglia di continuo su se stesso, lasciando il lettore interdetto, sgomentato, confuso.

Villeneuve ci restituisce una pellicola concettuale, basata su un romanzo difficilmente trasponibile sul grande schermo. E dimostra maestria nel porre lo spettatore all’interno di ambientazioni indigeste, in cui il filtro applicato alle immagini ci toglie il respiro e la lentezza nel muovere la cinepresa ci porta ad accusare la complessità della narrazione. Il regista è, però, in grado di allocare questo film all’interno di un amalgama (la propria filmografia) uniforme e presso la quale “Enemy” non rappresenta uno sfortunato esperimento o il delirio di un pazzo. Egli comprova quanto detto inserendo all’interno dell’opera alcune inquadrature che richiamano propri film passati; ed anche l’utilizzo sapiente di un filtro così totalizzante è in linea con altri prodotti dello stesso regista, anche se successivi a questo. L’autore, da ultimo, restituisce il turbamento del protagonista con immagini che rappresentano uno spettacolo cinematografico finalizzato a raccontare non tanto una storia quanto il difficile stato d’animo del soggetto e la sua personalità distorta. Una buona metà della pellicola è destinata a descrivere in modo certosino in che modo il protagonista prova a gestire le vicissitudini interiori al proprio Io. 

Il film potrebbe esser visto come il manifesto di una grave malattia neuropsichiatrica, la depressione. Il protagonista, in qualsiasi dei due gemelli lo si voglia intendere, è una persona che manifesta molti dei sintomi che convenzionalmente vengono ricondotti ad un solido stato depressivo.

Il professore è un soggetto apatico e che conduce una vita che non lo soddisfa totalmente. Lo scorrere sempre uguale delle giornate lo porta ad accusare una forte disaffezione nei confronti di sé, del proprio lavoro, delle relazioni che stancamente cerca di nutrire. Jake Gyllenhaal riesce a ben trasmettere stati di irrequietezza e straniamento, specialmente prima che la scoperta di aver un sosia identico conceda al professore (o l’attore? O entrambi?) un brivido che faccia breccia nell’apatia che lo accompagna. Adam spesso allenta la cravatta, sbuffa indolente; all’interno della propria abitazione, mai davvero ospitale ma asettica, quasi ospedaliera, disordinata, non trova stimoli, si accascia di fronte ai compiti da correggere, osserva quasi assopito il film “incriminato”.

Anche il suo doppelgänger Anthony, l’attore, non manca di mostrare una forte suscettibilità (la stessa che lo porterà a litigare con l’amante e a schiantarsi in macchina, nella sequenza che decreterà l’apparente dipartita del lato più trasgressivo e infedele del professore) o uno stato d’animo disequilibrato, in grado di passare da una acuta irritabilità a una ingiustificabile sguaiatezza nel giro di qualche secondo (vedasi lo scambio di battute con se stesso dinnanzi allo specchio). 

Ancora: Adam subisce uno stato di sonno non continuativo dettato da una mai sopita irrequietezza che lo porta a interrogarsi su quanto gli sta accadendo e su come gestirlo; ed un sentimento di autosvalutazione eccessivo, fortificato dal comportamento poco affettuoso dell’amante e dalla scarsa considerazione della madre, incapace di comprendere la complessità del suo stato d’animo, che gli chiede il perché di tanta trascuratezza nei confronti dell’altro sesso e della propria vita. 

Il professore cammina sul filo sospeso tra l’accettazione del totalizzante problema della depressione e la prodiga volontà di “vederci meglio”: nella sequenza in cui prova diverse paia di occhiali prima di scegliere quelli giusti da acquistare è un po’ come se stesse cercando il giusto punto di osservazione di un male onnipresente all’interno della propria vita. 

Adam, Anthony che dir si voglia, manifesta una fortissima estraneità al mondo che lo circonda, un mondo che, imperniato attorno alla città che fa da sfondo alla narrazione, pare contraccambiare tale stato di apatia e disinteresse; questa città, così algida e imponente dall’alto dei propri grattacieli senza colore. Una città perturbante, labirintica, affaccendata nell’incasellare chi la abita in appartamenti tutti uguali tra loro, in case “caselle” che paiono quasi dei loculi. Anthony mostra un acuto senso di malessere nei confronti del proprio lavoro, mai davvero soddisfacente e stimolante; e insofferenza nei confronti della donna, nei confronti di quel ragno allegorico che intesse una fitta ragnatela alla quale il protagonista si sente incollato. 

Sopperiscono la simbologia e l’onirologia a spiegazione della presenza del ragno all’interno della pellicola. Queste ritengono il ragno un animale ambivalente da un punto di vista interpretativo, in quanto può rappresentare tanto un essere spregevole, a incarnare un trauma, una fobia, un disturbo che si cerca di scacciare; quanto un animale di buon auspicio, a cui si può affibbiare il valore simbolico del duro e creativo lavoro volto al raggiungimento di uno scopo. In questo film, la presenza del ragno può rappresentare tanto il sesso femminile ed il rapporto che il protagonista ha con questo quanto la depressione. Rilevante diventerebbe la sequenza in cui il ragno assume dimensioni imponenti e aleggia sulla spettrale Toronto. La presenza della donna, della madre, della depressione e il rapporto che Adam ha con queste: tutto ciò diviene un ostacolo insormontabile per costui, al contempo la sua fobia più grande e la sua forma di stress maggiore. 

Questa bestia parrebbe assai difficile da sconfiggere, anche volendo: tant’è che nella prima sequenza, Villeneuve interrompe l’inquadratura sul ragno in procinto di esser schiacciato dal tacco prima ancora che ciò accada, portandoci a domandarci: Adam riuscirà nell’intento di mettere una pietra sopra a questo martoriato rapporto, uscendone indenne? Tale domanda può ricevere sommaria risposta in due sequenze. La prima, quella dell’incidente d’auto che conduce alla morte dell’attore Anthony, si conclude con un focus della cinepresa sul finestrino incrinato dell’auto, che parrebbe così richiamare la tela del ragno. Domandiamoci: tanto la depressione quanto l’opprimente figura della donna sono complici nell’uccisione di Anthony stesso? O, invece, Anthony decide di uccidersi per liberarsi di queste? La seconda sequenza è quella conclusiva del film: il ragno, riconosciuta l’incapacità di Adam di venir meno ad abitudini tanto consolidate quanto ambigue e fedifraghe, si spaventa dinnanzi alla presenza del piccolo uomo, ponendosi in posizione di difesa sebbene abbia dimensioni notevoli. L’essere femminile, la patologia depressiva cedono definitivamente il fianco all’inerzia del protagonista nel volerle affrontare sul serio? Divengono, quindi, un tutt’uno con lui compenetrandosi al punto tale che non ci sia possibilità di scampo per il professore?

Tra le pieghe di una trama fitta di colpi di scena si nasconde una possibilità di interpretazione altra, che presuppone, però, che Adam e Anthony non vengano considerati come un unicum interiormente martoriato, ma come due persone distinte e con due personalità antitetiche che però trovano un ponte che li unisce: ossia l’anelito a modificare il proprio status sociale.

Adam guarda all’universo attoriale come a un inarrivabile universo a cui tendere, che potrebbe consentirgli, anche solo per un istante, di uscire dal piattume della propria vita. Indossa gli occhiali da sole, solleticato dalla possibilità di fingere di essere chi non è, non solo per scoprire aspetti del suo alter ego che altrimenti non potrebbe carpire, ma anche per sentirsi parte di un insieme di immaginari mitici. La parte dell’attore distratto che si reca sull’ex posto di lavoro per “recuperare quella cosa per il film” gli calza a pennello, pare quasi che l’abbia provata off camera prima di inscenarla davvero. E prima ancora di quella sequenza, in un negozio prova diverse paia di occhiali, alla ricerca del tipo perfetto che gli consenta di non dare nell’occhio ma soprattutto di “vestire la parte” in modo quasi teatrale. Sul finale, in parte smosso anche dal colpo basso che Anthony gli sta nel frattempo fendendo, Adam entra, a sua volta, volutamente all’interno dell’abitazione di Anthony, ne veste i panni, seppur mascherando tale operazione con la (artificiosa) timidezza che contraddistingue il professore dall’attore.

D’altro canto, l’attore Anthony, nel maturare l’intento di entrare nella vita del professore, è come se volesse cogliere l’opportunità di essere, per una volta, una persona qualunque, che vive una vita qualunque, lontano dagli strass e dallo stress del jet set. Costui dapprima si interessa alla figura di Adam e alla sua vita; fino a che deciderà di appropriarsene, con un atto di violenza che potrebbe aprire ad altre interpretazioni. Nella misura in cui, infatti, considerassimo davvero Adam e Anthony come una persona sola, questa suggestione potrebbe indurci a considerare il protagonista della storia come un soggetto martoriato interiormente, nauseato dal mondo borghese e che non sa da che parte stare. Così dicendo, parrebbe giustificata la sequenza del film in cui, davanti allo specchio, se la prende dapprima con stesso e poi vi si complimenta; sequenza nella quale, inoltre, la figura della donna viene demitizzata, oggettivizzata, a rappresentare la scarsa considerazione che in alcuni ambienti della società ricco – borghese si ha dell’essere femminile. Rimanendo ancorati a tale suggestione, le due donne presenti all’interno della narrazione potrebbero addirittura non essere mai esistite ma rappresentare due diverse proiezioni operate dal rispettivo compagno  a seconda dello status quo che si trovi a, o che voglia, indossare.

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