Master MICA - Analisi di "Still Alice"
28/03/2020
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!

Diletta Vignolo - Still Alice (2014) di Richard Glatzer, Wash Westmoreland

Introduzione
Questo film tocca argomenti che si possono dire universali: la paura di morire, di lasciare i propri cari, la paura (e apprendere l’arte) di perdere. Fa riflettere su alcuni aspetti della vita e dell’importanza dei ricordi, di come ognuno di noi decide di costruire la propria vita e delle scelte che facciamo ogni giorno.
L’argomento principale del film è il morbo dell’Alzheimer e di come cambi la vita non solo della persona affetta da questa malattia, ma anche di tutti quelli che le stanno intorno.
Il film del 2014 è l’adattamento cinematografico del libro “Still Alice” scritto da Lisa Genova ed è scritto e diretto dalla coppia (anche nella vita) formata da Richard Glatzer e Wash Westmoreland.
In questo film Julianne Moore, che per la sua interpretazione si è aggiudicata l’Oscar alla migliore attrice protagonista, interpreta Alice Howland, la protagonista, una professoressa di linguistica molto conosciuta nel suo campo, che ad un certo punto alla soglia dei 50 anni, le viene diagnosticata una forma precoce del morbo di Alzheimer. Alice è la rappresentazione di una donna molto forte, capace ed estremamente intelligente, ad esempio, viene detto che è riuscita a portare avanti la sua brillante carriera e al contempo crescere tre figli.
Dalle prime scene la protagonista viene presentata come una donna energica, stimolante e con un tono di voce molto alto, quasi fastidioso. Rispetto al tema della voce, a mio parere, è molto importante che il film venga visto in lingua originale, Julianne Moore fa un lavoro incredibile sotto questo punto di vista, ci mostra tutte le fasi della de umanizzazione che questa malattia porta, man mano che il film va avanti noi non riconosciamo più la protagonista esattamente come lei non riconosce più sé stessa. La voce che cambia, che pian piano trema sempre di più, le parole che vengono troncate a metà sono il segno più evidente della malattia che ogni giorno distrugge il cervello della protagonista.

1.    Prima Parte
La prima scena ci mostra Alice durante la cena per il suo cinquantesimo compleanno. Sono presenti il marito, interpretato da Alec Baldwin, sua figlia Anna, interpretata da Kate Bosworth, e suo marito Charlie, e il figlio Tom, interpretato da Hunter Parrish. L’unico componente della famiglia che manca è la figlia più piccola di Alice, Lydia, interpretata da Kristen Stewart.
In questa prima scena viene toccato un argomento che verrà poi affrontato per tutto il film, ovvero la relazione tra fratelli. Si capisce fin da subito che tra i tre fratelli c’è un rapporto conflittuale. In un momento di distrazione, alla frase pronunciata da Charlie “You guys must have been something growing up. Dolls with heads cut off”, Alice risponde che lei e sua sorella andavano molto d’accordo. In realtà Charlie con questa frase si riferiva al rapporto tra Anna e Lydia. Inoltre, in questo momento possiamo già intuire che Alice abbia un problema di estraniazione da quello che le succede intorno, ancora prima di sapere che è malata.
Tornando al tema del rapporto tra fratelli, viene detto che la sorella della protagonista morì da giovane in un incidente stradale con la madre, lasciandola crescere da sola con il padre alcolizzato. La sorella viene mostrata solo nei flashback che accompagnano la narrazione dal momento che le condizioni di Alice peggiorano, questo perché nei malati di Alzheimer spesso i ricordi più vividi sono quelli temporalmente più lontani.
Nella seconda scena assistiamo a una conferenza tenuta alla UCLA dalla protagonista, la vediamo mentre cammina per i corridoi di spalle, è vestita bene, ha i capelli perfetti come sempre, la accompagna una colonna sonora rilassante e rilassata. Viene introdotta alla platea come una donna incredibilmente brillante e appena inizia a parlare questo viene confermato dalla sua parlantina veloce e sicura, un tono di voce alto, quasi fastidioso (come già detto è importante guardare il film in lingua originale per capire questo aspetto).
Ad un certo punto della presentazione le viene a mancare una parola e non riesce ad andare avanti nel discorso. Con un piccolo espediente riesce a riprendere il filo del discorso, e pronuncia una frase che racchiude l’essenza del film “the relationship between memory and computation, that is the very essence of communication”.
A mio parere questa frase è così importante perché questo è tutto ciò in cui crede Alice, la memoria e la computazione, intesa come capacità di formazione delle parole, è l’essenza della comunicazione, una cosa che da lì a breve lei non sarà più in grado di fare.
Nella scena che segue Alice è in macchina ed è evidentemente turbata da quello che è successo durante la sua presentazione, e qua entra in scena un altro importante elemento del film, la tecnologia. La tecnologia è un aspetto fondamentale in questo film, vediamo addirittura ad un certo punto che Alice affiderà il cervello al suo telefono. In questa scena gioca ad un gioco dove deve formare una serie di parole, una specie di “Scarabeo” online, dove solitamente si sfida con la figlia Anna, infatti questo gioco verrà menzionato più volte durante il film.
La tecnologia però non è presente solo all’interno del film, ma anche nella regia, infatti, uno dei due registi, Richard Glatzer, morto poco dopo la fine delle riprese, era affetto da sclerosi laterale amiotrofica, ha utilizzato un iPad per comunicare con il cast e la troupe.
Successivamente vediamo Alice in un incontro con la figlia Lydia e ci viene presentato il loro rapporto. Il loro è un rapporto pieno di affetto ma anche molto conflittuale, essendo che hanno due visioni completamente distinte della vita, Lydia vuole fare l’attrice e non andare al college, mentre Alice la spinge costantemente verso la laurea.
È molto bello, a mio parere, vedere come alla fine del film l’unica persona che rinuncerà ai suoi sogni per stare accanto ad una Alice ormai completante assente è proprio Lydia, la figlia “ribelle”.
Una delle scene più importanti del film arriva dopo 10 minuti dall’inizio del film.
In questa scena seguiamo Alice nella sua consueta corsa per il campus, che conosce perfettamente. Ad un certo punto però, si perde. Non riconosce il luogo in cui si trova. Questo viene fatto capire allo spettatore da diversi elementi: la musica, il movimento della telecamera e dalle immagini. La musica da serena diventa più cupa e ansiogena nel momento in cui iniziamo a capire che qualcosa non va. Alice ferma la sua corsa e la telecamera, da che seguiva i suoi movimenti, inizia a girarle intorno, in un misto tra ansia e smarrimento e le immagini diventano sfuocate, si vedono persone e palazzi con i contorni sfumati, i movimenti di Alice sono a rallentatore e ha il respiro affannato, non solo per lo sforzo fisico. Anche i colori diventano più freddi rispetto a quelli che siamo fino ad ora abituati a vedere.
Nel momento esatto in cui riprede conoscenza del posto in cui si trova, la telecamera si ferma, la musica sparisce e i contorni di quello che la circonda tornano nitidi.
In questo film sono presenti diversi elementi che fanno immergere completamente lo spettatore nel contesto descritto.
Uno di questi elementi è la colonna sonora, nello stesso film possiamo ascoltare la stessa canzone, “If I had a boat” di Lyle Lovett, due volte ma cantata in modo diverso da due cantanti diversi. La prima volta la sentiamo cantata dallo stesso Lovett, mentre durante i titoli di coda la sentiamo riarrangiata e cantata da Karen Elson. Lo spettatore capisce che la canzone è familiare, ricorda qualcosa, il testo è lo stesso, la melodia è quella, ma c’è qualcosa che cambia, è come se il ricordo fosse completamente offuscato e non ci rendiamo conto di cosa sia vero e di cosa, invece, stiamo completando con la nostra mente. E questo film ci costringe a fare questo processo di ricostruzione mnemonica, esattamente come fa ogni giorno la protagonista, che sempre di più fatica a riconoscere le parole, le persone e persino sé stessa.
Sempre restando sulla colonna sonora, nel film sono presenti moltissimi brani classici, come se la melodia classica fosse l’unica che l’uomo possa ricordare, in un ricordo quasi primordiale, e accompagna la progressione della malattia. Se all’inizio si sentono melodie leggere, man mano che si va avanti nella storia le melodie diventano sempre più cupe.
Nella scena che segue vediamo Alice durante la prima visita da un neurologo. Successivamente ci troviamo in casa della protagonista e la troviamo intenta a cucinare per il giorno di Natale. In questa scena la prima cosa che mi ha colpito sono i colori, sono colori molto caldi, il rosso dei capelli della protagonista sembra quasi accentuato, è rossa anche la pentola in cui sta cucinando e la lavagnetta in cui scrive le parole. A mio parere il rosso sta a simboleggiare il senso di tranquillità che le da la sua casa e la sua famiglia, vediamo infatti che durante tutto il film nelle scene dove Alice si sente al “sicuro” c’è un elemento rosso.
In questa scena però succedono due episodi significativi (uno più dell’altro):
il primo è legato alla tecnologia, Alice si affida al suo telefono per controllare una ricetta che prepara ogni anno, che quindi dovrebbe sapere a memoria; mentre il secondo è che si presenta una seconda volta alla nuova fidanzata del figlio, non ricordandosi che l’aveva vista poco prima.
Nelle scene successive vediamo Alice che lotta contro la perdita. Perdita del sonno, della memoria, delle parole, del tempo.
Da questo momento in poi il personaggio di John, il marito di Alice, prende sempre più importanza. A mio parere è un personaggio negativo, lui è l’unico della famiglia che non comprende appieno i sentimenti e la malattia della moglie. Non riesce a capire, o non vuole capire, gli stati d’animo della moglie, sembra quasi che gli interessi solo del suo lavoro, infatti, vedremo che verso la fine del film lascerà la moglie con la figlia Lydia (che al contrario rinuncerà alla sua carriera a Los Angeles per stare vicino alla madre) per proseguire la sua carriera in un altro stato.
Verso la fine della prima metà del film, viene mostrato un altro momento molto importante per quanto riguarda la tecnologia. Vediamo Alice, ancora capace di intendere e di volere, scrivere sulle note del suo smartphone tre domande a cui dovrà rispondere ogni giorno. In questo momento vediamo come Alice affida completamente il suo cervello alla tecnologia.
Subito dopo però questa totale dipendenza dalla tecnologia che Alice sceglie di avere si fa ancora più forte con la registrazione di un video per la Alice del futuro che non sarà più in grado di rispondere alle domande scritte sulle note.
Nel video lei parla di quanto la sua vita sia stata bella e piena di felicità, ricorda la sua brillante carriera e la sua splendida famiglia. Alla fine, si dà delle istruzioni precise per suicidarsi, per finire il dolore e smettere di essere un peso per la sua famiglia, quando arriverà al punto di non ritorno, dovrà ingerire una quantità elevata di pastiglie situate in una cassettiera in camera sua. Nel cassetto dove ripone le pastiglie trova una collanina con un ciondolo a forma di farfalla, regalatole dalla madre, che darà il nome al file del video (butterfly). La madre le aveva regalato questo ciondolo quando era piccola, dopo che durante una lezione a scuola scoprì che le farfalle hanno una vita molto breve e questo disturbò molto la piccola Alice. Questo animale simboleggia la vita di Alice, bellissima ma breve, e viene confermato in una scena a metà film, dove la protagonista parla con la figlia minore, Lydia, durante una passeggiata in spiaggia.

2.    Seconda parte
Analizzando la scena successiva voglio introdurre un discorso sul tipo di regia usata. Questo film è molto soggettivo, nel senso che lo spettatore è portato a mettersi nei panni della protagonista grazie a diversi elementi, tra i quali la regia.
Il lavoro svolto da Richard Glatzer e Walsh Westmoreland è proprio quello di mettere lo spettatore in condizione di provare tutte le sensazioni che prova Alice. Questa tecnica viene utilizzata soprattutto sui cambi di location.
Alla fine della scena della registrazione del video, c’è uno stacco e troviamo Alice che si risveglia in una casa al mare, e noi come lei non sappiamo quanto tempo sia passato dalla scena precedente, come lei sia arrivata in quella casa e perché. Ci svegliamo con lei e andiamo a scoprire insieme la casa, dove sono le stanze, dov’è il bagno, dov’è il mare. Questa tecnica l’ho trovata personalmente molto disorientate, ma è proprio questo il perché del suo utilizzo, noi spettatori dobbiamo sentirci così, esattamente come si sente la protagonista.
Sempre durante la visita alla casa al mare, Alice ritrova un album con delle foto di lei, sua madre e sua sorella. Qua veniamo introdotti a dei primi brevi flashback. Visivamente questi flashback sono presentati come dei filmini delle vacanze, rapide immagini di video amatoriali, che mostrano una Alice bambina giocare in spiaggia con la sorella maggiore. Tutto ciò rappresenta l’inizio del vero e proprio declino della mente della protagonista, e viene usato questa modalità perché è comune nei malati di questo morbo che gli unici ricordi a sopravvivere nella mente siano quelli del passato più lontano.
Questo è sottolineato ancora di più dai momenti che succedono il flashback, quando la protagonista, prima di andare a correre con il marito, deve andare in bagno, ma non lo trova e non riesce a trattenere lo stimolo. In questa scena è presente una musica angosciante per sottolineare la drammaticità della situazione, tecnica già usata dai registi. Trovo questa scena molto importante per due motivi, il primo è perché ci fa capire quanto si stia aggravando la condizione medica di Alice e il secondo motivo è perché mostra i primi segni dei gesti infantili che la protagonista farà sempre più frequentemente.
Da questo momento in poi vediamo il lavoro incredibile svolto da Julianne Moore: i movimenti diventano minimi, assistiamo ai suoi sguardi spegnersi, la delicatezza delle sue mani, la lentezza dei suoi passi. Notiamo il cambiamento anche rispetto all’abbigliamento, alla cura dei capelli e del trucco.
Inoltre, la regia si fa sempre più intensa, le immagini sfuocate che piano piano tornano ad essere nitide sono sempre più numerose come a farci vedere lo sforzo mentale che fa Alice per cercare di riconoscere persone, luoghi, concetti.
Nel frattempo, il legame con la figlia Lydia si fa sempre più stretto, lei è l’unica a chiederle come ci si stente davvero a vivere così, sembra essere l’unica a cui davvero importa qualcosa. In una scena vediamo l’intera famiglia Howland partecipare ad una rappresentazione teatrale di Lydia, una volta finita seguiamo una Alice disorientata mentre cammina, lei di spalle è l’unica persona che vediamo con nitidezza, nel backstage e non appena le viene inquadrato il viso capiamo subito dal suo sguardo vuoto che non sta capendo che la persona con cui sta parlando è proprio sua figlia.
Arriviamo a quella che per me è una scena fondamentale del film, il discorso di Alice all’Associazione Alzheimer.
Alice scrive e legge, con l’aiuto di un evidenziatore per evitare di leggere due volte le stesse cose, del tema della perdita. Non parla solo della perdita del sonno, dell’orientamento, degli oggetti o dei ricordi, parla anche della perdita della percezione che gli altri hanno della persona malata.
Questo è il punto fondamentale di tutto quello che abbiamo visto fino ad ora, questa malattia cambia, non solo la percezione del malato verso sé stesso, ma soprattutto la percezione che gli altri hanno del malato. Nel discorso Alice dice che questa è una malattia che rende il malato ridicolo agli occhi degli altri, riposto un estratto del discorso che a mio parere è il cuore di tutto: “Who can take us seriously when we are so far from who we once were? Our strange behavior and fumbled sentences change others’ perceptions of us and our perception of ourselves. We become ridiculous, incapable, comic. But this is not who we are. This is our disease.”
La malattia come fattore che scatena il distacco tra quello che siamo e quello che percepiamo di noi stessi, e la tecnologia come strumento che usiamo per rimanere attaccati a quello che siamo.
Ma, continuando con il discorso, afferma che la cosa più importante da fare è vivere il momento e cercare di rimanere connessa a quello che era un tempo, e qua possiamo trovare il senso del titolo del film “Still Alice”, come se la protagonista dicesse allo spettatore: sono sempre io, Alice, cerco in tutti i modi di aggrapparmi a quello che ero perché è l’unica cosa che posso fare.
Come già detto la regia ci fa immergere completamente nella testa di Alice, spesso non sappiamo quanto tempo sia passato tra una scena e l’altra o non sappiamo dove ci troviamo. L’ennesimo esempio di questa tecnica è dato dalla scena in cui Alice perde il telefono. Una notte si sveglia e non trovando il suo telefono, ormai strumento necessario per la sua sopravvivenza, va nel panico. Solo quando arriva John si tranquillizza. Immediatamente dopo a questo fatto, vediamo Alice tranquilla, intenta a fare un puzzle. La sensazione è quella che sia passato poco tempo dalla scena precedente esattamente come crede Alice (in questa scena John trova il telefono, e Alice dice che la notte precedente non riusciva a trovarlo) mentre scopriamo che in realtà è passato un mese da quell'avvenimento.
Andando avanti vediamo i comportamenti di Alice essere sempre più infantili, non riesce ad allacciarsi le scarpe, gli sguardi fissi nel vuoto, i flashback si fanno sempre più frequenti e rappresentano sempre lei e la sorella in spiaggia, sempre come se fossero dei filmini amatoriali delle vacanze.
Arrivando al punto in cui Alice ormai non ricorda più quasi nulla, che non riesce più a rispondere alle domande sul telefono, vede il video registrato in precedenza, e proprio in questa scena ho capito l’importanza di Julianne Moore in questo film. Guardando la Julianne Moore che compare sullo schermo del computer e quella che guarda il video, si vedono due persone completamente diverse, anzi non solo, addirittura due attrici diverse. In questa scena si può leggere il passaggio del tempo, quasi ti eri dimenticato di quel video, perché eri nella testa della protagonista. Nel video la Alice del passato racconta alla Alice che ormai non comprende e non ricorda più quanto la sua vita sia stata meravigliosa, e riusciamo a leggere negli occhi delle due Alice cose differenti, in quella del video traspare un velo di malinconia mentre racconta i momenti felici, mentre in quella che guarda una serenità quasi incosciente. In questa scena è presente una musica angosciante che ci accompagna prima alla cassettiera che contiene le pillole, e poi fino al bagno dove Alice però viene interrotta e non riesce a compiere il suo suicidio.
Subito dopo questa scena, vediamo delle immagini di quelli che sembrano pietre? Caramelle? Non riusciamo a capirlo immediatamente, inizialmente sono sfuocate poi diventano nitide, più o meno è la stessa sensazione che ha un miope quando non ha gli occhiali. Scopriamo di essere con Alice e John in una gelateria, un posto in cui abbiamo visto Alice andare all’inizio del film, durante una delle sue corse nel campus. Alice è sempre più bambina, il modo in cui guarda il marito sembra quello di una bambina che guarda il padre, ammirata e desiderosa di protezione, il modo in cui si appoggia (fisicamente e psicologicamente) a lui è di una delicatezza estrema.
Varie volte nel film Alice si appoggia alla spalla di John, ma più si va avanti (l’immagine è di una scena alla fine del film) più questo gesto diventa infantile ed importante. Julianne Moore riesce ad interpretare in maniera stupenda i vari passaggi del ritorno all’infanzia che subisce il cervello di Alice. Nonostante questo ritorno all’infanzia, i gesti di Alice rimango alla base gli stessi, come a significare che la sua anima o essenza rimanesse attaccata alla realtà, come se l’anima fosse la parte più combattiva dell’essere umano.
Verso la metà di questa analisi ho detto che il personaggio di John, il marito, è negativo. Verso la fine riusciamo a capire che in realtà non è così. Con gli sguardi e i movimenti di Alec Baldwin possiamo intuire che lui è solo un uomo spaventato da quello che sta succedendo alla persona che ama, non riesce a capacitarsi del fatto che una cosa del genere sia capitata a una delle persone più intelligenti che conosca (è una cosa che ripete più volte), non “scappa” perché non gliene frega nulla di Alice, ma perché ha paura di soffrire, una paura che è insita nell’uomo. Al momento di partire, quando Lydia torna a New York per badare alla madre, John le dice in lacrime “You’re a better man than I am” perché sa che “fuggendo” sta facendo un gesto egoista, un gesto per cercare di allontanare la sofferenza.
L’ultima scena del film è la scena madre. Vediamo Alice essere arrivata alla fase “finale” della sua malattia, è in casa e ascolta la figlia Lydia mentre recita una parte dell’opera teatrale “Angels in America”. È un’opera del drammaturgo Tony Kushner composta negli anni ’90 e portata in scena negli stessi anni. L’opera è una complessa analisi  dell’AIDS  e  dell’omosessualità  in  America  durante  gli  anni  ’80,  spesso metaforica e simbolica, dove alcuni dei personaggi sono esseri soprannaturali (angeli) o persone decedute (fantasmi).
Possiamo ipotizzare che i due registi abbiano voluto mettere quest’opera all’interno del film perché i temi principali sono due: la malattia e l’omosessualità. Per primo tema è evidente il collegamento sia con la storia narrata nel film, sia con la storia di uno dei registi Richard Glatzer affetta da sclerosi laterale amiotrofica; per il secondo tema, quello dell’omosessualità, si riconduce alla coppia di registi che si conobbero nel 1995 e nacque dapprima un sodalizio artistico, sfociato poi in matrimonio.
Il pezzo che recita Lydia a primo impatto può non voler dire nulla, ma capiamo il tutto quando alla fine Alice alla domanda della figlia se avesse capito di cosa parlasse risponde “LOVE”. L’unica parola che riesce a dire Alice, incespicando, con lo sguardo estraniato, è amore. Questo brano tratto da “Angels in America” parla di una persona che riesce a vedere le anime che dalla Terra salgono in cielo e costruendo una rete di anime “riparano” la troposfera squarciata dall’aereo su cui si trova, e capisce che “nothing is lost forever. In this world, there’s a kind of painful progress. A longing for what we’ve left behind and dreaming ahead.” Capisce che tutto quello che sembra perduto in realtà serve per  qualcos’altro, che la perdita può anche essere una ricchezza, e in questo caso specifico Alice ci vuole dire (a noi e a Lydia) che nonostante tutto quello che ha perso, l’amore è un elemento che è rimasto sempre con lei.

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