Master MICA - Analisi di "The Village"
22/03/2024
Gli studenti del Master in Management dell'Immagine, del Cinema e dell'Audiovisivo dell'Università Cattolica di Milano, hanno svolto delle interessanti analisi per il corso di Storia e scenari dell'immagine e dell'audiovisivo: le pubblichiamo con piacere sul nostro portale! Complimenti!
"The Village"
di Elena Venturiero
«Il XXI secolo è nato senza anestesia. Con una crudezza e una brutalità inimmaginabili per l’Occidente. La realtà si è presentata in diretta e senza preavviso». È così che la giornalista spagnola Ana Pastor definì i sentimenti suscitati dagli attacchi terroristici dell’11 settembre. Non a caso, il sociologo e filosofo Jean Baudrillard afferma che l’attacco alle Twin Towers sia stato in grado di unire due elementi di fascinazione di massa del XX secolo: il cinema e il terrorismo. Ciò che fino ad allora era stato relegato ad un immaginario espresso esclusivamente dal cinema di serie B, si era drammaticamente tramutato in realtà. Il trauma che ne consegue si caratterizza per la sua non-assimilabilità, favorita senza dubbio dalla reiterazione mediatica del tragico evento. Molte persone, in seguito al dramma delle Twin Towers, iniziarono a mettere in discussione il proprio rapporto con la religione e l’americanness e, di conseguenza, il rapporto con la politica nazionale. D’altra parte dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti sono stati pervasi da un’ondata di paura senza precedenti, paragonabile forse, secondo A.J. Navarro, solo alla Second Red Scare, epoca che diede origine a gran parte del cinema fantastico a sfondo politico. Il terrore generato dall’attentato era, per certi versi, sproporzionato rispetto alla minaccia reale. Il sistema mediatico, alimentato incessantemente dalle dichiarazioni perlopiù farneticanti dell’amministrazione Bush, contribuiva difatti ad elevare a potenza la paura dei cittadini, bersaglio continuo di una narrazione distorta e dai toni smodatamente allarmistici. Questo clima di terrore interno si rifletteva esternamente in un atteggiamento visibilmente isolazionista. Uno dei film che meglio illustra il clima politico post 11 settembre è certamente The Village (2004) di M. Night Shyamalan.
Con The Village Shyamalan prosegue il discorso sull’isolazionismo americano post 11 settembre avviato con il precedente Signs (2002). The Village non è un film horror in senso stretto, ma ne adotta sicuramente lo stile e il linguaggio.
La prima sequenza è estremamente significativa poiché mette in luce i pilastri dell’opera: il dolore, il limite, l’isolamento e l’assedio. La narrazione si apre con il funerale del figlio di August Nicholson (Brendan Gleeson). La lapide del bambino colloca la narrazione nel 1897. Shyamalan fa della profondità di campo il suo strumento prediletto. La mdp con un movimento lento si avvicina ad August riverso sul feretro e mostra, dietro di lui, una bandiera gialla che delimita il confine tra la vallata e il bosco. La scena seguente è accompagnata dal discorso di Edward Walker (William Hurt), il quale pone al villaggio una domanda retorica: «Momenti come questi ci portano a riflettere e ad interrogarci. Fu dunque la scelta giusta stabilirsi qui?». Il tono di Edward appare incerto poiché egli stesso è consapevole che il modello utopico sul quale si poggia l’esistenza stessa del villaggio è, in realtà, una distopia. L’incertezza generata dalle parole di Edward viene subito ripristinata da un rumore fuori campo che congela l’intera atmosfera. Il rumore, proveniente dal bosco, è provocato dalle creature innominabili, le quali rappresentano il deterrente per non oltrepassare il confine. Il bosco è il primo limite che ci viene presentato. Quest’ultimo appare sia concreto poiché, come vedremo, non è possibile superare il confine per un patto di non aggressione stretto con le creature, sia astratto, in quanto il bosco rappresenta anche un limite di accessibilità ad un mondo altro e, conseguentemente, una barriera posta alle scelte di ciascun individuo. Le due sequenze successive sono funzionali per dare “forma” al rumore. Difatti la seconda sequenza, priva di dialoghi, sintetizza efficacemente la vita all’interno del villaggio. Se con le prime immagini il regista desidera mostrare la serenità della vita rurale, con le seguenti egli decide di trasmettere la realtà che si cela sotto alla purezza visiva dell’ambientazione. Mentre due donne spazzano sul portico, la loro attenzione viene catturata da un fiore rosso, il quale viene immediatamente strappato e sepolto. Successivamente su uno specchio d’acqua vediamo il riflesso di una sagoma rossa, la quale scompare in pochi istanti. Il colore rosso è sistematicamente evitato all’interno del villaggio, come è possibile evincere durante la scena ambientata alla roccia della quiete. Qui Noah (Adrien Brody) dona ad Ivy (Bryce Dallas Howard), che è cieca, delle bacche rosse. Lucius (Joaquin Phoenix) lo ammonisce poiché il rosso è il colore del male ed eccita le creature. Il rosso all’interno della narrazione si contrappone al colore giallo, il quale viene identificato come strumento di protezione. Nel primo caso sarà necessario interpellare Heidegger, il quale conia il neologismo “Lichtung”, che può essere tradotto come “venire alla luce”. Tale azione presuppone la partenza da un luogo oscuro, ove non è possibile scorgere la verità. Il viandante che, nel suo vagare, viene investito dalla luce può, tuttavia, per un breve istante conoscere la vera forma di ciò che lo circonda: la città, nel contesto della narrazione. Oltretutto i villagers utilizzano il colore giallo, proprio della luce, contro le creature, le quali incarnano una mistificazione della realtà. Nel secondo caso invece è possibile conferire un’interpretazione più “reale”. Il colore rosso sta ad indicare, secondo il National Terrorism Advisory System (NTAS), istituito dopo la tragedia dell’11 settembre, il colore che indica il rischio più elevato di subire un attacco terrorista. Il giallo, al contrario, simboleggia un rischio più moderato. Oltretutto è bene considerare che Shyamalan non mostra mai in maniera chiara le creature ma, al contrario, si serve di arguti escamotage per renderle quanto più possibile sfuggevoli e amorfe. Allo stesso modo, il popolo occidentale non riesce a definire il male, considerando il terrorismo come una minaccia invisibile. Shyamalan mostra apertamente le creature solo nel momento in cui Ivy e lo spettatore sono consapevoli che queste sono frutto di una farsa ben costruita. È necessario sottolineare che Ivy, a causa della sua cecità, può solo sfiorare la verità. Tuttavia, nei film di Shyamalan vedere non significa necessariamente conoscere: ne è un esempio palese Malcolm in The Sixth Sense (1999). Il peso di ciò che sfugge alla vista è avvalorato dal fatto che, per i villagers, che non vedono mai le creature (durante gli attacchi devono nascondersi nei rispettivi seminterrati, esattamente come la famiglia Hess in Signs), l’assedio è reale poiché essi sono dominati da una forza invisibile che ne comporta l’isolamento. Quest’ultimo ed il conseguente immobilismo sono generati dal senso di paura. Esso, secondo lo stesso Edward, può essere sconfitto solo dall’amore. Ed è proprio questo elemento che conduce la narrazione su un altro livello. Noah scopre difatti che Ivy e Lucius desiderano sposarsi. In preda ad un attacco di gelosia egli ferisce gravemente Lucius. Ivy, straziata dal dolore, chiede al padre di potersi recare in città per prendere le medicine necessarie per salvare la vita dell’amato. Siamo di fronte ad un punto di svolta: Edward non può più aderire ai dettami che regolano la vita del villaggio, poiché la sua integrità non gli consente di tollerare l’atto criminale inflitto a Lucius né di attendere che l’uomo muoia inesorabilmente. Inoltre, negare ad Ivy la possibilità di cercare aiuto significherebbe provocare un’infinita sofferenza alla sua stessa figlia, la cui vita era già stata compromessa dalla passata scelta di obbedire ciecamente alle regole della comunità. Solo svelando la verità Edward può restare fedele al proposito alla base della nascita del villaggio. Eludere il dolore mediante l’isolamento era stata solo un’artificiosa illusione. Gli anziani, difatti, in seguito a tragedie patite avevano deciso di costruire un mondo utopistico ambientato in un tempo in cui, come afferma Shyamalan, i sentimenti erano ancora puri e sinceri. In tale dinamica è presente un chiaro parallelismo con la nazione statunitense la quale, in seguito agli attentati dell’11 settembre, credendo di vedere nemici da tutte le parti, ha preferito chiudersi in sé stessa.
Quando Ivy si inoltra nel bosco, la mdp mantiene per la maggior parte del tempo una vicinanza ostruttiva al suo personaggio. La chiusura e la negazione dello spazio sono elementi tipici del cinema Shyamalan. Il regista fa spesso ricorso alla profondità di campo per identificare e delimitare lo spazio vivibile del villaggio. In secondo luogo, predilige l’utilizzo di inquadrature ravvicinate e simmetriche che, nel contesto della narrazione, operano una doppia funzione: da un lato insistono sulla dimensione esasperatamente comunitaria nella quale si muovono i personaggi, dall’altro palesano l’inquietudine e la paura che fungono da collante per la comunità stessa. In ultimo, le scene ambientate all’interno degli edifici si caratterizzano per la presenza costante e visibilmente ravvicinata di mura e soffitti. Questa scelta è perfettamente coerente con il senso di claustrofobia che il cineasta desidera comunicare.
The Village adotta l’allegoria del mito della caverna di Platone per condurre la narrazione verso il disvelamento delle lacune. Ivy incarna il prigioniero della caverna che, toccando con mano gli artigli dei falsi mostri, riesce a scoprire un piccolo frammento di verità. Il villaggio e il bosco rappresentano la parete della caverna nella quale forze più grandi dettano un racconto (il falso mito, la pericolosità delle città, i cari uccisi dalle creature). Ivy, come gli altri villagers, conosce solo la realtà illusoria che le è stata imposta. Alla luce di questa interpretazione filosofica, The Village si qualifica come una critica al mondo statunitense post 11 settembre e, in modo più specifico, al sistema dei media e alla loro manipolabilità.
"The Village"
di Elena Venturiero
«Il XXI secolo è nato senza anestesia. Con una crudezza e una brutalità inimmaginabili per l’Occidente. La realtà si è presentata in diretta e senza preavviso». È così che la giornalista spagnola Ana Pastor definì i sentimenti suscitati dagli attacchi terroristici dell’11 settembre. Non a caso, il sociologo e filosofo Jean Baudrillard afferma che l’attacco alle Twin Towers sia stato in grado di unire due elementi di fascinazione di massa del XX secolo: il cinema e il terrorismo. Ciò che fino ad allora era stato relegato ad un immaginario espresso esclusivamente dal cinema di serie B, si era drammaticamente tramutato in realtà. Il trauma che ne consegue si caratterizza per la sua non-assimilabilità, favorita senza dubbio dalla reiterazione mediatica del tragico evento. Molte persone, in seguito al dramma delle Twin Towers, iniziarono a mettere in discussione il proprio rapporto con la religione e l’americanness e, di conseguenza, il rapporto con la politica nazionale. D’altra parte dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti sono stati pervasi da un’ondata di paura senza precedenti, paragonabile forse, secondo A.J. Navarro, solo alla Second Red Scare, epoca che diede origine a gran parte del cinema fantastico a sfondo politico. Il terrore generato dall’attentato era, per certi versi, sproporzionato rispetto alla minaccia reale. Il sistema mediatico, alimentato incessantemente dalle dichiarazioni perlopiù farneticanti dell’amministrazione Bush, contribuiva difatti ad elevare a potenza la paura dei cittadini, bersaglio continuo di una narrazione distorta e dai toni smodatamente allarmistici. Questo clima di terrore interno si rifletteva esternamente in un atteggiamento visibilmente isolazionista. Uno dei film che meglio illustra il clima politico post 11 settembre è certamente The Village (2004) di M. Night Shyamalan.
Con The Village Shyamalan prosegue il discorso sull’isolazionismo americano post 11 settembre avviato con il precedente Signs (2002). The Village non è un film horror in senso stretto, ma ne adotta sicuramente lo stile e il linguaggio.
La prima sequenza è estremamente significativa poiché mette in luce i pilastri dell’opera: il dolore, il limite, l’isolamento e l’assedio. La narrazione si apre con il funerale del figlio di August Nicholson (Brendan Gleeson). La lapide del bambino colloca la narrazione nel 1897. Shyamalan fa della profondità di campo il suo strumento prediletto. La mdp con un movimento lento si avvicina ad August riverso sul feretro e mostra, dietro di lui, una bandiera gialla che delimita il confine tra la vallata e il bosco. La scena seguente è accompagnata dal discorso di Edward Walker (William Hurt), il quale pone al villaggio una domanda retorica: «Momenti come questi ci portano a riflettere e ad interrogarci. Fu dunque la scelta giusta stabilirsi qui?». Il tono di Edward appare incerto poiché egli stesso è consapevole che il modello utopico sul quale si poggia l’esistenza stessa del villaggio è, in realtà, una distopia. L’incertezza generata dalle parole di Edward viene subito ripristinata da un rumore fuori campo che congela l’intera atmosfera. Il rumore, proveniente dal bosco, è provocato dalle creature innominabili, le quali rappresentano il deterrente per non oltrepassare il confine. Il bosco è il primo limite che ci viene presentato. Quest’ultimo appare sia concreto poiché, come vedremo, non è possibile superare il confine per un patto di non aggressione stretto con le creature, sia astratto, in quanto il bosco rappresenta anche un limite di accessibilità ad un mondo altro e, conseguentemente, una barriera posta alle scelte di ciascun individuo. Le due sequenze successive sono funzionali per dare “forma” al rumore. Difatti la seconda sequenza, priva di dialoghi, sintetizza efficacemente la vita all’interno del villaggio. Se con le prime immagini il regista desidera mostrare la serenità della vita rurale, con le seguenti egli decide di trasmettere la realtà che si cela sotto alla purezza visiva dell’ambientazione. Mentre due donne spazzano sul portico, la loro attenzione viene catturata da un fiore rosso, il quale viene immediatamente strappato e sepolto. Successivamente su uno specchio d’acqua vediamo il riflesso di una sagoma rossa, la quale scompare in pochi istanti. Il colore rosso è sistematicamente evitato all’interno del villaggio, come è possibile evincere durante la scena ambientata alla roccia della quiete. Qui Noah (Adrien Brody) dona ad Ivy (Bryce Dallas Howard), che è cieca, delle bacche rosse. Lucius (Joaquin Phoenix) lo ammonisce poiché il rosso è il colore del male ed eccita le creature. Il rosso all’interno della narrazione si contrappone al colore giallo, il quale viene identificato come strumento di protezione. Nel primo caso sarà necessario interpellare Heidegger, il quale conia il neologismo “Lichtung”, che può essere tradotto come “venire alla luce”. Tale azione presuppone la partenza da un luogo oscuro, ove non è possibile scorgere la verità. Il viandante che, nel suo vagare, viene investito dalla luce può, tuttavia, per un breve istante conoscere la vera forma di ciò che lo circonda: la città, nel contesto della narrazione. Oltretutto i villagers utilizzano il colore giallo, proprio della luce, contro le creature, le quali incarnano una mistificazione della realtà. Nel secondo caso invece è possibile conferire un’interpretazione più “reale”. Il colore rosso sta ad indicare, secondo il National Terrorism Advisory System (NTAS), istituito dopo la tragedia dell’11 settembre, il colore che indica il rischio più elevato di subire un attacco terrorista. Il giallo, al contrario, simboleggia un rischio più moderato. Oltretutto è bene considerare che Shyamalan non mostra mai in maniera chiara le creature ma, al contrario, si serve di arguti escamotage per renderle quanto più possibile sfuggevoli e amorfe. Allo stesso modo, il popolo occidentale non riesce a definire il male, considerando il terrorismo come una minaccia invisibile. Shyamalan mostra apertamente le creature solo nel momento in cui Ivy e lo spettatore sono consapevoli che queste sono frutto di una farsa ben costruita. È necessario sottolineare che Ivy, a causa della sua cecità, può solo sfiorare la verità. Tuttavia, nei film di Shyamalan vedere non significa necessariamente conoscere: ne è un esempio palese Malcolm in The Sixth Sense (1999). Il peso di ciò che sfugge alla vista è avvalorato dal fatto che, per i villagers, che non vedono mai le creature (durante gli attacchi devono nascondersi nei rispettivi seminterrati, esattamente come la famiglia Hess in Signs), l’assedio è reale poiché essi sono dominati da una forza invisibile che ne comporta l’isolamento. Quest’ultimo ed il conseguente immobilismo sono generati dal senso di paura. Esso, secondo lo stesso Edward, può essere sconfitto solo dall’amore. Ed è proprio questo elemento che conduce la narrazione su un altro livello. Noah scopre difatti che Ivy e Lucius desiderano sposarsi. In preda ad un attacco di gelosia egli ferisce gravemente Lucius. Ivy, straziata dal dolore, chiede al padre di potersi recare in città per prendere le medicine necessarie per salvare la vita dell’amato. Siamo di fronte ad un punto di svolta: Edward non può più aderire ai dettami che regolano la vita del villaggio, poiché la sua integrità non gli consente di tollerare l’atto criminale inflitto a Lucius né di attendere che l’uomo muoia inesorabilmente. Inoltre, negare ad Ivy la possibilità di cercare aiuto significherebbe provocare un’infinita sofferenza alla sua stessa figlia, la cui vita era già stata compromessa dalla passata scelta di obbedire ciecamente alle regole della comunità. Solo svelando la verità Edward può restare fedele al proposito alla base della nascita del villaggio. Eludere il dolore mediante l’isolamento era stata solo un’artificiosa illusione. Gli anziani, difatti, in seguito a tragedie patite avevano deciso di costruire un mondo utopistico ambientato in un tempo in cui, come afferma Shyamalan, i sentimenti erano ancora puri e sinceri. In tale dinamica è presente un chiaro parallelismo con la nazione statunitense la quale, in seguito agli attentati dell’11 settembre, credendo di vedere nemici da tutte le parti, ha preferito chiudersi in sé stessa.
Quando Ivy si inoltra nel bosco, la mdp mantiene per la maggior parte del tempo una vicinanza ostruttiva al suo personaggio. La chiusura e la negazione dello spazio sono elementi tipici del cinema Shyamalan. Il regista fa spesso ricorso alla profondità di campo per identificare e delimitare lo spazio vivibile del villaggio. In secondo luogo, predilige l’utilizzo di inquadrature ravvicinate e simmetriche che, nel contesto della narrazione, operano una doppia funzione: da un lato insistono sulla dimensione esasperatamente comunitaria nella quale si muovono i personaggi, dall’altro palesano l’inquietudine e la paura che fungono da collante per la comunità stessa. In ultimo, le scene ambientate all’interno degli edifici si caratterizzano per la presenza costante e visibilmente ravvicinata di mura e soffitti. Questa scelta è perfettamente coerente con il senso di claustrofobia che il cineasta desidera comunicare.
The Village adotta l’allegoria del mito della caverna di Platone per condurre la narrazione verso il disvelamento delle lacune. Ivy incarna il prigioniero della caverna che, toccando con mano gli artigli dei falsi mostri, riesce a scoprire un piccolo frammento di verità. Il villaggio e il bosco rappresentano la parete della caverna nella quale forze più grandi dettano un racconto (il falso mito, la pericolosità delle città, i cari uccisi dalle creature). Ivy, come gli altri villagers, conosce solo la realtà illusoria che le è stata imposta. Alla luce di questa interpretazione filosofica, The Village si qualifica come una critica al mondo statunitense post 11 settembre e, in modo più specifico, al sistema dei media e alla loro manipolabilità.