Milano Film Festival 2016 – L'intervista a Babak Anvari regista del film in concorso "Under the Shadow"
10/09/2016

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Babak Anvari, regista del lungometraggio in concorso al Milano Film Festival 2016 Under the Shadow. Ecco cosa ci ha detto:

Non molto tempo fa qui in Italia al cinema è uscito Taxi Teheran, anch’esso ambientato come Under the Shadow nella capitale del tuo paese d’origine (Iran), che ha riscosso un notevole successo di pubblico e di critica. Secondo te in che momento si trova il cinema del tuo paese?

Sicuramente ci sono molti registi poco conosciuti in Iran, io sono nato e cresciuto lì ma ora vivo in Gran Bretagna, quindi non direi che Under the Shadow sia un film iraniano. È sull’Iran ma è una produzione britannica, non l’abbiamo nemmeno venduto in Iran ma in Giordania . Ci sono però tanti bravissimi registi giovani in Iran che ancora aspettano di essere riconosciuti a livello internazionale. Credo che il mondo debba tenere gli occhi ben aperti, perché l’Iran ha sempre avuto importanti filmmaker.

Hai un rapporto stretto con il cinema iraniano o sei più attratto dalla cinematografia estera?

Io guardo di tutto, provo a guardare tutti i film di paesi e culture differenti, ma rimango un grande fan del cinema iraniano: adoro i film di Asghar Farhadi, per esempio Una separazione, sono tra i miei preferiti. Il cinema iraniano è stato fonte di grande ispirazione per Under the Shadow, perché nonostante sia un film horror, ho voluto unire il tipico elemento del dramma sociale a quello dell’orrore.

Ci sono dei registi che ti hanno segnato in maniera particolare?

Tantissimi registi mi ispirano, ma proprio tanti, se dovessimo parlarne potremmo stare qui seduti per ore. Direi Lynch, Kubrick, Michael Haneke, Guillermo del Toro e, ovviamente, Asghar Farhadi. La primissima persona che, fin da bambino (a circa dieci anni) mi ha fatto amare i film e mi ha fatto pensare alla professione di regista è stato Steven Spielberg con i suoi film anni degli anni ’70 o ‘80, per esempio Et – L’extraterrestre. Amo molto anche David Fincher. Come dicevo guardo di tutto, quindi sì, ho una lista proprio lunga di registi che mi piacciono.

Tornando a Under The Shadow, personalmente trovo che il film abbia una bellissima fotografia. Quanto è importante per te la cura dell’immagine?

La fotografia è fondamentale per me, il cinema è un media visuale, l’immagine e i mezzi che usi raccontano la storia. La produzione e l’organizzazione di tutto ciò che vedi sullo schermo è molto importante, non puoi creare un film senza. Il merito è del mio direttore della fotografia, Fraser, che ha lavorato con molta cura per renderlo così.

Under the Shadow è una pellicola horror che sottintende qualcosa in più di una semplice storia di paura. Personalmente ho letto un forte richiamo a una coscienza collettiva stravolta dal dramma della guerra. C’è una metafora particolare dietro alla presenza degli Djiin?

Dipende molto dalla tua interpretazione. Un regista quando inserisce una metafora non vuole necessariamente spiegarla, si lascia decidere al pubblico cosa significhi. Il film può essere visto anche semplicemente come un horror ma sicuramente quello che mi ha ispirato è come l’isterismo nazionale crei isteria a livello personale. Ognuno poi lo elabora a modo suo, ma questo è il tipo di film che amo, quello in cui, si spera, ci sia dentro abbastanza contenuto da farti riflettere alla fine della visione.

Il film è pura immaginazione o i personaggi e le situazioni ricalcano qualcosa del tuo vissuto?

È un lavoro di immaginazione, la seconda parte degenera completamente ma l’ispirazione viene da elementi reali. Sono nato in Iran e cresciuto in un ambiente di guerra, ho molti ricordi, quando la guerra è finita avevo la stessa età della bambina del film. L’inizio è qualcosa di reale, l’esperienza iraniana post anni ’80, l’Iran dopo la rivoluzione. Ho preso quello, l’ho reso fiction e l’ho drammatizzato.

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