Mulholland Drive: un viaggio oltre l'arcobaleno della psiche umana
03/03/2025
Riceviamo e volentieri condividiamo questo saggio di Veronika Merlin.
In Mulholland Drive (2001), David Lynch affronta temi cari alla sua filmografia, sfidando lo spettatore a interrogarsi sulla natura dell'identità, della memoria e sul rapporto tra realtà e illusione.
Se inizialmente non possiamo che cogliere l’evidente eco di Persona (1966) di Ingmar Bergman, nell'ambiguità delle identità di Diane/Betty e Rita/Camilla e nella progressiva fusione dei loro caratteri, nel corso del film ci rendiamo conto che Lynch frammenta il conflitto interiore della protagonista in un intero cast di personaggi, ognuno con i suoi desideri e paure e tutti in conflitto tra loro. Da questa prospettiva, il film si configura come un viaggio nella mente di Diane, dove lo spettatore è pienamente partecipe del suo dolore e delle sue contraddizioni, senza mai ricevere risposte chiare o definitive.
E se di un viaggio parliamo, ecco che la prima chiave di lettura del film è The Wizard of Oz di Victor Fleming (1939), pellicola che Lynch ha ampiamente omaggiato nella sua carriera con citazioni più o meno esplicite (prima tra tutte le scarpette rosse in Wild at Heart).
Come Dorothy arriva a Oz, anche Diane approda a Los Angeles, una terra promessa carica di illusioni, dove intraprende il suo percorso a bordo di un taxi giallo - come il colore del sentiero di mattoni di Oz. Ma a differenza del viaggio di Dorothy, che si concluderà con un ritorno catartico a casa, Diane è intrappolata in un ciclo autodistruttivo da cui purtroppo non riuscirà a sfuggire. Mulholland Drive, infatti, riprende e sovverte i simboli di Oz: il Cowboy, Mr. Roque e i fratelli Castigliani possono essere letti come versioni oscure dello spaventapasseri, dell'uomo di latta e del leone. Il Cowboy eÌ€ il personaggio più legato alla sfera intellettuale e del linguaggio, ed è proprio dalla sua bocca che otteniamo una delle dichiarazioni più emblematiche del film: "L'atteggiamento di un uomo va di pari passo con quella che saràÌ€ la sua vita" (“a man's attitude goes some ways. The way his life will be”). Mr. Roque - il cui nome eÌ€ simile alla parola "rock" (pietra), ovvero un oggetto senza vita - simboleggia l'immobilità emotiva, una condizione che Diane sperimenta verso la fine del film, vittima di una depressione suicida. Mr. Roque rappresenta infatti la parte di Diane che eÌ€ piùÌ€ minacciosa per seÌ stessa, mentre i fratelli Castigliani, personificazione di un'aggressività repressa e lunatica, sono quella più pericolosa per gli altri.
Nel Mago di Oz, Dorothy potrà tornare a casa solo dopo aver capito che tutto ciò che desiderava (coraggio, amore, saggezza e appartenenza) è sempre stato dentro di lei e che il mago altro non è che un semplice uomo privo di poteri magici. Anche Diane dovrà affrontare una figura simile ad un mago, l’illusionista del Club Silencio, che ripete incessantemente che tutto ciò che accade è una finzione, un messaggio che va oltre la finzione cinematografica per toccare la fragilità dell'identità di Diane. È proprio l'incontro con il "mago" del Club Silencio che la costringerà a riconoscere l'artificialità della sua illusione, portandola a confrontarsi con la disgregazione della sua identità e con l'inesorabile ritorno a una verità insopportabile.
Lynch riesce a rappresentare questo stato attraverso una delle sequenze più enigmatiche e potenti della sua produzione: nel Club Silencio gli oggetti si staccano dai loro referenti e la totalitàÌ€ si decompone. Da un lato, Betty (Diane) sperimenta il disfarsi dell’unitaÌ€ percettiva con i suoni e le voci che si separano dai loro strumenti di emissione. Dall’altra parte, partecipa a un piccolo saggio di teoria del linguaggio, con particolare riferimento all’accoppiamento provvisorio tra significanti e significati. Il presentatore, infatti, pronuncia la stessa frase tre volte "No hay banda", "There is no band", "Il n’y a pas de orchestra": eÌ€ la stessa frase e, al tempo stesso, si tratta di tre proposizioni diverse, possiedono un senso quasi identico ma tre forme di manifestazione distinte. Rappresentano, in miniatura, una dimostrazione di come l’identico sia abitualmente intrecciato al dissimile, e di come l’unitaÌ€ sia un’organizzazione accidentale o una costruzione psicologica, senza nulla di naturale. Anche lo spazio scenico si frammenta attraverso una serie di cornici concentriche: la prima è quella del film stesso, che racchiude l'intera narrazione, segue il sipario del Club Silencio, che introduce il livello dell'illusione esplicita, poi l'auditorium, dove le due protagoniste assistono allo spettacolo, creando un doppio pubblico in cui ci identifichiamo anche noi. Infine, il balcone sopra il palco rappresenta l'ultima cornice, uno spazio liminale che osserva dall'alto, sottolineando la distanza tra apparenza e realtà. In Mulholland Drive tutto è collassato e confuso: suono, immagine e significato si intrecciano in un gioco di illusioni che coinvolge direttamente lo spettatore. Non siamo solo osservatori del film, ma parte di esso. Si potrebbe dire che il Club Silencio imita e contemporaneamente commenta l'esperienza cinematografica, svelando la natura artificiale di ciò che vediamo, proprio come l’intero film gioca con la percezione della realtà.
Intitolando il film Mulholland Drive, Lynch suggerisce che tutto nel film eÌ€ quella strada, è quello spazio sopra Los Angeles che domina dall'alto con uno sguardo sospeso tra fascino e minaccia. Il film, quindi, abita contemporaneamente il suo universo narrativo e una dimensione esterna che lo osserva, esplorando una doppia prospettiva che oscilla tra l’interno della mente e l’esterno del mondo, in un continuo slittamento che decentra lo spettatore, spingendolo in uno spazio ambiguo dove i confini tra realtà e finzione si dissolvono.
Non è un caso che per quasi tutta la sequenza del Club Silencio la macchina da presa non sia perfettamente stabile ma ondeggi, generando un senso di spaesamento e allo stesso tempo di avvicinamento. Tutto appare sorprendentemente reale e autentico, anche se il presentatore ripete con insistenza che "è tutta un’illusione". Ma il vero mago non è lui: il mago è David Lynch. È lui che ha orchestrato l’inganno, che ha creato un mondo che non esiste dove la realtà si piega al potere dell’immaginazione.
Ed è sempre lui a ricordarci che il cinema eÌ€, proprio come Oz, un luogo magico oltre l'arcobaleno.
Veronika Merlin
In Mulholland Drive (2001), David Lynch affronta temi cari alla sua filmografia, sfidando lo spettatore a interrogarsi sulla natura dell'identità, della memoria e sul rapporto tra realtà e illusione.
Se inizialmente non possiamo che cogliere l’evidente eco di Persona (1966) di Ingmar Bergman, nell'ambiguità delle identità di Diane/Betty e Rita/Camilla e nella progressiva fusione dei loro caratteri, nel corso del film ci rendiamo conto che Lynch frammenta il conflitto interiore della protagonista in un intero cast di personaggi, ognuno con i suoi desideri e paure e tutti in conflitto tra loro. Da questa prospettiva, il film si configura come un viaggio nella mente di Diane, dove lo spettatore è pienamente partecipe del suo dolore e delle sue contraddizioni, senza mai ricevere risposte chiare o definitive.
E se di un viaggio parliamo, ecco che la prima chiave di lettura del film è The Wizard of Oz di Victor Fleming (1939), pellicola che Lynch ha ampiamente omaggiato nella sua carriera con citazioni più o meno esplicite (prima tra tutte le scarpette rosse in Wild at Heart).
Come Dorothy arriva a Oz, anche Diane approda a Los Angeles, una terra promessa carica di illusioni, dove intraprende il suo percorso a bordo di un taxi giallo - come il colore del sentiero di mattoni di Oz. Ma a differenza del viaggio di Dorothy, che si concluderà con un ritorno catartico a casa, Diane è intrappolata in un ciclo autodistruttivo da cui purtroppo non riuscirà a sfuggire. Mulholland Drive, infatti, riprende e sovverte i simboli di Oz: il Cowboy, Mr. Roque e i fratelli Castigliani possono essere letti come versioni oscure dello spaventapasseri, dell'uomo di latta e del leone. Il Cowboy eÌ€ il personaggio più legato alla sfera intellettuale e del linguaggio, ed è proprio dalla sua bocca che otteniamo una delle dichiarazioni più emblematiche del film: "L'atteggiamento di un uomo va di pari passo con quella che saràÌ€ la sua vita" (“a man's attitude goes some ways. The way his life will be”). Mr. Roque - il cui nome eÌ€ simile alla parola "rock" (pietra), ovvero un oggetto senza vita - simboleggia l'immobilità emotiva, una condizione che Diane sperimenta verso la fine del film, vittima di una depressione suicida. Mr. Roque rappresenta infatti la parte di Diane che eÌ€ piùÌ€ minacciosa per seÌ stessa, mentre i fratelli Castigliani, personificazione di un'aggressività repressa e lunatica, sono quella più pericolosa per gli altri.
Nel Mago di Oz, Dorothy potrà tornare a casa solo dopo aver capito che tutto ciò che desiderava (coraggio, amore, saggezza e appartenenza) è sempre stato dentro di lei e che il mago altro non è che un semplice uomo privo di poteri magici. Anche Diane dovrà affrontare una figura simile ad un mago, l’illusionista del Club Silencio, che ripete incessantemente che tutto ciò che accade è una finzione, un messaggio che va oltre la finzione cinematografica per toccare la fragilità dell'identità di Diane. È proprio l'incontro con il "mago" del Club Silencio che la costringerà a riconoscere l'artificialità della sua illusione, portandola a confrontarsi con la disgregazione della sua identità e con l'inesorabile ritorno a una verità insopportabile.
Lynch riesce a rappresentare questo stato attraverso una delle sequenze più enigmatiche e potenti della sua produzione: nel Club Silencio gli oggetti si staccano dai loro referenti e la totalitàÌ€ si decompone. Da un lato, Betty (Diane) sperimenta il disfarsi dell’unitaÌ€ percettiva con i suoni e le voci che si separano dai loro strumenti di emissione. Dall’altra parte, partecipa a un piccolo saggio di teoria del linguaggio, con particolare riferimento all’accoppiamento provvisorio tra significanti e significati. Il presentatore, infatti, pronuncia la stessa frase tre volte "No hay banda", "There is no band", "Il n’y a pas de orchestra": eÌ€ la stessa frase e, al tempo stesso, si tratta di tre proposizioni diverse, possiedono un senso quasi identico ma tre forme di manifestazione distinte. Rappresentano, in miniatura, una dimostrazione di come l’identico sia abitualmente intrecciato al dissimile, e di come l’unitaÌ€ sia un’organizzazione accidentale o una costruzione psicologica, senza nulla di naturale. Anche lo spazio scenico si frammenta attraverso una serie di cornici concentriche: la prima è quella del film stesso, che racchiude l'intera narrazione, segue il sipario del Club Silencio, che introduce il livello dell'illusione esplicita, poi l'auditorium, dove le due protagoniste assistono allo spettacolo, creando un doppio pubblico in cui ci identifichiamo anche noi. Infine, il balcone sopra il palco rappresenta l'ultima cornice, uno spazio liminale che osserva dall'alto, sottolineando la distanza tra apparenza e realtà. In Mulholland Drive tutto è collassato e confuso: suono, immagine e significato si intrecciano in un gioco di illusioni che coinvolge direttamente lo spettatore. Non siamo solo osservatori del film, ma parte di esso. Si potrebbe dire che il Club Silencio imita e contemporaneamente commenta l'esperienza cinematografica, svelando la natura artificiale di ciò che vediamo, proprio come l’intero film gioca con la percezione della realtà.
Intitolando il film Mulholland Drive, Lynch suggerisce che tutto nel film eÌ€ quella strada, è quello spazio sopra Los Angeles che domina dall'alto con uno sguardo sospeso tra fascino e minaccia. Il film, quindi, abita contemporaneamente il suo universo narrativo e una dimensione esterna che lo osserva, esplorando una doppia prospettiva che oscilla tra l’interno della mente e l’esterno del mondo, in un continuo slittamento che decentra lo spettatore, spingendolo in uno spazio ambiguo dove i confini tra realtà e finzione si dissolvono.
Non è un caso che per quasi tutta la sequenza del Club Silencio la macchina da presa non sia perfettamente stabile ma ondeggi, generando un senso di spaesamento e allo stesso tempo di avvicinamento. Tutto appare sorprendentemente reale e autentico, anche se il presentatore ripete con insistenza che "è tutta un’illusione". Ma il vero mago non è lui: il mago è David Lynch. È lui che ha orchestrato l’inganno, che ha creato un mondo che non esiste dove la realtà si piega al potere dell’immaginazione.
Ed è sempre lui a ricordarci che il cinema eÌ€, proprio come Oz, un luogo magico oltre l'arcobaleno.
Veronika Merlin