Nel limbo di Inisherin: teatro dell’assurdo e tragedia dell’anima
23/04/2025
Riceviamo e con grande piacere condividiamo questa analisi de Gli spiriti dell'isola, scritta da Giulia Tedeschi, studentessa del Master MICA.


Cosa resta all’uomo, per sentirsi uomo, quando il velo delle sue illusioni viene squarciato e si confronta con l’amara realtà della sua profonda solitudine? Questo è uno degli interrogativi che si impongono alla coscienza dello spettatore dopo la visione del film The Banshees of Inisherin, quarto lungometraggio di Martin McDonagh, vincitore della Coppa Volpi per il miglior attore a Colin Farrell e dell’Osella d’Oro per la sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia 2022. A cinque anni dal successo di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, che catturò l’attenzione di pubblico e critica per la sua potente carica di denuncia morale e sociale, troviamo qui il regista e sceneggiatore britannico (ma figlio di genitori irlandesi) intento a esplorare il potenziale narrativo di un’opera dal carattere intimo, radicata nel tessuto culturale e sociale dell’Irlanda insulare del primo Novecento. Il regista si confronta con tematiche universali pressanti e attuali: la solitudine come condizione esistenziale, l’impossibilità ontologica della comunicazione con l’altro, la fragilità dei rapporti umani, lo smarrimento di fronte alla perdita di valori e certezze. L’Irlanda, soggetto caro a McDonagh sin dai suoi primi lavori come drammaturgo, offre un terreno familiare per tessere un dramma a tratti tragico quanto una tragedia greca, a tratti comico-caricaturale, sottilmente grottesco, come un’opera di Samuel Beckett. Sullo sfondo della narrazione c’è la guerra civile irlandese, una pagina oscura della storia d’Irlanda che qui fa da specchio alle tensioni emotive sotterranee dei protagonisti. Al centro della narrazione c’è l’isola immaginaria di Inisherin: ispirata alle Aran Islands, è un microcosmo remoto, un non-luogo sospeso tra realtà e mito, e l’allegoria di un limbo esistenziale in cui i personaggi sono condannati a vagare, senza speranza, in un ciclo ripetitivo di meschinità e disperazione. L’isolamento geografico di questo luogo coincide con una chiusura della psiche collettiva dei suoi abitanti, incapaci di evolvere, ma condannati a reiterare i propri vizi. Inisherin, luogo apparentemente ameno, valorizzato dalla fotografia mediante ampie inquadrature di paesaggi incontaminati, cieli tersi e scogliere maestose, cela in realtà un cuore putrescente, un decadimento etico e affettivo insanabile. La scelta di McDonagh di servirsi di una storia apparentemente del passato per esplorare l’oscura condizione morale del presente (segnato da una marcata incapacità di relazione empatica, profonda solitudine, culto dell’individualismo) da vita ad una lente attraverso cui lo spettatore è guidato a riflettere autonomamente sulle problematiche contemporanee, tracciando le fila tra passato e presente senza forzature. La narrazione mescola diversi registri narrativi, commedia nera, tragedia, dramma psicologico, e attinge in modo sottile ma ricco al genere western. Il nucleo narrativo fondamentale, la frantumazione violenta dell’amicizia tra Pádraic e Colm, due uomini profondamente diversi per indole e valori, mette in moto la disgregazione dei fragili equilibri relazionali nell’isola: molte delle inquadrature che li vedono a confronto richiamano le dinamiche dei duelli tipici del western, l’uno schierato di fronte all’altro, a distanza (che è soprattutto emotiva), sullo sfondo di ampie fotografie panoramiche del paesaggio. Ciò che tuttavia emerge con particolare pregnanza è il taglio teatrale che McDonagh impone alla narrazione. Il film presenta tratti tipici della drammaturgia teatrale, primo fra tutti il rispetto dell’unità aristotelica di luogo e tempo che, concentrando tutta l’azione nell’isola e in un arco temporale di pochi giorni, conferisce alla messa in scena un distinto senso di claustrofobia. La recitazione, poi, privilegia l’espressività e la gestualità esasperata, mostrando l’influenza del teatro dell’assurdo di Beckett. Farrell, in particolare, usa il volto come una maschera teatrale: all’inizio del film gli occhi sono spalancati, grandi, ingenui, simili a quelli della sua asinella Jenny; nella seconda metà, lo sguardo è vitreo, gli occhi sempre più due fessure prive di luce. Quando, in una delle prime scene più significative, Pádraic entra nella casa di Colm, afferra una maschera, la poggia sul viso e per un breve secondo guarda in camera (momento unico in tutto il film), svela allo spettatore il cuore di tutto il conflitto, e il nodo principale della storia: la maschera è il simbolo della finzione che permea le loro vite e relazioni interpersonali. La teatralità continua ancora, nei dialoghi che presentano una musicalità quasi declamatoria, con pause drammatiche e un flusso spezzato, in cui il non detto acquista potenza come nel teatro di Beckett o Čechov. La scenografia, infine, riflette anch’essa questa impronta teatrale: gli spazi interni, la casa di Pádraic, quella di Colm, il pub, sono essenziali, claustrofobici. Il pub diventa un palcoscenico rituale, luogo privilegiato per le scene madri, dove i personaggi si sfidano, si feriscono, si scontrano verbalmente tirando fuori nuclei tematici vitali della narrazione. La casa di Colm, con le sue maschere e marionette, si trasforma in un luogo simbolico, una metafora visiva delle relazioni sociali sull’isola, che si fingono autentiche, ma sono fondate su ruoli, convenzioni e vacuità. McDonagh rifiuta la struttura narrativa classica: non c’è un percorso di crescita, una redenzione finale per la maggior parte dell’umanità di quell’isola. I personaggi si incancreniscono nelle loro posizioni, si trasformano in versioni più oscure di sé, restando vittime di un ciclo emotivo distruttivo che si autoalimenta fino a non lasciare altro che ceneri.

 

E chi sono le banshees, che danno il titolo al film? Nel folklore irlandese, la banshee è una creatura mortifera, un presagio che manifesta il compiersi del destino di morte con uno straziante lamento. McDonagh riscrive questa figura: la vecchia Mrs. McCormick, la sua incarnazione più evidente, vestita di nero e sfumature di rosso, non grida né piange, ma ride, con una malizia quieta di chi sa come ogni cosa andrà a finire, e si staglia come un’ombra silenziosa sullo sfondo delle vite umane che osserva, una spettatrice a tratti compiaciuta, a tratti meditabonda, che guarda senza intervenire. La sua banshee non ha bisogno di urlare il suo avvertimento, perché il dolore e la tragedia di Inisherin sono già in atto. Anche il violino di Colm è un’incarnazione allegorica di una banshee: la sua musica, un lamento dolce e melodioso, non è un presagio, ma è un eco del vissuto di perdita di Colm, (perdita di parti di sé, della sua relazione con Pádraic, di una fase della sua vita). Ma il plurale del titolo originale, The Banshees of Inisherin, e il titolo italiano, Gli spiriti dell’isola, suggeriscono anche che le banshees sono tutti loro. Pádraic, che da innocente incosciente diventa una consapevole ombra di se stesso, e fissa la rovina con occhi spenti. Colm, Dominic, l’asinella Jenny e gli altri animali che popolano il mondo dei protagonisti, con i loro occhi grandi e puri: tutti loro sono spiriti silenti, spettatori disarmati della perdita di ogni valore e certezza. Così, The Banshees of Inisherin, col suo alone arcano di una terra remota e fantastica, sussurra il suo chiaro messaggio al presente, e gli si offre come inquietante specchio.

 

Solitudine, vuoto morale, purezza e morte dell’innocenza

In The Banshees of Inisherin, la solitudine non è solo una condizione emotiva: è una struttura, un paesaggio dell’anima che si riflette negli oggetti, negli sguardi, nelle finestre che diventano barriere. Pádraic, ingenuo e gentile all’inizio, guarda spesso il mondo da dietro un vetro, prima con fiducia, poi con occhi persi. Dopo la morte dell’asinella Jenny, sono persino gli animali – cavalli, mucche – a scrutare dentro casa, in un gesto di veglia verso un uomo che si chiude all’esterno, abbracciando l’oscurità crescente che gli corre incontro. L’isola si trasforma con l’escalation del conflitto tra i due uomini: compaiono muretti in pietra, curve strette che sostituiscono la libertà iniziale dei sentimenti di Padraic, il senso di fiducia verso il prossimo e verso la vita. Inisherin diventa una prigione mentale e fisica, specchio della solitudine e dell’incomunicabilità profonda tra i personaggi. Pádraic credeva in un’armonia fittizia, incarnata nell’amicizia con Colm, ma quando questa crolla, resta solo il vuoto. La sua gentilezza, gridata con orgoglio in una delle scene più significative del film, al pub, è il suo filtro sul mondo, ma non una verità universale di interpretazione di esso. Colm, chiuso nel proprio ego e nell’ideale narcisista di una sua superiorità intellettuale, taglia i legami in nome di un’ossessione, che giunge alle derive della mutilazione della carne. Le sue dita lanciate contro la porta di Pádraic sono un’accusa, ma anche una resa (forse, alla consapevolezza che la solitudine e l’oscurità che cerca di fuggire lo abitano già, rendendo vano ogni tentativo di rinascita artistica, o personale). Il vuoto morale non riguarda solo loro. Il poliziotto, padre di Dominic, incarna la brutalità cieca di chi si crede giusto e retto. La negoziante, assorbita dai pettegolezzi, si rifiuta di guardare in profondità nella realtà delle storie che sente. In questo paesaggio emotivo in rovina, solo Siobhan, la lucida sorella di Padraic, appare libera e vitale. I suoi vestiti colorati sono l’unico contrasto visivo alla desolazione grigia dell’isola. Vede oltre le maschere, comprende e sceglie di salvarsi, andando via e costruendosi una nuova realtà altrove. Dominic, invece, è un puro indifeso. Il suo sguardo limpido, il linguaggio candido, ma soprattutto la sua straordinaria capacità di leggere le persone lo rendono simile a un “idiota” dostoevskijano, che vede tutto in profondità, ma non sa proteggersi. È l’unico a cogliere il cambiamento oscuro in Pádraic durante le fasi del conflitto con Colm, ma la sua voce viene schiacciata e annullata dal rifiuto, dalla violenza paterna, dall’indifferenza collettiva dell’isola verso di lui. Per lui, l’unica liberazione dall’inferno di Inisherin è la morte. La purezza, allora, incarnata da animali e poche anime umane, pare soccombere. Le croci, le madonne, le statue disseminate sull’isola diventano simboli vuoti, testimoni silenziosi di un mondo senza redenzione.

 

Epilogo.

Cosa resta all’uomo quando scopre di essere veramente solo al mondo? L’epilogo del film non fornisce una risposta certa. Nella scena finale, la vecchia banshee (Mrs. McCormick) osserva da lontano Colm e Padraic sulla spiaggia. Solleva una sedia rovesciata a terra, il movimento lento, didascalico, quasi ad annunciare che un ordine è stato ristabilito. È possibile una redenzione, dopo tanta oscurità? Dopo tanta distruzione, dopo tanta perdita (di persone, di certezze, di frammenti di sè?) Quale equilibrio può mai rinascere dalle ceneri di un mondo così privo di valori? Non sembrerebbe esserci una risoluzione positiva. Eppure, forse, qualcosa resiste. Un dettaglio minimo, quasi impercettibile: il sorriso che Padraic accenna al cane Sammy. L’eco di una tenerezza che persiste, nonostante tutto. Forse, allora, resta la speranza che almeno in sé stessi, qualcosa possa ancora essere salvato. Che nel buio delle relazioni infrante e delle meschinità rivelate, sopravviva, dentro il sé, una scintilla di bene. Silenziosa, fragile, e reale.


Giulia Tedeschi

 

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