Non è un paese per vecchi: un'analisi
18/04/2025
Riceviamo e volentieri pubblichiamo l'analisi di Non è un paese per vecchi di Paolo De Sanctis, studente del Master Mica.

 

"Un paese per nessuno"

Non è un paese per vecchi (2007), diretto da Joel ed Ethan Coen e tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy, è un’opera che sfida le convenzioni del thriller e del western per proporre una riflessione cruda sulla violenza, sul caso e sull’impotenza della giustizia. Attraverso una narrazione scarna, priva di colonna sonora e sorretta da una messa in scena essenziale, il film costruisce un universo morale svuotato di significato, dominato da forze incontrollabili. 


Anton Chigurh: Il simbolo della violenza contemporanea

Anton Chigurh è senza dubbio la figura più disturbante e simbolica del film. È un personaggio che sfugge a ogni categorizzazione classica: non è mosso da sete di potere o da vendetta personale, non è carismatico né vendicativo in senso tradizionale.
Una delle scene più emblematiche in tal senso è quella nella stazione di servizio. Qui Chigurh, apparentemente senza motivo, coinvolge un ignaro gestore in una conversazione angosciante sul lancio di una moneta. 
La tensione cresce in modo insostenibile, anche se apparentemente non sta succedendo nulla. Il punto non è la posta in gioco (la vita dell’uomo), ma l’arbitrarietà assoluta della decisione. Chigurh delega la responsabilità alla moneta, come se volesse sottrarsi a qualsiasi logica morale o personale. Ma è chiaro che il rituale ha senso solo per lui.
La scena mostra l’insensatezza della violenza moderna, in cui il destino dell’individuo è affidato non al merito, alla colpa o alla legge, ma al caso, impersonale, cieco, eppure assolutamente determinante. Chigurh non agisce per rabbia o per vendetta, ma per un codice interiore che sfugge alla comprensione, che ha più a che fare con l’ossessione che con l’emotività.
Altro elemento fondamentale è l’arma che Chigurh utilizza: un fucile ad aria compressa, solitamente usato per abbattere bestiame, che uccide senza sparare proiettili. È un’arma “fredda”, “tecnica”, che non appartiene al mondo del western classico né al noir, ma a qualcosa di nuovo, di disumanizzato.
È come se Chigurh uccidesse senza neppure partecipare emotivamente all’atto, come fosse un’esecuzione burocratica. 
Chigurh non è più un "criminale" nel senso classico, ma una presenza astratta, una funzione del caos. Nel finale del film, Chigurh viene coinvolto in un incidente d’auto improvviso. Sanguinante e claudicante, riesce comunque a fuggire, confondendosi tra le case della periferia texana. Nessuno lo ferma. Nessuno lo punisce.
Questo è un finale potente: il male non viene sconfitto, non viene fermato. Al contrario: sopravvive, si adatta, prosegue per la sua strada. 
La violenza oggi non ha fine, non ha spettacolarità. È silenziosa e persistente.
Chigurh non è un cattivo da western, né un assassino da thriller: è un simbolo della nuova disumanizzazione del mondo contemporaneo. 

 

Llewelyn Moss: L’uomo comune di fronte al caos

Llewelyn Moss è il personaggio che più incarna la transizione fra il mito dell’eroe americano e la sua disgregazione contemporanea. A prima vista sembra il protagonista di un classico western moderno: è un veterano del Vietnam, un uomo pratico, dotato di ingegno e di una certa morale personale. Tuttavia, nel mondo narrativo costruito dai Coen, questo tipo di protagonista non ha più spazio, o meglio, non ha più possibilità di vincere.
Nel corso del film, Moss rappresenta l’illusione dell’eroismo, una figura che agisce secondo logiche razionali e di sopravvivenza, ma che si scontra con una realtà in cui quelle logiche non bastano più. La sua storia non è una parabola ascendente di conquista o redenzione, ma un declino inesorabile verso la morte, privo di gloria o senso.
Moss sembra avere una coscienza, ma il film ci mostra come nessun gesto di umanità possa salvarlo dal caos che ha scatenato.
Uno degli elementi più controversi del film è la sua morte. Avviene fuori campo, senza che lo spettatore possa vederla. Lo scopriamo insieme a Ed Tom Bell, che entra in un motel e vede solo la scena del crimine già compiuto.
Questa scelta rompe completamente la logica del cinema classico: il protagonista muore senza gloria, senza finale, senza epica. Non ha nemmeno la possibilità di affrontare direttamente Chigurh. E questo è il punto: il film nega l’eroismo, e con esso nega la possibilità stessa di narrazione.
Llewelyn Moss non ha ideologia, non ha missione, non ha risposte. È intelligente, ma non abbastanza; è coraggioso, ma non invincibile. La sua figura rappresenta la crisi dell’uomo occidentale contemporaneo, che si illude di poter navigare un mondo governato dal caso e dalla brutalità con strumenti razionali e morali ormai superati.
Moss diventa l’immagine più amara della nostra epoca: quella di un’umanità che corre, fugge, lotta… ma senza un luogo dove arrivare e senza sapere davvero da cosa sta scappando.


Ed Tom Bell: La coscienza disillusa

Ed Tom Bell è l’ultimo rappresentante di un ordine morale in disfacimento. Sceriffo texano prossimo alla pensione, osserva la scia di violenza che si abbatte sulla sua contea senza riuscire a fermarla, né a comprenderla. A differenza di Moss, che cerca di reagire, e di Chigurh, che agisce secondo una logica inumana, Bell è paralizzato dalla consapevolezza della propria impotenza.
La sua presenza nel film è costante ma defilata: non partecipa mai direttamente all’azione, arriva sempre dopo, a cose fatte, come nella scena in cui scopre la morte di Moss nel motel. I suoi dialoghi, pochi ma densi, sono per lo più riflessioni sul passato, sulla giustizia e sul male. Nell’ultima scena, racconta due sogni fatti sul padre. L’ultimo sogno lo vede cavalcare nel buio, con il padre che lo precede portando una fiaccola.
È una chiusa dolente, che non risolve nulla, ma suggerisce tutto: la fiaccola è forse la speranza, forse il senso, ma è lontana, nel buio. Bell è un uomo lasciato indietro, non solo dal tempo, ma da un sistema di valori che non funziona più.
La sua grandezza tragica non sta nel fallire come sceriffo, ma nel rendersi conto che non c’è più nulla da proteggere. 

 
Il silenzio come linguaggio

Una delle scelte stilistiche più radicali e significative del film è l’assenza di colonna sonora. A differenza di gran parte del cinema contemporaneo, in cui la musica guida lo spettatore nell’interpretazione emotiva delle scene, i fratelli Coen scelgono di togliere ogni accompagnamento musicale, affidandosi esclusivamente ai suoni del mondo esterno: il vento, i passi, gli spari, il fruscio degli alberi, i motori.
Il silenzio diventa un linguaggio, una forma espressiva che comunica più della musica stessa. Esso contribuisce a creare un’atmosfera di tensione costante, ma senza esplosioni emotive o crescendi: un senso di minaccia imminente che non trova mai sfogo.
L’assenza di musica suggerisce un mondo spoglio, inospitale, indifferente. La natura del Texas, con i suoi deserti e paesaggi sterminati, viene mostrata come vuota non solo di persone, ma anche di morale, di significato, di “colore emotivo”. In un certo senso, il silenzio diventa l’equivalente acustico del vuoto esistenziale che attraversa tutta la narrazione.
Nelle scene di maggiore tensione non ci sono violini che annunciano la paura, né percussioni che guidano il ritmo: la paura arriva per accumulazione, per sospensione, per assenza.
La scelta di non inserire musica consente allo spettatore di abitare lo stesso silenzio dei personaggi, senza filtri. È un silenzio che non consola: costringe a guardare la violenza senza distrazioni, ad ascoltare ogni rumore come se fosse l’unico, a restare nudi dentro il mondo che il film rappresenta.
L’assenza di musica rende più chiara la verità che il film vuole comunicare: che non esistono più punti di riferimento, né morali, né narrativi, né emotivi. Il suono stesso, nel suo minimo, dice tutto. È il suono di un mondo dove non ci sono più eroi, né giustizia, né redenzione, solo il rumore secco della pistola ad aria compressa e i passi di un assassino che scompare nell’ombra.


La contemporaneità di un western svuotato


Sebbene Non è un paese per vecchi sia ambientato nel 1980, è evidente che la sua ragione d’essere appartenga pienamente al presente. I fratelli Coen scelgono consapevolmente una storia che non è né lontana né attuale, ma un momento di passaggio, di fine e inizio insieme, per trasferire le ansie della contemporaneità in una cornice apparentemente "storica". 
Nel 2007, Gli Stati Uniti (e il mondo intero) sono immersi in un clima di disorientamento culturale e insicurezza esistenziale. Il post-11 settembre ha alterato la percezione collettiva della violenza, rendendola imprevedibile, diffusa, non riconducibile a un volto o a una nazione. Si vive in una condizione di minaccia costante, di ansia diffusa, in cui anche la logica del "nemico" viene messa in crisi. Girare questo film in quel periodo significa proprio questo: mettere in scena l’impotenza dell’individuo di fronte a forze che non riesce a nominare, definire, combattere.  
Nel western classico, l’eroe si confronta con il male, lo sconfigge, e ristabilisce un ordine. In questa pellicola, al contrario: 

-        Il male (Chigurh) non ha motivazioni comprensibili, non è un fuorilegge ma una forza astratta, quasi metafisica;

-        L’eroe (Moss) muore fuori campo, senza gloria, senza nemmeno la possibilità di confrontarsi con il suo persecutore; 

-        Il rappresentante dell’ordine (Bell) rinuncia, si ritira, dichiarando esplicitamente di non essere più in grado di comprendere il mondo.

 
È la consapevolezza che la narrazione classica della giustizia, del progresso e della vittoria del bene è ormai insostenibile. 
Nel film, il male è ovunque, e soprattutto non ha una logica umana. Non ha un volto preciso, non si può prevedere, non si può arginare. 
l film diventa un modo per interrogare il nostro tempo:

-        Che tipo di società siamo diventati?

-        Che spazio ha oggi la giustizia?

-        Abbiamo ancora strumenti per reagire al caos, o ci limitiamo a osservarlo, disillusi e in silenzio, come lo sceriffo Bell?


Paolo De Sanctis

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