Oscar 2020: vince 1917, perde il grande cinema
09/02/2020
Era uno dei titoli più attesi della nuova stagione cinematografica. Sembrava dovesse segnare nuovi standard di qualità all'interno del cinema contemporaneo. E invece ha deluso. Accolto in maniera trionfale da un coro unanime – almeno all'inizio – di critiche positive negli Stati Uniti, 1917 è stato il protagonista di spicco della 92ª edizione degli Academy Awards. Non importa che tutte e 10 le nomination non si siano concretizzate poi in una statuetta, e nemmeno che altri competitor abbiamo portato a casa più premi in totale. L'Oscar al miglior film è suo, tutto il resto (quasi) non conta. Impossibile ora non porsi una domanda: siamo sicuri che se lo meritasse?
A conti fatti, quando ripenseremo all'edizione 2020 degli Oscar, la nostra mente non potrà che condurci al war-movie di Sam Mendes. Un pensiero forse pruriginoso, certamente mai molesto, che non ci farà gridare allo scandalo, poiché sarebbe abbastanza patetico e intellettualmente poco stimolante condurre una battaglia fine a se stessa nel tentativo di delegittimare il successo di un'opera esplicitamente costruita per trionfare al Dolby Theatre di Los Angeles, nella notte più glamour dello star system hollywoodiano.
Per quanto sia un riconoscimento per certi versi effimero, dettato da molteplici variabili che spesso esulano dagli effettivi meriti artistici dell'opera premiata, l'Oscar al miglior film segna, in ogni caso, una precisa tendenza all'interno dell'industria cinematografica mainstream. La scelta del titolo vincitore permette, a posteriori, di fare il bilancio di una intera stagione, valutando la ricezione che il film vincitore ha ottenuto in relazione al periodo storico in cui è stato girato, al contesto socio culturale di cui si è nutrito e alla mission seguita dalle major, nel momento della sua realizzazione, in termini di impegno produttivo.
Cosa ci impedisce di esultare per il trionfo di 1917?
Forse il fatto che non sia un blockbuster a tutti gli effetti. Quanto ci sarebbe piaciuto che Sam Mendes si abbandonasse a un progetto che non avesse il timore di osare, di aggredire il genere, di farlo proprio per dare vita a qualcosa di realmente contemporaneo. Ricorre all'effetto in CGI ma lo nega agli occhi dello spettatore, per rincorrere una idea di cinema artigianale di cui invece smarrisce subito le tracce. Impossibie non fare un confronto con lo straordinario modello proposto da Christopher Nolan con Dunkirk (2017), autentico riferimento all'interno del cinema bellico del nuovo millennio, tra l'altro realizzato con lo stesso budget a disposizione (100mln di dollari).
Forse il fatto che non sia un film d'autore. Nel tentativo di creare una esperienza di visione il più immersiva possibile, Mendes accompagna lo spettatore nell'orrore della Prima guerra mondiale senza mai riuscire a fare del proprio sguardo un valore aggiunto per il film. Tutto scorre in superficie, il continuum spazio-temporale di immagini non si imprime nell'occhio e non si sedimenta nel cuore. László Nemes, con Il figlio di Saul (2015), suo esordio nel lungometraggio, premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, l'Oscar e il Golden Globe al miglior film straniero, ha raggiunto ben altro livello.
Forse il fatto che non sia fedele al proprio assunto teorico. Giunti nel momento in cui anche il futuro è diventato passato, con buona pace di Ridley Scott e del suo capolavoro Blade Runner, ogni scelta stilistica all'interno di un film, perlomeno nel caso si parli di cinema narrativo e non sperimentale, deve essere frutto di una precisa esigenza di contenuto. Al giorno d'oggi, la mera esibizione di una forma presumibilmente complessa senza nessuna finalità concettuale, all'interno di un prodotto commerciale come questo, equivale all'azzeramento dell'operazione stessa. "Il vero nemico è il tempo", recita la tag-line sulla locandina: perché allora spezzare il film a metà, sfasando la sovrapposizione tra tempo della storia e tempo della narrazione e vanificando la continuità perseguita per tutto il film?
Forse il fatto che, in realtà, non sia una sfida tecnica. Grazie alle potenzialità del digitale, che ha permesso di raccordare i pochi stacchi di montaggio in maniera (quasi) invisibile, il film sembra essere girato interamente in piano-sequenza, seppure in realtà non si tratti di un'unica ripresa. Una soluzione già vista in Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, notevolissimo esempio di anti cinecomic che, anche sulla base della tecnica con cui è girato, ragiona sul genere e sull'utilizzo degli effetti speciali. Il fatto che l'operazione non sia nulla di sconvolgente dal punto di vista tecnico, con i mezzi attualmente a disposizione, ce lo conferma molto candidamente lo stesso Mendes, il quale, nelle note di regia al film, sottolinea come per lui sia stato molto più complesso girare Skyfall (2012), un action da 200mln di dollari con location in mezzo mondo e più di venti punti macchina da gestire in molte sequenze. Senza contare che, dopo l'inarrivabile capolavoro Arca russa (2002) del maestro Aleskandr Sokurov, abbiamo avuto altri due esempi di film interamenti girati in un'unica ripresa (e non in un finto piano-sequenza), Victoria (2015) di Sebastian Schipper e U – July 22 (2018) di Erik Poppe.
Forse il fatto che non diventi una esperienza cinematografica totalizzante. La totale assenza di trasporto emotivo è forse il limite più evidente di una operazione che, all'atto pratico, sembra il making of di una grande pellicola che non vedremo mai. Un film sul tempo, che poi diventa un film sullo spazio, la cui epicità è sempre imbrigliata in sequenze meccaniche caricate di un'enfasi troppo spesso fuori fuoco. E, soprattutto, manca un autentico senso dello spettacolo che ci lasci a bocca aperta.
Forse il fatto che non abbia una propria identità. Sua maestà Roger Deakins, uno dei più grandi direttori della fotografia viventi, a cui n questa edizione degli Academy Awards è stato assegnato il suo secondo premio Oscar (su quindici nomination), ha contribuito in maniera determinante a far sì che il progetto prendesse forma, attraverso un meticoloso lavoro che ha trovato pieno compimento dopo ben sei mesi di prove sul set. Ma il risultato finale è in linea con questo sforzo produttivo? La risposta è “nì”: nel film, passato e presente convivono in maniera dissonante e la volontà di calarsi in una sorta di classicità contemporanea, in cui il cinema “vecchio stile” conviva con la freddezza delle immagini ripulite, appare come un'arma a doppio taglio. Tutto sembra subordinato alla ricerca di un continuo “effetto domino” per alimentare una tensione narrativa in realtà latitante. Come tanti singoli episodi che, purtroppo, non danno vita a un grande affresco complessivo.
Ma, in fin dei conti, che abbia trionfato 1917 non è certo motivo di indignazione. È innegabile che, nella storia dell'Academy, in più di una occasione a portarsi a casa l'Oscar al miglior film siano state pellicole non certo indimenticabili. Ma allora perché questa vittoria ci lascia così tanto l'amaro in bocca? Perché, in una rosa di nominati di alto livello, a farne le spese sono stati, in particolare, cinque straordinari film che abbiamo amato alla follia.
Le nostre motivazioni in pillole:
The Irishman: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è il gangster movie definitivo di Martin Scorsese, il quale tira le fila della sua straordinaria carriera artistica, al fianco dei suoi storici amici di sempre, con un monumentale canto funebre nei confronti di un genere e di un mondo che non esistono più. «It is what it is». Emozione allo stato puro, per un capolavoro che è già un classico contemporaneo.
Parasite: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è un mirabile esempio di cinema moderno che attaversa generi e tendenze grazie a una scrittura che è uno straordinario congegno a orologeria. Politico, metaforico, grottesco, satirico, cattivissimo, spericolato, ironico, agghiacciante: la perfezione, esiste. E, a fronte del trionfo nella categoria Miglior film straniero, ci saremmo trovati di fronte a un evento unico, una “doppietta” storica mai vista prima all'Academy.
C'era una volta a... Hollywood: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è il sognante viaggio nel tempo di un Quentin Tarantino al top della forma che, attraverso un poema intimo e nostalgico, immerge il suo cinema in una dimensione onirica e sospesa, giocando con i generi, le convenzioni e... la Storia. Il film più cool dell'anno, con una galleria di personaggi assolutamente indimenticabile. Il 1969, filtrato dall'immaginario di Tarantino, non è mai stato così entusiasmante.
Joker: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché segna un punto di non ritorno nella storia del cinecomic, ridefinendo le caratteristiche di un genere solitamente identificato come puro e semplice intrattenimento. Cinema d'autore dal ghigno beffardo, parabola esistenziale negli abissi della psiche umana, lucida analisi della follia insita nella società contemporanea. Una discesa agli inferi resa indimenticabile da una performance attoriale che è già storia.
Storia di un matrimonio: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è una delle migliori radiografie sul rapporto di coppia mai viste sul grande schermo. Il modello “bergmaniano” diventa il tessuto connettivo di un racconto che guarda con coraggio alla contemporaneità, senza cedere mai a nessun tipo di forzatura drammaturgica. Una esperienza cinematografica immersiva e profondamente articolata, un tuffo al cuore tra East Coast e West Coast, sorretto da due interpretazioni a dir poco eccezionali.
A conti fatti, quando ripenseremo all'edizione 2020 degli Oscar, la nostra mente non potrà che condurci al war-movie di Sam Mendes. Un pensiero forse pruriginoso, certamente mai molesto, che non ci farà gridare allo scandalo, poiché sarebbe abbastanza patetico e intellettualmente poco stimolante condurre una battaglia fine a se stessa nel tentativo di delegittimare il successo di un'opera esplicitamente costruita per trionfare al Dolby Theatre di Los Angeles, nella notte più glamour dello star system hollywoodiano.
Per quanto sia un riconoscimento per certi versi effimero, dettato da molteplici variabili che spesso esulano dagli effettivi meriti artistici dell'opera premiata, l'Oscar al miglior film segna, in ogni caso, una precisa tendenza all'interno dell'industria cinematografica mainstream. La scelta del titolo vincitore permette, a posteriori, di fare il bilancio di una intera stagione, valutando la ricezione che il film vincitore ha ottenuto in relazione al periodo storico in cui è stato girato, al contesto socio culturale di cui si è nutrito e alla mission seguita dalle major, nel momento della sua realizzazione, in termini di impegno produttivo.
Cosa ci impedisce di esultare per il trionfo di 1917?
Forse il fatto che non sia un blockbuster a tutti gli effetti. Quanto ci sarebbe piaciuto che Sam Mendes si abbandonasse a un progetto che non avesse il timore di osare, di aggredire il genere, di farlo proprio per dare vita a qualcosa di realmente contemporaneo. Ricorre all'effetto in CGI ma lo nega agli occhi dello spettatore, per rincorrere una idea di cinema artigianale di cui invece smarrisce subito le tracce. Impossibie non fare un confronto con lo straordinario modello proposto da Christopher Nolan con Dunkirk (2017), autentico riferimento all'interno del cinema bellico del nuovo millennio, tra l'altro realizzato con lo stesso budget a disposizione (100mln di dollari).
Forse il fatto che non sia un film d'autore. Nel tentativo di creare una esperienza di visione il più immersiva possibile, Mendes accompagna lo spettatore nell'orrore della Prima guerra mondiale senza mai riuscire a fare del proprio sguardo un valore aggiunto per il film. Tutto scorre in superficie, il continuum spazio-temporale di immagini non si imprime nell'occhio e non si sedimenta nel cuore. László Nemes, con Il figlio di Saul (2015), suo esordio nel lungometraggio, premiato con il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, l'Oscar e il Golden Globe al miglior film straniero, ha raggiunto ben altro livello.
Forse il fatto che non sia fedele al proprio assunto teorico. Giunti nel momento in cui anche il futuro è diventato passato, con buona pace di Ridley Scott e del suo capolavoro Blade Runner, ogni scelta stilistica all'interno di un film, perlomeno nel caso si parli di cinema narrativo e non sperimentale, deve essere frutto di una precisa esigenza di contenuto. Al giorno d'oggi, la mera esibizione di una forma presumibilmente complessa senza nessuna finalità concettuale, all'interno di un prodotto commerciale come questo, equivale all'azzeramento dell'operazione stessa. "Il vero nemico è il tempo", recita la tag-line sulla locandina: perché allora spezzare il film a metà, sfasando la sovrapposizione tra tempo della storia e tempo della narrazione e vanificando la continuità perseguita per tutto il film?
Forse il fatto che, in realtà, non sia una sfida tecnica. Grazie alle potenzialità del digitale, che ha permesso di raccordare i pochi stacchi di montaggio in maniera (quasi) invisibile, il film sembra essere girato interamente in piano-sequenza, seppure in realtà non si tratti di un'unica ripresa. Una soluzione già vista in Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, notevolissimo esempio di anti cinecomic che, anche sulla base della tecnica con cui è girato, ragiona sul genere e sull'utilizzo degli effetti speciali. Il fatto che l'operazione non sia nulla di sconvolgente dal punto di vista tecnico, con i mezzi attualmente a disposizione, ce lo conferma molto candidamente lo stesso Mendes, il quale, nelle note di regia al film, sottolinea come per lui sia stato molto più complesso girare Skyfall (2012), un action da 200mln di dollari con location in mezzo mondo e più di venti punti macchina da gestire in molte sequenze. Senza contare che, dopo l'inarrivabile capolavoro Arca russa (2002) del maestro Aleskandr Sokurov, abbiamo avuto altri due esempi di film interamenti girati in un'unica ripresa (e non in un finto piano-sequenza), Victoria (2015) di Sebastian Schipper e U – July 22 (2018) di Erik Poppe.
Forse il fatto che non diventi una esperienza cinematografica totalizzante. La totale assenza di trasporto emotivo è forse il limite più evidente di una operazione che, all'atto pratico, sembra il making of di una grande pellicola che non vedremo mai. Un film sul tempo, che poi diventa un film sullo spazio, la cui epicità è sempre imbrigliata in sequenze meccaniche caricate di un'enfasi troppo spesso fuori fuoco. E, soprattutto, manca un autentico senso dello spettacolo che ci lasci a bocca aperta.
Forse il fatto che non abbia una propria identità. Sua maestà Roger Deakins, uno dei più grandi direttori della fotografia viventi, a cui n questa edizione degli Academy Awards è stato assegnato il suo secondo premio Oscar (su quindici nomination), ha contribuito in maniera determinante a far sì che il progetto prendesse forma, attraverso un meticoloso lavoro che ha trovato pieno compimento dopo ben sei mesi di prove sul set. Ma il risultato finale è in linea con questo sforzo produttivo? La risposta è “nì”: nel film, passato e presente convivono in maniera dissonante e la volontà di calarsi in una sorta di classicità contemporanea, in cui il cinema “vecchio stile” conviva con la freddezza delle immagini ripulite, appare come un'arma a doppio taglio. Tutto sembra subordinato alla ricerca di un continuo “effetto domino” per alimentare una tensione narrativa in realtà latitante. Come tanti singoli episodi che, purtroppo, non danno vita a un grande affresco complessivo.
Ma, in fin dei conti, che abbia trionfato 1917 non è certo motivo di indignazione. È innegabile che, nella storia dell'Academy, in più di una occasione a portarsi a casa l'Oscar al miglior film siano state pellicole non certo indimenticabili. Ma allora perché questa vittoria ci lascia così tanto l'amaro in bocca? Perché, in una rosa di nominati di alto livello, a farne le spese sono stati, in particolare, cinque straordinari film che abbiamo amato alla follia.
Le nostre motivazioni in pillole:
The Irishman: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è il gangster movie definitivo di Martin Scorsese, il quale tira le fila della sua straordinaria carriera artistica, al fianco dei suoi storici amici di sempre, con un monumentale canto funebre nei confronti di un genere e di un mondo che non esistono più. «It is what it is». Emozione allo stato puro, per un capolavoro che è già un classico contemporaneo.
Parasite: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è un mirabile esempio di cinema moderno che attaversa generi e tendenze grazie a una scrittura che è uno straordinario congegno a orologeria. Politico, metaforico, grottesco, satirico, cattivissimo, spericolato, ironico, agghiacciante: la perfezione, esiste. E, a fronte del trionfo nella categoria Miglior film straniero, ci saremmo trovati di fronte a un evento unico, una “doppietta” storica mai vista prima all'Academy.
C'era una volta a... Hollywood: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è il sognante viaggio nel tempo di un Quentin Tarantino al top della forma che, attraverso un poema intimo e nostalgico, immerge il suo cinema in una dimensione onirica e sospesa, giocando con i generi, le convenzioni e... la Storia. Il film più cool dell'anno, con una galleria di personaggi assolutamente indimenticabile. Il 1969, filtrato dall'immaginario di Tarantino, non è mai stato così entusiasmante.
Joker: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché segna un punto di non ritorno nella storia del cinecomic, ridefinendo le caratteristiche di un genere solitamente identificato come puro e semplice intrattenimento. Cinema d'autore dal ghigno beffardo, parabola esistenziale negli abissi della psiche umana, lucida analisi della follia insita nella società contemporanea. Una discesa agli inferi resa indimenticabile da una performance attoriale che è già storia.
Storia di un matrimonio: avrebbe dovuto vincere l'Oscar al miglior film perché è una delle migliori radiografie sul rapporto di coppia mai viste sul grande schermo. Il modello “bergmaniano” diventa il tessuto connettivo di un racconto che guarda con coraggio alla contemporaneità, senza cedere mai a nessun tipo di forzatura drammaturgica. Una esperienza cinematografica immersiva e profondamente articolata, un tuffo al cuore tra East Coast e West Coast, sorretto da due interpretazioni a dir poco eccezionali.