Periferie visive. Il cinema come mappa delle città negate
15/10/2025

C’è un punto, nella maggior parte dei film contemporanei, in cui la città finisce. Non è sempre un confine visibile: può essere una barriera di cemento, un cavalcavia, un tratto di binari che corre senza passeggeri. È il limite in cui lo spazio urbano smette di essere centro e diventa margine. Il luogo dove si accumulano vite che non appartengono più a nessuno.

Negli ultimi anni, proprio in quel punto cieco, il cinema ha trovato una nuova lingua. Dalle periferie spagnole di Ciudad Sin Sueño alle ombre verticali di Sotto le nuvole, passando per Les Meutes e The Kitchen di Daniel Kaluuya e Kibwe Tavares, i margini urbani sono diventati laboratorio di forma, di sguardo, di senso politico. Non più soltanto teatri di esclusione sociale, ma spazi in cui la macchina da presa interroga la stessa idea di appartenenza.

La periferia è, prima di tutto, un’invenzione dello sguardo. Fin dal neorealismo, il cinema ha fatto dei margini un osservatorio del reale: Pasolini vi cercava l’innocenza primordiale, De Sica la miseria redentrice, Caligari la disperazione lucida. Ma la periferia contemporanea, quella raccontata dal cinema europeo e mediterraneo degli ultimi anni, è un’altra cosa. Non è più “fuori dal centro”, bensì un’altra dimensione della città: un organismo frammentato, dove il tempo si dilata e le regole si dissolvono. Henri Lefebvre lo chiamava “il diritto alla città”: la possibilità di esistere nello spazio urbano come soggetto e non come residuo. Il cinema sembra oggi raccogliere quel diritto, raccontando chi è costretto a viverlo come negazione.

In Ciudad Sin Sueño, tre generazioni di una famiglia madrilena abitano un quartiere in cui le case vengono demolite più in fretta dei ricordi. Non c’è retorica né denuncia: il regista Guillermo Galoe osserva i corpi e i silenzi, lascia che la camera resti ferma, come se la periferia avesse bisogno di tempo per respirare. Il film è costruito su interstizi (spazi vuoti, pause, ritardi) in cui la città appare come un fantasma che non vuole più essere guardato. È un cinema del residuo, che racconta la vita come ciò che resta dopo la modernità.

Diverso, ma affine, è lo sguardo di Gianfranco Rosi in Sotto le nuvole. Napoli non è solo sfondo ma organismo verticale: dagli ipogei sotterranei ai terrazzi dove si appendono i panni, ogni livello sociale corrisponde a un piano di sguardo. Rosi non denuncia, non estetizza: registra il caos come forma di conoscenza. La città, nelle sue immagini, è una stratificazione di voci, di suoni, di respiri. È la periferia come condizione esistenziale, non come categoria geografica.

Negli stessi anni, altrove, il cinema di Les Meutes trasforma la Casablanca notturna in un labirinto morale: due uomini, un cane e un cadavere da consegnare. Tutto accade nelle pieghe invisibili della città, in quella geografia intermedia che sfugge a ogni controllo. Kamal Lazraq filma la sua opera prima con un realismo ipnotico, fatto di ombre e nebbie di benzina, dove il confine tra legalità e sopravvivenza è una linea di luce tremolante. La periferia diventa qui non solo scenario ma metafora di una società che ha perso il proprio centro.

Lo stesso accade in The Kitchen, distopia londinese diretta da Daniel Kaluuya e Kibwe Tavares. In un futuro che somiglia troppo al presente, i quartieri popolari vengono espulsi dalla metropoli e recintati come zone di quarantena. È un film di fantascienza, ma la sua logica è documentaria: il realismo del degrado, l’autenticità dei volti, la densità dell’aria. Ogni inquadratura è una mappa del conflitto tra ordine e sopravvivenza. Il cinema torna così al suo gesto originario: osservare, registrare, restituire la dignità dello sguardo.

La periferia, oggi, non è più semplicemente un luogo: è una grammatica. I nuovi autori lavorano sul tempo, sull’attesa, sulla sospensione narrativa. Niente montaggi frenetici né climax drammatici: prevale l’immobilità, il gesto minimo, l’ellissi. È la “durata” bergsoniana che ritorna come forma di resistenza. Anche i fratelli D’Innocenzo, forse più di chiunque altro nel panorama italiano, hanno fatto della periferia una lingua visiva. Da La terra dell’abbastanza a Favolacce fino al più recente Dostoevskij, il loro cinema non cerca la denuncia ma l’allucinazione del quotidiano.

Nei loro sobborghi romani, le case a schiera sembrano gabbie emotive, i campi incolti diventano deserti mentali, i bambini non giocano ma sopravvivono. È un realismo che si contamina con il sogno, una periferia che si specchia nel mito. Se Pasolini vedeva nel borgataro una forma di purezza perduta, i D’Innocenzo mostrano la sua eredità mutata: un’umanità anestetizzata, cresciuta nella malinconia dell’iperrealtà. La loro Roma non è ai margini: è un margine che si è esteso fino a inglobare tutto.

Marc Augé parlerebbe di “non-luoghi”, ma qui il non-luogo è abitato, respirato, ferito. È un’umanità che si costruisce nel silenzio, nella resistenza del corpo al gelo.

Tutti questi film, pur diversi per estetica e provenienza, condividono una stessa intuizione: la periferia è il luogo dove il mondo mostra le sue cuciture. Nei margini urbani si rivelano le logiche del potere, le esclusioni economiche, le nuove povertà, ma anche la solidarietà come gesto quotidiano. In questo senso, la periferia non è più una distanza geografica bensì una condizione politica. Achille Mbembe, parlando di “necropolitica urbana”, descriveva le città contemporanee come spazi in cui la sopravvivenza è già una forma di resistenza. Il cinema, oggi, traduce quella teoria in immagine: non c’è manifesto, non c’è slogan, solo la persistenza dello sguardo.

Ma attenzione: rappresentare la periferia comporta sempre un rischio. Troppo spesso il cinema, anche il più benintenzionato, cade nella trappola della spettacolarizzazione del degrado, una pornografia della povertà che serve più a rassicurare il centro che a dar voce ai margini. I film più interessanti sfuggono a questa logica scegliendo la discrezione. In Sotto le nuvole la camera resta dietro i vetri; in Ciudad Sin Sueño non ci sono eroi né vittime, ma presenze quotidiane che abitano l’invisibile. È una politica dello sguardo: filmare significa anche sapere quando non guardare.

Da questo punto di vista, la critica cinematografica dovrebbe forse interrogarsi sul proprio posto. Ogni film sulle periferie pone la stessa domanda allo spettatore: da dove stai guardando? Chi è il “noi” implicito nello sguardo? Parlare di periferie significa riconoscere che ogni inquadratura è una frontiera, ogni immagine una soglia tra visibilità e rimozione.

Il cinema contemporaneo, quando è consapevole di questo, diventa una cartografia etica: mappa ciò che il potere vorrebbe cancellare, restituisce spessore alle esistenze che abitano il margine. Non serve la denuncia, basta la presenza.

Alla fine, la periferia è forse l’ultima possibilità del cinema di essere politico senza diventare propaganda. È il luogo in cui la finzione incontra il reale e lo ascolta, dove il tempo rallenta fino a farci vedere di nuovo.

Là dove la città finisce, tra un cavalcavia e un cortile di cemento, tra un sogno interrotto e un pallone bucato, il cinema ricomincia a pensare.

E forse, in quel frammento di mondo sospeso, ritrova la sua ragione d’esistere: dare forma a ciò che non ha più voce, disegnare una mappa delle città negate.


Carmen Apadula


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