Persona: le vostre analisi!
06/06/2022
Al termine del webinar dedicato all'analisi di Persona di Ingmar Bergman abbiamo chiesto ai partecipanti di scrivere un'analisi relativa al film. Ecco le più interessanti:

Un atto di fede pienamente ricompensato
di Lucia Cirillo

“Una volta ho detto che Persona mi salvò la vita - non esageravo […] in Persona mi sono spinto al massimo delle mie possibilità, […] ho raggiunto inesplicabili segreti che soltanto il cinema può scoprire” l.B.

Amare il cinema di Bergman vuol dire molte cose, tanto complessa e composita è la sua monumentale produzione artistica, ma soprattutto è concedersi senza riserve a quella folta galassia di sensazioni, ossessioni, tormenti, traumi, che in ogni suo film si affastellano con la grazia e l’intensità di un equilibrista che domina dall’alto una corda tesa. Tuttavia, con Persona si misura con qualcosa di più ambizioso e allo stesso tempo di meno classificabile. È un film pienamente classico nella trama che si combina con un concetto, dichiaratamente sperimentale,  concernente riflessioni relative alla “macchina” cinema, intesa proprio come congegno, meccanismo da dominare con la competenza di un tecnico che si pone al servizio - più che alla guida - del talento attoriale. In Persona, più che in altre sue opere, sembrano concentrarsi tutte le ragioni legate alla sacralità “materica” del cinema di Bergman, allorquando si fa strumento per superare i limiti stessi del teatro, oltre che di un certo modo di recitare e della possibilità stessa di descrivere la condizione umana in un’epoca in cui le “fratture” interiori sono causate dai “nuovi” orrori di una storia che non ha precedenti e che di quelle fratture si fa principale generatrice. Il dramma di Elettra si arricchisce di traumi aggiuntivi che hanno modificato i suoi codici emotivi. Ora non è più possibile ripetere le parole di sempre per descrivere il proprio travaglio. È proprio in questo sconvolgimento ancora senza una spiegazione che il cinema si impone e - apparentemente - sfugge al controllo, devia dalla narrazione interrompendola con inserti casuali, immagini sfocate, voci metalliche o distorte. È proprio allora che il cinema si fa strumento di un linguaggio nuovo, teso a raccontare una condizione fino a quel momento sconosciuta.

Persona incarna pienamente questa intuizione: la frattura tra l’essere e il sembrare, l’incomunicabilità, la depressione, la retorica falsa della maternità idilliaca (tutti temi già sviscerati nella filmografia precedente e in quella successiva) trovano la loro definizione nella percezione che il cinema, e soltanto il cinema, sia in grado di mostrare la verità oltre l’apparenza. E la verità diventa possibile solo in quanto frutto di una ricomposizione, una emersione dal caos, come epilogo di un conflitto necessario che solo attraverso la mediazione del cinema può avvenire.

Ed è forse proprio sulla scorta di questa idea di cinema - e del ruolo “salvifico” di cui parlava riguardo a Persona - che Bergman farà dire ad Alma: “credere in qualche cosa tanto da dedicarle una vita”. Una vita dedicata al cinema. Un atto di fede pienamente ricompensato. Senza alcun dubbio.

Riflessioni su Persona
di Enrico Gegra

L’attrice Elisabeth Vogler, durante la rappresentazione teatrale di Elettra diventa muta e viene ricoverata in una clinica, assistita dalla Dottoressa Krook.  Sarà poi l’infermiera Alma a starle vicino anche durante una convalescenza nell’isola di Faro. Qui Elisabeth scriverà al marito, riceverà le sue lettere e riceverà la sua visita: nell’aprire un libro rivedrà con Alma la foto di suo figlio che straccerà separandola in due parti uguali. Una per ogni parte di sé.  È questo bambino ad aprire le sequenze del film, insieme a frammenti di un rudimentale cartone animato accompagnato da divertenti brani musicali e da una breve sequenza dove un personaggio travestito da scheletro esce da una cassa panca.  Si gioca forse con la morte? Il bambino è steso su una lettiga in un obitorio, sotto ad un lenzuolo.

In questo piano narrativo vi sono quindi due soggetti, Elisabeth ed Alma che interagiscono: ma questo racconto, a sua volta, fa parte di una ripresa cinematografica che il bambino dell’obitorio, svegliatosi, osserva su uno schermo dentro il quale a poco a poco si mettono a fuoco le immagini di Elisabeth e di Alma.

Perché? Elisabeth durante la cruciale rappresentazione di Elettra (lei stessa dunque interpretava Elettra) rivive un episodio della sua vita: contro la sua volontà era stata convinta ad avere un figlio, usando quasi questa sua condizione come un’ennesima e mancante sua messa in scena da attrice, solo per arricchire il suo elenco di personaggi, così come solo per attirare la madre in un tranello, Elettra finge di essere sul punto di partorire. La gravidanza, l’attesa di un figlio assume un valore solo strumentale e fittizio.

Elisabeth immagina, sogna, si convince di vedere, forse sedata in clinica, che suo figlio veda questo film esplicativo dei motivi che hanno portato la madre a non desiderarlo, a non comunicare più con nessuno e ad immaginarlo morto: sia lei che Alma, che a sua volta è una parte di Elisabeth, quella che deve sistemare e accudire l’altra parte ferita, in varie occasioni guardano la macchina da presa per ricordare al bambino che sono lì per lui. Elisabeth ride addirittura dopo che Alma infuriata vuole versargli addosso dell’acqua bollente, ride per non spaventare il bambino che le sta osservando, per dirle che è tutta una finzione.

La visita del marito sarà gestita in tutto e per tutto da Alma che si spaccerà per Elisabeth alla quale dirà “porta per me un regalo al bambino”, un figlio senza nome, un figlio che si vorrebbe non esistesse.

La celebre scena ripetuta “simmetricamente” esprime ciò che Elisabeth vive sia razionalmente che emotivamente, due emisferi cerebrali con funzioni diverse, uno di Elisabeth e l’altro di Alma.

Ed ancora, la messa a fuoco della macchina da presa esaspera la sua funzione, incendiando la pellicola sia all’inizio che alla fine del film, due volte quindi, così come per due volte si vede il sangue sia dell’animale sacrificato che di Alma, quest’ultimo nutrimento per l’infelice Elisabeth. Il racconto filmato viene racchiuso in due sigilli di fuoco e di sangue.

Tutta questa rappresentazione finisce quando finalmente Elisabeth torna a parlare articolando il termine “nulla”, riconducendo così la sua storia ad un fotogramma bianco (o nero): Elisabeth prepara la sua valigia nel suo ospedale, così come Alma riordinerà la casa sull’isola prima della partenza, esaudendo forse l’ultima velleità di Elisabeth che l’ha vista collocata in quel luogo dell’anima, da cui comunque vuole che Alma se ne vada.

Anche ad avvenuta guarigione Elisabeth vuole che Alma esaurisca il ruolo e le due partenze porteranno ad un’unica persona.

Rimane però unico e solo il bambino con le braccia alzate nel ghetto di Varsavia, che Elisabeth vorrebbe sapere vivo come suo figlio.

PERSONA E L’ORIGINE: IL CINEMA E LA MATERNITÀ
di Maria Serena Pasinetti

L’incipit di Persona su cui sono stati scritti fiumi di parole contiene a mio parere due momenti/ossessioni centrali: il Cinema e la Maternità.

Bergman parla, proprio nell’Incipit, sia delle origini del Cinema, sia di Maternità, cioè ancora delle origini, questa volta, della vita.

Ed eccola la sequenza che, a mio parere, è tutto il film.

Il bambino (Bergman) si sveglia, legge ma il momento intellettuale si interrompe presto ed ecco lui accarezza lo schermo (il cinema?) delle due interpreti del film che si fondono, delle sue madri.

È la mancanza di maternità capovolta, è il figlio a cercare una madre e non la madre che ha bisogno del figlio, anzi addirittura lo rifiuta.

Non dobbiamo dimenticare l’esperienza personale di Bergman vissuto da piccolo in un ambiente molto rigido. Nella sua autobiografia parla di un’educazione basata su i concetti di peccato, confessione, punizione, perdono e grazia. E di un’educazione alla menzogna, per evitare punizioni. 

In Persona la dottoressa dice:” meglio rinchiudersi nel mutismo, così si evita di mentire”.

Eccolo tutto il cinema di Bergman: ma ecco anche tutta la mancanza di “amore” che il bambino, accarezzando lo schermo, cerca.

E immediato è il collegamento con Johan, il piccolo de ll silenzio (tra l’altro lo stesso giovanissimo attore di Persona) che si trova anche lui a cercare amore tra due donne. Una, la zia, troppo occupata dalla intellettualità della propria malattia, l’altra, la madre, in cerca di una sensualità continua. Lui, il bambino, è affascinato prima dal viaggio in treno (le immagini dal finestrino) che poi è il cinema, e poi dal teatro e da quei nani in albergo. Solo, in albergo, anche lui, a cercare un affetto tra le due sorelle che si macerano nel loro rapporto “malato”.

In Persona eccole di nuovo queste due donne, il bambino la/le accarezza all’inizio e assiste con noi a questo film in cui una fa da infermiera (madre addirittura forse) all’altra. 

Ed eccole le due a macerarsi su maternità non volute, aborto (la foto strappata), a fare di questo complesso di colpa per il figlio rifiutato, non voluto una “masturbazione” intellettuale che forse qualche carezza, come suggerito dal fotogramma iniziale, avrebbe risolto. 

Persona è un film sulla maternità, questo grande problema femminile e che non è innato nella donna. La donna diventa “madre” dopo la nascita dei figli, c’è molta sovrastruttura stereotipata in questo concetto della “maternità” per forza legata ad un figlio. In Persona l’infermiera rivendica la propria sessualità nel racconto sulla spiaggia, staccata dal rimanere incinta. E rivendica l’essere infermiera come gesto di amore per gli altri, una maternità surrogata.

L’altra, l’attrice, fotografa il ragazzo che insieme a noi sta vedendo il film, lo/ci fotografa ma si stacca. Alma, l’infermiera, le rinarra il suo non desiderio di avere un figlio, di volerlo morto e invece, lui, il bambino, “fu preso da un immenso amore per te”. In un monologo/dialogo Alma fa da contrappunto a tutti gli stereotipi sulla maternità.

Persona è un film sulla maschera, sulla menzogna, sulla maternità ma è anche un film sul cinema. 

E finisce con dei fotogrammi, con una macchina da presa e con l’infinita carezza del bambino che cerca amore. 

L'analisi di un fotogramma
di Letizia Piredda



Persona, 1966 è considerato il film più sperimentale di Ingmar Bergman, basti pensare all’incipit e al risvolto metacinematografico che lo attraversa.

Ma è anche un film estremamente complesso in quanto scava nell’inconscio femminile e in particolare nel gioco intrapersonale e interpersonale che si stabilisce tra individuo e maschera. Non solo ma tenta di rendere la complessità di questi processi psicologici attraverso le immagini, impresa davvero incredibile!

Tra le tante inimmaginabili  immagini che troviamo nel film mi vorrei soffermare su quella che ritrae un volto di donna formato dalla metà del viso delle due attrici.

E’ una fusione o una frattura? Sono due o sono mezza? 

Seguendo l’evolversi delle vicende tra le due protagoniste, Alma, l’infermiera e Elisabeth, l’attrice che si è rinchiusa in un mutismo elettivo per ripararsi dalla vita, potremmo arrivare alla conclusione che ognuna ha introiettato la maschera dell’altra e quindi è un volto ma con due maschere.

In questo senso la fusione tra i due volti starebbe a significare la fusione delle due maschere in un unico volto.

Ma si potrebbe avanzare anche un’altra ipotesi: e cioè che l’identità di ognuna si è dimezzata, ha perso la propria metà, si è frammentata. In questo caso ognuna è mezza e questo processo disorienta terribilmente la persona che lo sperimenta perché mette a repentaglio la propria identità.

Sono molto interessanti a questo proposito le parole di Bergman quando racconta di aver mostrato quest'immagine alle due attrici: 
«Quando ricevetti la copia del filmato dal laboratorio, chiesi a Liv ed a Bibi di venire nella stanza del montaggio. Bibi esclamò, sorpresa: "Ma Liv, sembri così strana!". E Liv disse: "No, sei tu, Bibi.. sembri davvero strana!". Spontaneamente negarono la loro metà di quel viso». 

In questo caso l’immagine, che rende visibile una frattura invisibile, proprio perché inconscia, fa reagire le due attrici in modo da difendere la propria identità rifiutando la parte estranea, cioè quella dell’altra.

Difficile e forse impossibile decidere per l’una o per l’altra ipotesi: ma forse, e proprio qui è il punto, Bergman non considera due personaggi separati ma due prospettive psicologiche della stessa persona: artista/essere umano; maschera/persona; essere/sembrare; Io cosciente/inconscio. E tutto potrebbe essere riconducibile al suo dramma interiore: forse è proprio lui il protagonista invisibile del film.

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