Reportage dalla Mostra di Venezia di Mirta Tealdi
17/09/2022
Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo questo reportage dalla Mostra del Cinema di Venezia firmato da Mirta Tealdi.



La Syndicaliste, di Jean Paul Salomé

Venezia 2022, Orizzonti. ‘122


2,8/4

 

 

Il film è tratto da una storia vera dai risvolti quasi incredibili. E’ la storia di Maureen Kearney, una dirigente sindacale di un’importante multinazionale francese del nucleare, impegnata giornalmente a difendere i diritti di migliaia di lavoratori a rischio. Maureen è una donna in carriera, tutta di un pezzo, con un carattere forte e spigoloso, senza peli sulla lingua e totalmente dedita al lavoro. Non accetta compromessi né per sé né per i lavoratori che rappresenta. Si mette pericolosamente e pubblicamente contro il nuovo capo di cui scopre, grazie ad una soffiata, gli accordi “segreti” per la cessione di buona parte del mercato energetico del nucleare francese ad aziende cinesi, che comporterebbe gravi  ripercussioni sul piano occupazionale. Pesta i piedi a molti della sua azienda, ai vertici e anche oltre, cercando di arrivare, grazie alla sua influenza, ai ministri e in ultimo al Presidente della Repubblica. Ma tutto ciò le costerà molto caro! 

Una brillante  interpretazione di una grandissima Isabelle Huppert che illumina il thriller ad alto impatto del regista Jean Paul Salomè, con cui la Huppert ha già lavorato ne La daronne, e fa vibrare i chiari scuri di una personalità complessa, coinvolta in  una vicenda quasi incredibile. Ne esce un ritratto luminosamente aderente al vero personaggio, anche sul piano fisico (che ha impressionato la vera Maureen e l’autrice del libro su cui si basa la storia,Caroline Michel-Aguirre).

Dal ritmo incalzante della prima parte, con una messinscena che utilizza i flashback e una regia molto dinamica, si passa ad una dimensione da thriller psicologico che indaga, con alternanze sceniche e frequenti primissimi piani, il sentire più privato della protagonista. Maureen passerà gradualmente da vittima di una brutale e violenta aggressione in casa, a colpevole di falso, in un escalation drammatica in cui tutti (sotto una forte pressione mediatica): gli  inquirenti, la giudice della prima udienza, (e il suo stesso marito per un breve momento), cominceranno a guardarla con sospetto e dubbio. Vittima come donna, come professionista e in ultimo (e questo è il paradosso più straniante del film) accusata di essere stata una vittima troppo passiva per essere credibile. Perché non si è ribellata? Perché non ha cercato di liberarsi dai lacci? Se non fosse una storia vera, sembrerebbe un giallo ben costruito, come quelli che legge Maureen. Riuscirà il suo spirito combattivo anche se fiaccato dai dubbi e sospetti a suo carico, a ritrovare vigore e fare luce sulla verità? Un film vibrante di denuncia civile contro gli errori di un sistema in cui i pregiudizi e la pressione mediatica portano a voler vedere quello di cui ci si convince, e di un maschilismo ambiguo, neppure ben mascherato, (odiosamente simile a quello presente in tanti processi di stupro) nei confronti di una donna, in questo caso, scomoda. Quanto gravi e sconvolgenti siano le conseguenze di una superficialità di fondo, basata su convinzioni predeterminate, solo Maureen Kearney lo ha sperimentato e ce lo ha raccontato attraverso la magia scenica di Isabelle Huppert.



Love Life  diretto da KĹji Fukada. 123’

 
Interpreti:

Fumino Kimura, Kento Nagayama, Tetta Shimada, Atom Sunada, Hirona Yamazaki, Misuzu Kanno, Tomorowo Taguchi

 

3/4
 

Come si fa a superare e sopravvivere alla morte del proprio figlio, in più con l’aggravante di sentirsi in colpa perché responsabile di una svista che ha causato la disgrazia?

Taeko (una commovente e profonda Akiko Fumino) è una giovane madre divorziata la cui  vita sembra scorrere tranquilla tra il secondo marito, Jiro e il figlio Keita. Sta organizzando i preparativi per la festa a sorpresa per il compleanno del suocero e i festeggiamenti per la vittoria di Keita come campione del gioco Othello.  

Ma già gli elementi dissonanti cominciano a farsi strada in questa storia apparentemente semplice. Scorrono, sotto l’epidermide della finzione scenica, emozioni e sentimenti trattenuti e repressi. I suoceri scontenti di non avere ancora un nipotino “loro”, in quanto Keita è figlio del primo marito di Taeko, Park, sparito dalla vita di entrambi quando il bambino era molto piccolo, e ne fanno (in particolare il suocero) palese colpa alla giovane sposa. E poi, come in un moderno Kabuki, la tragedia  è banalmente e fatalmente dietro la porta.  La vita di Taeko va in frantumi e si blocca. Bloccata come la tastiera dell’Othello,  (all’ultima mossa della partita giocata tra madre e figlio e scrupolosamente custodita) e che finirà per sostituire come  metafora,  la presenza/ assenza di Keito.

La bellezza di questo film sta nella quantità e profondità di elementi che si agitano e si addensano come nuvole grondanti tempesta in  un cielo apparentemente calmo.

 Il regista Koji Fukada già premiato al Festival di Cannes nel 2016 per Harmonium, nella sezione Un Certain Régard, mette in scena con sensibilità e sguardo attento  alla psicologia dei personaggi,  una storia di dolore, lutto, distanze difficili, quasi incolmabili.  Il tutto con il rigore e la profonda sensibilità di uno stile asciutto e intimista. La tragedia scuoterà le fondamenta del rapporto dei due coniugi. Ma Sia Taeko che Jiro hanno un sospeso non risolto con i propri partner precedenti. E in  modo analogo e quasi speculare, per ritrovare se stessi dovranno fare i conti col passato. Jiro incontrando nuovamente la donna che ha abbandonato per la moglie e Taeko con Park, il padre sordomuto di Keita, che con la sua rabbia iniziale, i  modi sguaiati, e uno schiaffone alla ex, ne sblocca le emozioni, congelate dal dolore e dalla rigidità delle convenzioni sociali.  Park è una figura ai margini, un egoista, pacifico e inaffidabile, che sarà però  l’elemento  fondamentale per aiutare la donna ad elaborare il lutto. Riuscirà Taeko sotto una pioggia purificatrice e catartica a riprendere  in mano la propria vita e quella di Jiro? La risposta è nella melodia e nelle parole della famosa canzone Love Life, di Akiko Yano, che hanno ispirato il regista.

 

Hanging Gardens (Janain Mualaqua)  di Ahmed Yassin Al Daradji. 

 

sezione Orizzonti extra

Iraq, Palestine, Saudi Arabia, Egypt, UK   117’

Cast: Wissam Diyaa, Jawad Al Shakarji, Hussain Muhammad Jalil, Akram Mazen Ali.

Mirta Tealdi

Voto 2,4/4

 

Pellicola d’esordio nel lungometraggio, per Ahmed Yassin Al Daradji, ‘Hanging Gardens’ è un  film di produzione arabo, britannica che parla di un tema tabù: la prostituzione (anche se solo di una bambola), la pornografia, la sessualità maschile in un paese arabo.

Nonostante la tematica di fondo, il film “sboccia” come un fiore in mezzo a cumuli di spazzatura, gli stessi cumuli dove giornalmente i due fratelli orfani, As’ad (appena adolescente) e Taha, cercano nella discarica di rifiuti alla periferia di Baghdad, denominata “Hanghing Gardens”, qualcosa da rivendere al patriarca a capo di una banda locale, per il quale i due ragazzi “lavorano” per pochi spicci di sopravvivenza. La loro è una vita misera, che si svolge per lo più tra i miasmi fetidi delle montagne di spazzatura che setacciano, in un paesaggio nauseabondo e desolante. In un mondo così estremo, c’è pure spazio per atti di pietà umana, quando trovano il corpo senza vita  di un neonato a cui fanno un funerale improvvisato. Nonostante il contesto sia così drammatico, prosaico e desolante il regista riesce a donare al film una leggerezza di fondo attraverso lo sguardo di As’ad, tanto disincantato, da organizzare con l’amico Amir, di far “prostituire” la bambola gonfiabile (che parla inglese) trovata tra i rifiuti (quel che resta dell’invasione americana?), quanto puro e innocente nei momenti in cui la lava con cura, l’accarezza con dolcezza, la coccola con una purezza di sguardo, una protezione  e una tenerezza che sono il punto dove il film raggiunge il suo apice poetico: quasi a dirci  che la bellezza (in questo caso l’innocenza), è nello sguardo di chi guarda. E infatti, non altrettanto innocente,  è lo sguardo del fratello Taha, mentre spia attraverso un foro nel muro diroccato del terrazzo, la ragazza della casa di fronte. La donna se ne accorge e si chiude in casa. Di lì a non molto, i maschi della famiglia, sollevano un lenzuolo a protezione della casa e della vista della ragazza, interrompendo dunque il gioco di sguardi reciproci. 

Il tutto mentre il business dei due ragazzini va a gonfie vele e si ritrovano ad avere un’abbondanza di clientela per la “bambola” di As’ad (il quale, in cuor suo, vorrebbe salvarla da quel destino).  Ecco però che la lunga fila di uomini in attesa del proprio turno davanti ad un ’improvvisata e precaria “casa d’appuntamenti”, non può non dare nell’occhio e finisce per attirare non solo l’attenzione dei clienti… I guai per As’ad e Amir  sono dietro l’angolo e il finale come prevedibile prenderà una piega amara.

Con ’Hanging Gardens’, il regista,Ahmed Yassin Al Daradji,  raccontando una storia strana e surreale, con un occhio, guarda e descrive la sessualità maschile e la complessità dei rapporti uomo donna nel mondo arabo,  con l’altro, osserva (rassegnato?)  le conseguenze nefaste, i lutti, la miseria e la desolazione  che la guerra irachena ha prodotto e portato nella vite della propria gente. 

 

Palimpsest di  Hanna Marjo Västinsalo


Finlandia. 2022 (109')


cast: Riitta Havukainen, Emma Kilpimaa, Krista Kosonen, Kaisu Mäkelä, Leo Sjöman, Antti Virmavirta



2,5/4

 


Palinsesto: ← dal lat. palimpsÄ“stu(m), che è dal gr. palímpsÄ“stos, comp. di pálin ‘di nuovo’ e psân ‘raschiare’; propr. ‘raschiato (per scrivervi) di nuovo’.

Riscrivere su una pergamena un foglio o altro supporto, (in questo caso metaforicamente riscrivere la propria vita), e questa è l’opportunità che viene data ai due protagonisti di questo originale  film  scandinavo,  che si trova a metà strada tra Cocoon di Ron Howard, e Il curioso caso di Benjamin Button, diretto da David Fincher. 

In questo primo lungometraggio della regista finlandese Hanna Västinsalo, il tema è ambizioso e viene affrontato con un taglio scientifico estremamente realista (uno degli aspetti più affascinanti e seducenti della pellicola), che rende l’esperimento verosimile agli occhi dello spettatore. La regista, che vanta studi di genetica, mette in scena attraverso le vicende dei suoi protagonisti l’eterna domanda che tutti, almeno una volta nella vita ci poniamo: se potessi tornare indietro cosa farei?

Tellu e Juhani,  sono due anziani ospiti di una casa di riposo che vengono selezionati per  entrare in un programma di sperimentazione  di una terapia genica  intesa a farli ringiovanire per studiarne scientificamente i mutamenti. Casualmente si ritrovano a condividere la stessa terapia e la stessa camera. A parte un’iniziale diffidenza di Juhani più riservato, verso Tellu, molto più disinvolta, quasi invadente, i due stringono gradualmente amicizia mentre osservano i cambiamenti reciproci, fisici e psicologici, che la terapia sta manifestando. Juhani sta anche vivendo un momento difficile con la moglie Matilda, ricoverata in ospedale gravemente ammalata. Lentamente oltre ai mutamenti fisici condivideranno anche un sodalizio che  nemmeno loro, forse,  avrebbero mai immaginato.

Tellu ,si abbandona al suo istinto e alla sua vitalità esplosiva. A tratti perdendosi, nel volersi ‘sparare’ tutto d’un fiato la sua ritrovata gioventù, si addentra sempre più a fondo nelle spirali e nei meandri del suo animo. Ha un’innata capacità di cacciarsi nei guai, ma è anche uno spirito allegro, vivace e libero, ha una curiosità sfrenata che la spinge in  avanti, coinvolgendo sempre più concretamente e in modi anche inaspettati l’amico.  Juhani , al contrario,  più pragmatico,  rivolge il suo sguardo verso l’universo infinito dedicandosi alla sua grande passione, l’astronomia; per lui il suo cambiamento diventa un’opportunità per prendere una nuova strada, affrontando contemporaneamente questioni familiari complesse e dolorose.

E così i protagonisti, emarginati dalle loro vite precedenti, si ritrovano indissolubilmente legati e solidali in questa esperienza così fuori dal normale, ma anche divisi in molte scelte cruciali. Hanno in comune  un punto sostanziale: una profonda e inevitabile solitudine.  E dunque viene da porsi la domanda (a cui il film saprà o vorrà rispondere?): è poi così bello avere una seconda opportunità, se questa comporta perdere eventualmente i punti fermi della vecchia esistenza?.

Palimpsest è un film profondo e intelligente, senza falsi pudori o triti sentimentalismi, a momenti ironico a tratti disincantato e con un finale tutto fuorché scontato. Procede a balzi narrativi che seguono le altrettante  metamorfosi dei due protagonisti, con uno stile introspettivo e una messinscena volti ad indagarne i percorsi psichici.  Su tutto aleggia un  vago senso di malinconia e una leggera inquietudine dei due amici,  probabilmente consci che ciò che resta non è la gioia per la gioventù ritrovata,  ma la consapevolezza che le scelte fatte hanno comportato (o comporteranno), dei passaggi esistenziali imprevisti e fuori dalla propria volontà.  E’ un po' come se andare contro le leggi naturali, costringesse chi ha osato opporvisi,  ad esser costantemente  fuori luogo,  in un fuori tempo dall’impatto perturbante. 

 

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