Reportage veneziano
13/10/2023
Riceviamo e con piacere condividiamo questo reportage sulla Mostra di Venezia, relativo a film visti nelle sezioni Orizzonti, Orizzonti Extra e Giornate degli Autori di Mirta Tealdi.
Anche quest’anno, La Mostra del Cinema di Venezia, alla sua 80ª edizione, ha concentrato molte delle tematiche della sezione Orizzonti (concorso che si occupa di rappresentare le nuove tendenze cinematografiche mondiali con un occhio agli autori emergenti e alle cinematografie minori), su giovani e adulti che si confrontano con realtà complesse. Personaggi, a tutte le latitudini, che condividono dubbi, percorsi di crescita, crisi esistenziali, o si sperimentano con il magma caotico delle prime emozioni amorose, calati in narrazioni dalle messinscene volte a indagarne le traiettorie mentali, e le evoluzioni esistenziali. Lo scorso anno molte storie parlavano di eventi calati nella Storia che “toccavano” più o meno da vicino i propri personaggi, quest’anno l’attenzione è maggiormente rivolta a narrazioni contemporanee ed a tematiche meno interessate dai grandi eventi e più concentrate sulle dinamiche interiori dei protagonisti impegnati nel proprio viaggio evolutivo.
Svariati film della sezione Orizzonti quest’anno sono in b/n, come se non fosse casuale, ma il luogo di un rinnovato linguaggio, stile e senso dell’immagine cinematografica.
Ser Ser Salhi, (The City of Wind), 2023
Regia: Lkhagvadulam Purev-Ochir
Ze (il bravo Tergel Bold-Erdene, che ha vinto il premio Orizzonti come miglior attore) è un ragazzo diciassettenne che vive insieme ai genitori in una modesta abitazione in un villaggio vicino alla capitale, Ulan Bator, in Mongolia. Un ragazzo come molti, serio, studioso, vicino agli esami, timido e riservato, ma con una particolarità, Ze è anche uno sciamano che presta il proprio talento ai membri della sua comunità. In un suggestivo cerimoniale, con un pesante travestimento, coadiuvato dalla sorella, Ze entra in contatto con il suo spirito ancestrale per dare risposte ed aiutare. Per questo suo dono e per il suo essere remissivo e ubbidiente Ze viene bullizzato a scuola. L’insegnante, dura e autoritaria (che simboleggia nella sua intransigenza l’autorità della vecchia guardia), tiene la classe con piglio deciso e violento ma ha rispetto per Ze perché non ha grilli per la testa e vuole diplomarsi con il massimo dei voti e trovare un proprio futuro.
Un giorno Ze va con la madre e la sorella a prestare il suo servizio a casa di conoscenti, e qui incontra la sua riottosa cliente, la giovane Maralaa, ( Nomin-Erdene Ariunbyamba ) che deve subire un intervento importante al cuore, e che da subito (ma non osa opporsi alla madre), prova rifiuto per Ze e per le rivelazioni del suo spirito guida. Ma si sa, quando c’è un rifiuto spesso c’è un’attrazione e la visita in ospedale di Zu dopo l’intervento di Maralaa è l’occasione per iniziare una frequentazione che si trasforma presto in una storia d’amore, (Il primo amore per Ze). La turbolenta e ribelle Maralaa sconvolge il giovane e tutte le sue abitudini e certezze cominciano a vacillare, inizia a ribellarsi agli scherzi odiosi dei compagni, e si allontana per un po' pure dai suoi antenati e spiriti ancestrali coi quali, nel nuovo caos emotivo della sua vita, non riesce più a connettersi. Al massimo del suo impeto ribelle arriva a sfidare apertamente l’autorità dell’inflessibile maestra in una sequenza dal taglio scanzonato e liberatorio in cui Ze a un tempo si riconcilia col ragazzino che lo perseguita a scuola e si oppone alla violenza verbale e fisica dell’insegnante. Un percorso di crescita ed emancipazione personalissimo e come tutte le crescite anche doloroso.
Ma il caos nella vita di Ze ha una durata a tempo.
Sullo sfondo di questa delicata storia, visto attraverso lo sguardo dei giovani, c’è un paese che si affaccia alla modernità, in una società dall’incerta tensione al progresso, che è ancora fortemente radicata nelle proprie credenze e tradizioni magiche. Antico e moderno, interno ed esterno, progresso e tradizione: una sotto traccia, questa, che attraversa tutto il film e ne costituisce l’ossatura. Vi si trova condensata sia nelle ambientazioni in esterni della capitale caratterizzata dai moderni grattacieli in rapporto dialettico con le imponenti architetture, testimonianza del realismo socialista, sia nella rumorosissima e unica discoteca frequentata dai protagonisti, sia nel contrasto con gli ampi spazi naturali brulli e sterminati dove Ze si riconnette con i suoi spiriti. Antico e moderno convivono e collidono tra immensi spazi aperti e le architetture, appunto, gigantesche e anonime.
La regista utilizza un’ interessante messinscena potenziata dalla bella fotografia di Matthieu Taponier. Usa toni freddi e sfumature di grigi per rappresentare la natura, sterminata e arida, degli altopiani e delle montagne che circondano Ulan Bator (dove Ze costruisce e ricostruisce il suo rudimentale altare fatto di pietre in onore dei suoi spiriti); e toni caldi dai colori squillanti per descrivere i giovani, i loro divertimenti, le loro emozioni e ribellioni, infondendo alla storia un incanto e una freschezza genuini.
Per queste caratteristiche è un film che a tratti somiglia ad una docufiction dallo stile asciutto ma partecipativo. Una tenera storia d‘amore, di crescita ed emancipazione sullo sfondo di un paese in trasformazione, di cui Zu rappresenta il possibile trait-d’union tra modernità e presente, tradizioni e riti antichi.
2,5/4
Sobre Todo de noche, (Foremost by night), 2023
Sezione: Giornate degli autori
Regista: Victor Iriarte
“ E’ un film sulla violenza.
E’ un film sulle mani/E’ un film sulle mappe
E’ un film di strada. Un film sui sentimenti.Sentimenti sulla strada. E’ un film d’avventura. Un triste film d’avventura.
Triste ma anche luminoso.
E’ un film politico. Profondamente politico. Intimamente politico. E’ musicale. E’ coreografico.
E’ un film sulle lettere. Lettere scritte a mano. Lettere intonate ad alta voce, lettere inviate come messaggi audio.
E’ un Thriller. E’ un film noir,è un giallo. E’ un melodramma.
E’ un film che diventa un altro film, che diventa un altro film, che diventa un altro film.
E’ un film su una madre, su una madre, su suo figlio. E’ un film sulla possibilità di essere un altro.
Sulla possibilità di cambiare il destino.
Sulla possibilità di essere in due posti contemporaneamente:
Qui. E la’.
E’ un film su una ferita. Su una ferita. Su una ferita. E’ un film di fantasmi.
E’ un film su come le storie, le narrazioni, costruiscano un altro mondo possibile. Su come le storie, le narrazioni, possano trasformarci.
Su come, come quando non hai nulla, quando tutto ti è stato portato via, le storie, le narrazione, le finzioni, i film, le lettere, le voci, i ricordi, siano l’unica cosa che può salvarci.
Che può darci un po' di pace/Che può darci un posto nel mondo. E’ una canzone d’amore.” [Victor Iriarte]
Ho affidato alle parole stesse del regista, Victor Iriarte, al suo primo lungometraggio con Sobre todo de noche, presentato nella sezione Giornate degli autori, il primo impatto sul film, rappresentato molto bene nell’essenza della messinscena, da ciò che scrive l’autore. Un commento che sembra la sceneggiatura stessa del film e la cui frammentazione è esattamente quella che si percepisce nei 109’ di durata. Un episodio doloroso, si trasforma, deflagrando in mille frammenti, in un riscatto forse, una possibilità, una benedizione. Bella anche se a tratti volutamente irritante l’interpretazione della bravissima Lola Dueñas,( già apprezzata nella scorsa edizione della Mostra con la sua toccante interpretazione in: Argentina, 1985 ), affiancata da un'altra “grande” del cinema spagnolo, Ana Torrent.
Vera è un personaggio che non vuole presentarsi simpatico o “arruffianarsi” lo spettatore (e forse questo è contemporaneamente il maggior merito e il maggior limite del personaggio ), spinta da una determinazione infaticabile. Un film freddo e fisico al tempo stesso che non fa sconti di alcun tipo ma che nella sua frammentazione finisce per far perdere un po' di interesse nella storia. Un modo diverso e originale, con accenti noir e thriller, per rappresentare una combattente, una madre che non si rassegna e mette in gioco tutto per trovare suo figlio ormai quasi diciottenne dato in adozione appena nato. Specularmente a Vera c’è Cora (i nomi hanno un’assonanza un pò ridicola), la madre adottiva di Egoz (Manuel Egozkue) una donna mite e spesso preda delle sue paure.I tre sono destinati ad incontrarsi in Portogallo e dall’incontro ne usciranno cambiati.
Interessante è l’espediente stilistico di far parlare le due donne di sé attraverso un dialogo interiore a “flusso di coscienza” è così che lo spettatore apprende la loro storia, i loro pensieri, e ricostruisce nella propria testa i personaggi e le loro vicende. Anche questo rimuginio solipsistico contribuisce però ad appesantire la narrazione.
Insomma, un film con una certa ambizione (forse troppa), che mescola i generi, ma si perde nella propria costruzione artificiosa. Degna di nota la pregevole prova attoriale delle due protagoniste.
1,5/4
Yurt, (Dormitorio), 2023
Sezione: Orizzonti
Regia: Nehir Tuna
Si potrebbe definire una storia di formazione, nel senso più stretto del termine, e una grande storia di amicizia , quella raccontata nel film Yurt. L’anno è il 1997 il paese è la Turchia dove sono in aumento gli scontri tra laici e religiosi islamici a seguito dell’ascesa al potere di Ekbaran e del suo Welfare Party di forte matrice politica islamista. Un periodo nella storia Turca di grande fermento e complessità. In questo contesto il quattordicenne Ahmet (Doga Karakas) vede trasformarsi la sua vita tranquilla e agiata di giovane di una famiglia facoltosa, quando il padre, importante uomo d’affari vicino, con le sue donazioni alla scuola islamica, decide che il giovane deve andare in una Yurt, un convitto religioso, dove gli verranno impartiti i precetti e dove imparerà ad essere un buon islamico.
In questa nuova realtà, il buon carattere, l’educazione e la gentilezza del giovane lo aiutano ad integrarsi tra i suoi compagni, dividendosi tra gli insegnamenti laici impartiti al mattino a scuola e i principi islamici che si tengono al pomeriggio nella Yurt, dove il rapporto con i compagni è più duro e turbolento e nonostante il suo carattere flessibile e mite, il ragazzo è fortemente inviso anche al suo insegnante di religione.
Unico faro nella nuova vita di Ahmet è l’amicizia che stringe con Hakan (Can Bartu Aslan), anche lui anima sola ma con un’esperienza di vita che già ne governa il carattere scanzonato e disincantato e che come una sorta di Virgilio accompagna e sostiene il Ahmet nel suo “inferno dantesco” e lo traghetta nel mondo adulto.
In ogni processo di evoluzione e/o affrancamento, è inevitabile il momento della ribellione, e le sue conseguenze, come massima spinta all’affermazione individuale ed esistenziale.
Il regista, con pochi “tocchi” ben gestiti, dà anche una netta idea dei rapporti uomo-donna, marito-moglie nel mondo che rappresenta. Seppur appartenenti ad un’elìte benestante e culturalmente evoluta, la moglie ha un suo ruolo specifico che non contempla alcuna attività decisionale, al di fuori dei voleri del marito.
In questo bel film dall’affascinante fotografia in b/n, dove si mescolano lirico e onirico, echi neorealisti con prospettive e angolazioni sofisticate, il regista condensa e distilla la propria esperienza giovanile in un’ emozionante messinscena fatta di stile rigoroso e visione affettuosamente partecipata. E così ci piace pensare che in modo trasversale alle più varie latitudini, chi cerca con fatica, reprimendo i propri desideri, di uniformarsi alle aspettative, siano familiari, religiose o sociali, abbia lo sguardo nostalgico, trasognato e malinconico degli occhi di Ahmet.
2,5/4
Gli oceani sono i veri continenti, (Los océanos son los verdaderos continentes), 2023.
Sezione: Giornate degli autori
Regia: Tommaso Santambrogio
3/4
Il film è un’estensione successiva dell’omonimo cortometraggio del regista Tommaso Santambrogio, già presentato alla 76ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e rappresenta il suo esordio nel lungometraggio di finzione, un esordio sorprendente e folgorante. La collaborazione di Santambrogio con cineasti del calibro di Wim Wenders e Lav Dìaz, così come l’influenza estetica dei grandi maestri, come Yasujiro Ozu, si ritrovano nella sua opera distillati in uno stile personalissimo che fa della macchina fissa, del fuori campo e del lavoro sul suono le propria cifra stilistica. L’apparente distacco della camera fissa, a cui il regista affida la progressione narrativa, crea attraverso il rigore formale, una materia emozionante (ovunque un sentimento malinconico e nostalgico, quasi rassegnato), sottolineata da una fotografia contrastata che trasporta lo spettatore in un “coloratissimo” bianco e nero. Un bianco e nero che rende universali le storie dei cinque personaggi e fa del paesino di San Antonio de Los Banos a Cuba, un luogo-simbolo, un crocevia di storie collegate e legate dalle ferite del passato e soprattutto dalle difficoltà e dall’ incertezza del presente. Un film potente e malinconico sul ricordo, sull’attesa, sulla nostalgia, su chi parte e su chi resta; temi che la mano rigorosa del regista dirige sapientemente, scegliendo uno stile sospeso e poetico misto a una genuinità e spontaneità come solo in un paese caraibico si possono trovare. Le storie di Milagros, Edith, Alex, s’intrecciano e si alternano riannodando i fili della Storia alla contemporaneità. Il passato e il presente di Milagros vivono attraverso le lettere del marito, Edith affida il suo futuro alle sue marionette, Alex esprime l’attaccamento al suo Paese e l’intenzione di restare, raccogliendo la terra sotto un albero secolare e portandola a casa, (come se silenziosamente dicesse: - Edith tu mi lasci e te ne vai e io ti porto la terra, la terra a cui appartengo, e la poggio sul tavolo, sullo stesso piano del tuo bisogno di andartene), Frank e Alain hanno gli oggetti che trovano nelle loro scorribande tra le rovine dei palazzi abbandonati e il baseball, premonizione dell’inevitabile migrazione.
Nella messinscena si alternano dei bellissimi ed evocativi fuoricampo. Gli oceani sono i veri continenti è un film che fa della sottrazione una delle sue principali cifre stilistiche, un’opera profonda e stratificata. Ruolo importante hanno gli ambienti naturali, con la prevalenza di una natura lussureggiante accompagnata di continuo da una forte pioggia tropicale, (insistente ma inefficace a “lavare”), che come un diluvio biblico invade anche gli ambienti interni. Su un film “costruito” su inquadrature fisse, ci sono solo quattro lenti movimenti di macchina, quasi impercettibili e per questo significativi ed emozionanti, che corrispondono ad altrettanti momenti clou di presa di coscienza dei protagonisti. E l’ultimo movimento è un totale in cui tutti e cinque i personaggi si ritrovano contemporaneamente, in un luogo tanto significativo quanto metaforico (la stazione dei treni), ognuno è assorto nei propri pensieri, qualcuno resta, qualcuno parte, qualcuno attende, e la camera che lentissimamente si allontana dalla scena.
Tanti sono gli omaggi metacinematografici, di questo lungometraggio, uno dei più toccanti e suggestivi è la sequenza in cui Alex e Edith arrivano in un cinema abbandonato e in rovina e Alex comincia a parlare di Nicolás Guillén Landrián e a descrivere in modo buffo e caricaturale una scena di uno dei documentari del grande regista. Un modo per ricordare una personalità di grande spicco del cinema Cubano degli anni ‘60 e ‘70, dimenticato e osteggiato in patria
Questo ci dà lo spunto per parlare brevemente del documentario del regista cubano Ernesto Daranas Serrano, presentato nella sezione Venezia Classici, intitolato proprio Landrián, in omaggio al regista.
Il film ricostruisce la storia personale e professionale del primo regista nero di Cuba, appunto Nicolás Guillén Landrián. Talentuoso, con un carattere talvolta spavaldo e uno stile, libero e avanguardista, non mise molto a farsi notare dalle autorità della Rivoluzione Cubana che videro in lui un possibile eversivo. La sua opera fu censurata e lui imprigionato in varie occasioni e per molti anni durante i quali fu sottoposto anche a internamento psichiatrico. Il regista Daranas Serrano nel 2019 si occupò del restauro dei negativi di ciò che era rimasto dell’opera di Landrián. La progressione del restauro delle pellicole fa da ossatura a questo appassionante documentario che si articola sulla vita e sull’opera di Landrián e si arricchisce attraverso le testimonianze della moglie e dei suoi collaboratori più stretti. Si compone così lentamente il quadro della vita di un regista di grande talento, che fu allievo di Joris Ivens, capace di una potenza dell’immagine superlativa e che fece principalmente documentari dall’impianto tanto realistico quanto poetico.
Lasciamo dunque alle parole di Daranas Serrano, la conclusione di questo breve excursus: – Ho guidato l’attivitaÌ€ di restauro di queste pellicole “maledette” e ho realizzato un documentario sul loro recupero. Con il mio film, spero di portare all’attenzione degli spettatori contemporanei le opere visionarie di Nicolás Guillén LandriaÌn, e allo stesso tempo di stigmatizzare le ingiustizie commesse contro di lui – .
Mirta Tealdi
Anche quest’anno, La Mostra del Cinema di Venezia, alla sua 80ª edizione, ha concentrato molte delle tematiche della sezione Orizzonti (concorso che si occupa di rappresentare le nuove tendenze cinematografiche mondiali con un occhio agli autori emergenti e alle cinematografie minori), su giovani e adulti che si confrontano con realtà complesse. Personaggi, a tutte le latitudini, che condividono dubbi, percorsi di crescita, crisi esistenziali, o si sperimentano con il magma caotico delle prime emozioni amorose, calati in narrazioni dalle messinscene volte a indagarne le traiettorie mentali, e le evoluzioni esistenziali. Lo scorso anno molte storie parlavano di eventi calati nella Storia che “toccavano” più o meno da vicino i propri personaggi, quest’anno l’attenzione è maggiormente rivolta a narrazioni contemporanee ed a tematiche meno interessate dai grandi eventi e più concentrate sulle dinamiche interiori dei protagonisti impegnati nel proprio viaggio evolutivo.
Svariati film della sezione Orizzonti quest’anno sono in b/n, come se non fosse casuale, ma il luogo di un rinnovato linguaggio, stile e senso dell’immagine cinematografica.
Ser Ser Salhi, (The City of Wind), 2023
Regia: Lkhagvadulam Purev-Ochir
Ze (il bravo Tergel Bold-Erdene, che ha vinto il premio Orizzonti come miglior attore) è un ragazzo diciassettenne che vive insieme ai genitori in una modesta abitazione in un villaggio vicino alla capitale, Ulan Bator, in Mongolia. Un ragazzo come molti, serio, studioso, vicino agli esami, timido e riservato, ma con una particolarità, Ze è anche uno sciamano che presta il proprio talento ai membri della sua comunità. In un suggestivo cerimoniale, con un pesante travestimento, coadiuvato dalla sorella, Ze entra in contatto con il suo spirito ancestrale per dare risposte ed aiutare. Per questo suo dono e per il suo essere remissivo e ubbidiente Ze viene bullizzato a scuola. L’insegnante, dura e autoritaria (che simboleggia nella sua intransigenza l’autorità della vecchia guardia), tiene la classe con piglio deciso e violento ma ha rispetto per Ze perché non ha grilli per la testa e vuole diplomarsi con il massimo dei voti e trovare un proprio futuro.
Un giorno Ze va con la madre e la sorella a prestare il suo servizio a casa di conoscenti, e qui incontra la sua riottosa cliente, la giovane Maralaa, ( Nomin-Erdene Ariunbyamba ) che deve subire un intervento importante al cuore, e che da subito (ma non osa opporsi alla madre), prova rifiuto per Ze e per le rivelazioni del suo spirito guida. Ma si sa, quando c’è un rifiuto spesso c’è un’attrazione e la visita in ospedale di Zu dopo l’intervento di Maralaa è l’occasione per iniziare una frequentazione che si trasforma presto in una storia d’amore, (Il primo amore per Ze). La turbolenta e ribelle Maralaa sconvolge il giovane e tutte le sue abitudini e certezze cominciano a vacillare, inizia a ribellarsi agli scherzi odiosi dei compagni, e si allontana per un po' pure dai suoi antenati e spiriti ancestrali coi quali, nel nuovo caos emotivo della sua vita, non riesce più a connettersi. Al massimo del suo impeto ribelle arriva a sfidare apertamente l’autorità dell’inflessibile maestra in una sequenza dal taglio scanzonato e liberatorio in cui Ze a un tempo si riconcilia col ragazzino che lo perseguita a scuola e si oppone alla violenza verbale e fisica dell’insegnante. Un percorso di crescita ed emancipazione personalissimo e come tutte le crescite anche doloroso.
Ma il caos nella vita di Ze ha una durata a tempo.
Sullo sfondo di questa delicata storia, visto attraverso lo sguardo dei giovani, c’è un paese che si affaccia alla modernità, in una società dall’incerta tensione al progresso, che è ancora fortemente radicata nelle proprie credenze e tradizioni magiche. Antico e moderno, interno ed esterno, progresso e tradizione: una sotto traccia, questa, che attraversa tutto il film e ne costituisce l’ossatura. Vi si trova condensata sia nelle ambientazioni in esterni della capitale caratterizzata dai moderni grattacieli in rapporto dialettico con le imponenti architetture, testimonianza del realismo socialista, sia nella rumorosissima e unica discoteca frequentata dai protagonisti, sia nel contrasto con gli ampi spazi naturali brulli e sterminati dove Ze si riconnette con i suoi spiriti. Antico e moderno convivono e collidono tra immensi spazi aperti e le architetture, appunto, gigantesche e anonime.
La regista utilizza un’ interessante messinscena potenziata dalla bella fotografia di Matthieu Taponier. Usa toni freddi e sfumature di grigi per rappresentare la natura, sterminata e arida, degli altopiani e delle montagne che circondano Ulan Bator (dove Ze costruisce e ricostruisce il suo rudimentale altare fatto di pietre in onore dei suoi spiriti); e toni caldi dai colori squillanti per descrivere i giovani, i loro divertimenti, le loro emozioni e ribellioni, infondendo alla storia un incanto e una freschezza genuini.
Per queste caratteristiche è un film che a tratti somiglia ad una docufiction dallo stile asciutto ma partecipativo. Una tenera storia d‘amore, di crescita ed emancipazione sullo sfondo di un paese in trasformazione, di cui Zu rappresenta il possibile trait-d’union tra modernità e presente, tradizioni e riti antichi.
2,5/4
Sobre Todo de noche, (Foremost by night), 2023
Sezione: Giornate degli autori
Regista: Victor Iriarte
“ E’ un film sulla violenza.
E’ un film sulle mani/E’ un film sulle mappe
E’ un film di strada. Un film sui sentimenti.Sentimenti sulla strada. E’ un film d’avventura. Un triste film d’avventura.
Triste ma anche luminoso.
E’ un film politico. Profondamente politico. Intimamente politico. E’ musicale. E’ coreografico.
E’ un film sulle lettere. Lettere scritte a mano. Lettere intonate ad alta voce, lettere inviate come messaggi audio.
E’ un Thriller. E’ un film noir,è un giallo. E’ un melodramma.
E’ un film che diventa un altro film, che diventa un altro film, che diventa un altro film.
E’ un film su una madre, su una madre, su suo figlio. E’ un film sulla possibilità di essere un altro.
Sulla possibilità di cambiare il destino.
Sulla possibilità di essere in due posti contemporaneamente:
Qui. E la’.
E’ un film su una ferita. Su una ferita. Su una ferita. E’ un film di fantasmi.
E’ un film su come le storie, le narrazioni, costruiscano un altro mondo possibile. Su come le storie, le narrazioni, possano trasformarci.
Su come, come quando non hai nulla, quando tutto ti è stato portato via, le storie, le narrazione, le finzioni, i film, le lettere, le voci, i ricordi, siano l’unica cosa che può salvarci.
Che può darci un po' di pace/Che può darci un posto nel mondo. E’ una canzone d’amore.” [Victor Iriarte]
Ho affidato alle parole stesse del regista, Victor Iriarte, al suo primo lungometraggio con Sobre todo de noche, presentato nella sezione Giornate degli autori, il primo impatto sul film, rappresentato molto bene nell’essenza della messinscena, da ciò che scrive l’autore. Un commento che sembra la sceneggiatura stessa del film e la cui frammentazione è esattamente quella che si percepisce nei 109’ di durata. Un episodio doloroso, si trasforma, deflagrando in mille frammenti, in un riscatto forse, una possibilità, una benedizione. Bella anche se a tratti volutamente irritante l’interpretazione della bravissima Lola Dueñas,( già apprezzata nella scorsa edizione della Mostra con la sua toccante interpretazione in: Argentina, 1985 ), affiancata da un'altra “grande” del cinema spagnolo, Ana Torrent.
Vera è un personaggio che non vuole presentarsi simpatico o “arruffianarsi” lo spettatore (e forse questo è contemporaneamente il maggior merito e il maggior limite del personaggio ), spinta da una determinazione infaticabile. Un film freddo e fisico al tempo stesso che non fa sconti di alcun tipo ma che nella sua frammentazione finisce per far perdere un po' di interesse nella storia. Un modo diverso e originale, con accenti noir e thriller, per rappresentare una combattente, una madre che non si rassegna e mette in gioco tutto per trovare suo figlio ormai quasi diciottenne dato in adozione appena nato. Specularmente a Vera c’è Cora (i nomi hanno un’assonanza un pò ridicola), la madre adottiva di Egoz (Manuel Egozkue) una donna mite e spesso preda delle sue paure.I tre sono destinati ad incontrarsi in Portogallo e dall’incontro ne usciranno cambiati.
Interessante è l’espediente stilistico di far parlare le due donne di sé attraverso un dialogo interiore a “flusso di coscienza” è così che lo spettatore apprende la loro storia, i loro pensieri, e ricostruisce nella propria testa i personaggi e le loro vicende. Anche questo rimuginio solipsistico contribuisce però ad appesantire la narrazione.
Insomma, un film con una certa ambizione (forse troppa), che mescola i generi, ma si perde nella propria costruzione artificiosa. Degna di nota la pregevole prova attoriale delle due protagoniste.
1,5/4
Yurt, (Dormitorio), 2023
Sezione: Orizzonti
Regia: Nehir Tuna
Si potrebbe definire una storia di formazione, nel senso più stretto del termine, e una grande storia di amicizia , quella raccontata nel film Yurt. L’anno è il 1997 il paese è la Turchia dove sono in aumento gli scontri tra laici e religiosi islamici a seguito dell’ascesa al potere di Ekbaran e del suo Welfare Party di forte matrice politica islamista. Un periodo nella storia Turca di grande fermento e complessità. In questo contesto il quattordicenne Ahmet (Doga Karakas) vede trasformarsi la sua vita tranquilla e agiata di giovane di una famiglia facoltosa, quando il padre, importante uomo d’affari vicino, con le sue donazioni alla scuola islamica, decide che il giovane deve andare in una Yurt, un convitto religioso, dove gli verranno impartiti i precetti e dove imparerà ad essere un buon islamico.
In questa nuova realtà, il buon carattere, l’educazione e la gentilezza del giovane lo aiutano ad integrarsi tra i suoi compagni, dividendosi tra gli insegnamenti laici impartiti al mattino a scuola e i principi islamici che si tengono al pomeriggio nella Yurt, dove il rapporto con i compagni è più duro e turbolento e nonostante il suo carattere flessibile e mite, il ragazzo è fortemente inviso anche al suo insegnante di religione.
Unico faro nella nuova vita di Ahmet è l’amicizia che stringe con Hakan (Can Bartu Aslan), anche lui anima sola ma con un’esperienza di vita che già ne governa il carattere scanzonato e disincantato e che come una sorta di Virgilio accompagna e sostiene il Ahmet nel suo “inferno dantesco” e lo traghetta nel mondo adulto.
In ogni processo di evoluzione e/o affrancamento, è inevitabile il momento della ribellione, e le sue conseguenze, come massima spinta all’affermazione individuale ed esistenziale.
Il regista, con pochi “tocchi” ben gestiti, dà anche una netta idea dei rapporti uomo-donna, marito-moglie nel mondo che rappresenta. Seppur appartenenti ad un’elìte benestante e culturalmente evoluta, la moglie ha un suo ruolo specifico che non contempla alcuna attività decisionale, al di fuori dei voleri del marito.
In questo bel film dall’affascinante fotografia in b/n, dove si mescolano lirico e onirico, echi neorealisti con prospettive e angolazioni sofisticate, il regista condensa e distilla la propria esperienza giovanile in un’ emozionante messinscena fatta di stile rigoroso e visione affettuosamente partecipata. E così ci piace pensare che in modo trasversale alle più varie latitudini, chi cerca con fatica, reprimendo i propri desideri, di uniformarsi alle aspettative, siano familiari, religiose o sociali, abbia lo sguardo nostalgico, trasognato e malinconico degli occhi di Ahmet.
2,5/4
Gli oceani sono i veri continenti, (Los océanos son los verdaderos continentes), 2023.
Sezione: Giornate degli autori
Regia: Tommaso Santambrogio
3/4
Il film è un’estensione successiva dell’omonimo cortometraggio del regista Tommaso Santambrogio, già presentato alla 76ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e rappresenta il suo esordio nel lungometraggio di finzione, un esordio sorprendente e folgorante. La collaborazione di Santambrogio con cineasti del calibro di Wim Wenders e Lav Dìaz, così come l’influenza estetica dei grandi maestri, come Yasujiro Ozu, si ritrovano nella sua opera distillati in uno stile personalissimo che fa della macchina fissa, del fuori campo e del lavoro sul suono le propria cifra stilistica. L’apparente distacco della camera fissa, a cui il regista affida la progressione narrativa, crea attraverso il rigore formale, una materia emozionante (ovunque un sentimento malinconico e nostalgico, quasi rassegnato), sottolineata da una fotografia contrastata che trasporta lo spettatore in un “coloratissimo” bianco e nero. Un bianco e nero che rende universali le storie dei cinque personaggi e fa del paesino di San Antonio de Los Banos a Cuba, un luogo-simbolo, un crocevia di storie collegate e legate dalle ferite del passato e soprattutto dalle difficoltà e dall’ incertezza del presente. Un film potente e malinconico sul ricordo, sull’attesa, sulla nostalgia, su chi parte e su chi resta; temi che la mano rigorosa del regista dirige sapientemente, scegliendo uno stile sospeso e poetico misto a una genuinità e spontaneità come solo in un paese caraibico si possono trovare. Le storie di Milagros, Edith, Alex, s’intrecciano e si alternano riannodando i fili della Storia alla contemporaneità. Il passato e il presente di Milagros vivono attraverso le lettere del marito, Edith affida il suo futuro alle sue marionette, Alex esprime l’attaccamento al suo Paese e l’intenzione di restare, raccogliendo la terra sotto un albero secolare e portandola a casa, (come se silenziosamente dicesse: - Edith tu mi lasci e te ne vai e io ti porto la terra, la terra a cui appartengo, e la poggio sul tavolo, sullo stesso piano del tuo bisogno di andartene), Frank e Alain hanno gli oggetti che trovano nelle loro scorribande tra le rovine dei palazzi abbandonati e il baseball, premonizione dell’inevitabile migrazione.
Nella messinscena si alternano dei bellissimi ed evocativi fuoricampo. Gli oceani sono i veri continenti è un film che fa della sottrazione una delle sue principali cifre stilistiche, un’opera profonda e stratificata. Ruolo importante hanno gli ambienti naturali, con la prevalenza di una natura lussureggiante accompagnata di continuo da una forte pioggia tropicale, (insistente ma inefficace a “lavare”), che come un diluvio biblico invade anche gli ambienti interni. Su un film “costruito” su inquadrature fisse, ci sono solo quattro lenti movimenti di macchina, quasi impercettibili e per questo significativi ed emozionanti, che corrispondono ad altrettanti momenti clou di presa di coscienza dei protagonisti. E l’ultimo movimento è un totale in cui tutti e cinque i personaggi si ritrovano contemporaneamente, in un luogo tanto significativo quanto metaforico (la stazione dei treni), ognuno è assorto nei propri pensieri, qualcuno resta, qualcuno parte, qualcuno attende, e la camera che lentissimamente si allontana dalla scena.
Tanti sono gli omaggi metacinematografici, di questo lungometraggio, uno dei più toccanti e suggestivi è la sequenza in cui Alex e Edith arrivano in un cinema abbandonato e in rovina e Alex comincia a parlare di Nicolás Guillén Landrián e a descrivere in modo buffo e caricaturale una scena di uno dei documentari del grande regista. Un modo per ricordare una personalità di grande spicco del cinema Cubano degli anni ‘60 e ‘70, dimenticato e osteggiato in patria
Questo ci dà lo spunto per parlare brevemente del documentario del regista cubano Ernesto Daranas Serrano, presentato nella sezione Venezia Classici, intitolato proprio Landrián, in omaggio al regista.
Il film ricostruisce la storia personale e professionale del primo regista nero di Cuba, appunto Nicolás Guillén Landrián. Talentuoso, con un carattere talvolta spavaldo e uno stile, libero e avanguardista, non mise molto a farsi notare dalle autorità della Rivoluzione Cubana che videro in lui un possibile eversivo. La sua opera fu censurata e lui imprigionato in varie occasioni e per molti anni durante i quali fu sottoposto anche a internamento psichiatrico. Il regista Daranas Serrano nel 2019 si occupò del restauro dei negativi di ciò che era rimasto dell’opera di Landrián. La progressione del restauro delle pellicole fa da ossatura a questo appassionante documentario che si articola sulla vita e sull’opera di Landrián e si arricchisce attraverso le testimonianze della moglie e dei suoi collaboratori più stretti. Si compone così lentamente il quadro della vita di un regista di grande talento, che fu allievo di Joris Ivens, capace di una potenza dell’immagine superlativa e che fece principalmente documentari dall’impianto tanto realistico quanto poetico.
Lasciamo dunque alle parole di Daranas Serrano, la conclusione di questo breve excursus: – Ho guidato l’attivitaÌ€ di restauro di queste pellicole “maledette” e ho realizzato un documentario sul loro recupero. Con il mio film, spero di portare all’attenzione degli spettatori contemporanei le opere visionarie di Nicolás Guillén LandriaÌn, e allo stesso tempo di stigmatizzare le ingiustizie commesse contro di lui – .
Mirta Tealdi