Riceviamo e con grande piacere pubblichiamo questa analisi di Noah Zoratti su Synecdoche, New York di Charlie Kaufman.
Nel cinema di Charlie Kaufman, il soggetto non è mai un’entità stabile: è una maschera, una proiezione,
un’illusione destinata a sgretolarsi, soprattutto quando messa alla prova dai codici del genere.
Essere John Malkovich (1999), scritto da Kaufman e diretto da Spike Jonze, affronta il tema della
transizione e del desiderio di abitare un corpo altro, attraverso la moglie del protagonista, che riconosce la
propria identità trans dopo aver vissuto, letteralmente, nella pelle di un altro uomo. Anche il protagonista
manifesta un desiderio latente di assumere il corpo e l’identità della collega Maxine.
La tensione tra identità e rappresentazione, tra corpo e desiderio, si intensifica nel romanzo Antkind
(2020), in cui il protagonista B. Rosenberger Rosenberg critico fallito ossessionato da un film distrutto
che solo lui ha visto, si disintegra in un labirinto di simulazioni, maschere culturali e deliri egocentrici,
perdendo sé stesso nel tentativo impossibile di ricostruire un'opera che non esiste più.
In Synecdoche, New York (2008), esordio registico di Kaufman, questa riflessione raggiunge un livello
ancora più profondo. Il protagonista, Caden Cotard, è un regista teatrale in piena crisi: personale, artistica
e, soprattutto, identitaria. Marito e padre solo formalmente, Caden non riesce a incarnare pienamente né il
ruolo paterno né quello coniugale. La routine iniziale del film lo mostra incapace di rispondere alle
richieste della vita quotidiana: si sveglia tardi, ignora il telefono, lascia che sia la moglie Adele a gestire
figlia e incombenze domestiche. La bambina ha le feci verdi, ma è Caden a proclamarsi malato: la
centralità del suo malessere fagocita ogni altra narrazione. Il suo disagio non è solo psicologico: è
corporeo, somatico, performativo.
La relazione con Adele è completamente deteriorata: tra i due non c’è più amore, intimità o
comunicazione. Quando lei lo lascia per una donna, Maria, Caden non riesce a elaborare una risposta che
non passi attraverso la propria auto-commiserazione. Incapace di riconoscere la propria responsabilità
nella fine del matrimonio, si convince di essere biologicamente guasto.
In Undoing Gender, Judith Butler sostiene che la malattia e la disabilità possano minare la performance di
genere: quando il corpo maschile non è più forte, integro, resiliente, l’identità entra in crisi perché non è
più agibile secondo i codici della mascolinità egemonica. Caden sembra aderire a questa logica al
contrario: non subisce la malattia, ma sembra desiderarla, come se nel deterioramento del corpo trovasse
la conferma simbolica della sua inadeguatezza.
La percezione di un’alterazione fisiologica si concentra ossessivamente sul proprio organo genitale: In
una visita medica scambia la parola “neurologo” con “urologo”. Con pudore quasi infantile, si rifiuta di
urinare davanti a un idraulico. Anche le situazioni più quotidiane diventano messinscena del proprio
disagio: l’operatore del 911 lo scambia per una donna, la moglie gli dice che “puzza come se stesse
mestruando”, e lui stesso arriva ad accettare di farsi chiamare “Ellen” per mettersi in contatto con Adele.
Il film costruisce una mappa ossessiva delle dissonanze tra corpo, identità e genere.
In uno dei momenti più intimi del film, osservando una donna nuda, Caden confessa: «Sometimes I wish I
could be pretty like that». Alla domanda se voglia essere una donna, risponde: «Sometimes I think I might
have been better at it». Non desidera essere una donna nel senso incarnato o politico del termine. Desidera
essere l’idea di donna, bella, desiderabile, femminile, così come costruita dalle stesse simulazioni
culturali che hanno distrutto anche la sua immagine di mascolinità. Caden si rapporta al genere solo
tramite la simulazione. Non è un uomo, ma un uomo che interpreta il ruolo dell’uomo e fallisce. Non
desidera essere una donna, ma entrare nella performance della femminilità come via di fuga.
In questo senso, la crisi di Caden si iscrive nel quadro della mascolinità egemonica così come descritta da
R. W. Connell: una configurazione culturale basata su forza, autonomia, controllo. Caden è l'antitesi di
questo modello: è fragile, passivo, subordinato. Quando perde il ruolo coniugale e paterno, cerca un
nuovo centro di gravità nella creazione di un’opera monumentale: una simulazione teatrale della propria
vita in scala reale, allestita all'interno di un enorme hangar nel cuore di New York.
Questo dispositivo scenico è un tentativo disperato di ordinare la propria disgregazione e di sottrarsi alla
morte simbolica del maschile. Il teatro diventa un surrogato di ciò a cui non ha più accesso nella realtà, un
luogo dove può indagare se stesso in relazione agli altri e riaffermare la propria centralità. Tutti i
personaggi e le loro azioni ruotano intorno a lui; si pone letteralmente e metaforicamente al centro del
mondo.
In questo labirinto performativo, ogni personaggio è una proiezione dei suoi desideri e fallimenti. Sammy,
l’attore che lo interpreta, è una versione più sicura, sessualmente esplicita, una mascolinità idealizzata.
Tuttavia, quando Caden tenta di riprendere il controllo sulla messa in scena, questa gli sfugge di mano; si
ritrova confinato a ruoli secondari in una narrazione che avrebbe dovuto controllare. Diventa spettatore
della propria vita.
«I was thinking of calling it Simulacrum» Jean Baudrillard, nel suo testo Simulacres et Simulation (1981),
definisce il simulacro come una copia senza originale, ovvero una rappresentazione che ha perso ogni
connessione con la realtà che dovrebbe rappresentare. Il reale è sostituito da una messa in scena del reale.
L’opera di Caden è esattamente questo: una simulazione totale, che perde ogni legame con la realtà. Non
si capisce più chi stia interpretando chi: ci sono attori che interpretano Caden, attori che interpretano le
persone che Caden conosce, attori che interpretano gli attori. È un uomo che non vive, ma mima l’atto del
vivere, sperando che il significato emerga dalla replica. Non è in grado di riconoscere l’atto naturale della
vita perché lui stesso non percepisce l’essere al di fuori del performativo e inserendosi in questo teatro, si
dissocia dal peso del suo corpo fisico per diventare lui stesso immagine e riflesso.
Il titolo stesso è un gioco di parole: synecdoche richiama foneticamente Schenectady, la zona di New York
da cui proviene Caden, ma allude anche alla figura retorica della sineddoche, ovvero l’uso di una parte per
rappresentare il tutto. Caden tenta infatti di comprendere la totalità della sua vita attraverso una
produzione teatrale che ne rappresenta solo frammenti e proprio in questa frammentarietà si manifesta
l’impossibilità di definire stabilmente il genere, la mascolinità, l’identità.
In questa struttura malinconica e vertiginosa, Kaufman costruisce un'opera impietosa sul crollo dell'io, in
cui la tensione a essere qualcun altro si intreccia fino a confondersi con la paura radicale di non essere più
nessuno.
Noah Zoratti