Specchi infranti: il corpo anormale e il cinema della percezione
16/06/2025

Nell'universo del cinema, pochi temi sanno scavare così a fondo nell'immaginario collettivo quanto quello del corpo diverso. Non si tratta solo di deformità fisiche o di aberrazioni visive, ma di un complesso intreccio tra identità, percezione sociale, empatia e paura dell'altro.

Nel buio della sala cinematografica, lo schermo si accende e la nostra percezione della bellezza, del corpo e dell'identità viene messa in discussione. Da sempre, il cinema è stato ossessionato dal volto, uno specchio dell'anima secondo un'antica sapienza, fino a trasformare il corpo (che ne diventa spesso la rappresentazione visibile) in uno specchio potente della nostra condizione umana. Ma cosa accade quando il corpo tradisce la norma? Quando il volto non corrisponde ai canoni convenzionali? Lì, in quel territorio ambiguo e perturbante, il cinema trova un fertile terreno per scavare nei recessi della natura umana.

Fin dalle sue origini, il cinema ha flirtato con il perturbante. La figura del "mostro" è stata declinata in mille forme: dal Frankenstein di James Whale (1931), paradigma della creatura rifiutata, ai freaks reali di Tod Browning; dai mutanti del body horror di Cronenberg ai volti scolpiti dal bisturi del cinema contemporaneo. L'orrore, la pietà e la fascinazione si fondono in un unico sguardo ambiguo, dove il diverso è tanto minaccia quanto possibilità di empatia. Più che raccontare il "mostro", il cinema racconta sempre la nostra reazione al suo apparire.

Tutto ebbe inizio, o meglio, trovò una delle sue espressioni più alte, con The Elephant Man (1980) di David Lynch. Basato sulla storia vera di Joseph Merrick (chiamato John nel film), l'uomo affetto da gravi deformità fisiche nella Londra vittoriana, il film non è soltanto il racconto di una vita segnata dall'emarginazione, ma una dolorosa meditazione sulla dignità umana, sullo sguardo dell'altro e sul desiderio di essere riconosciuti oltre il proprio involucro fisico. Lynch, con il suo bianco e nero sgranato e la colonna sonora quasi liturgica, costruisce un'opera di grande potenza emotiva, dove la mostruosità fisica si dissolve davanti alla nobiltà dell'anima. "Io non sono un animale! Io sono un essere umano!” grida Merrick, e quel grido risuona ancora oggi come uno degli emblemi più alti del cinema sull’identità.

Ma The Elephant Man non è stato un unicum. Il tema del corpo diverso ha continuato a percorrere il cinema, mutando forme e prospettive. Negli anni '80 e '90, pellicole come Mask di Peter Bogdanovich (1985), o più tardi Wonder (2017), hanno riportato in scena la dialettica tra la deformità fisica e il desiderio di normalità, spesso adottando un approccio più consolatorio, a tratti didascalico, rispetto alla visione più cupa e inquietante di Lynch. In questi film, la società sembra essere chiamata a redimersi, ad imparare la lezione dell'empatia e dell'accettazione.

Accanto a queste narrazioni, il cinema ha esplorato anche la fascinazione morbosa per la diversità fisica attraverso generi più estremi. Pensiamo a Freaks (1932) di Tod Browning, antesignano di tutto un filone, che già negli anni '30 metteva in scena autentici artisti circensi affetti da deformità reali. In Freaks, la linea tra attrazione e repulsione, tra umanità e mostruosità, si fa sottile, sfidando lo spettatore a riconoscere la dignità e la complessità dei cosiddetti "diversi". Il film fu scandaloso per la sua epoca, censurato e ostracizzato, ma oggi viene considerato un capolavoro di empatia disturbante.

È con l'arrivo del XXI secolo che il discorso cinematografico si fa più complesso, più stratificato. L'ossessione per il corpo e per la sua modificabilità diventa il cuore di un nuovo immaginario che va oltre la deformità naturale e si insinua nel territorio della chirurgia estetica, della transizione di genere, del body horror. Cronenberg, con la sua filmografia, da Crash (1996) a Crimes of the Future (2022), ha radicalizzato questa indagine, mostrando come il corpo sia un campo di battaglia su cui si giocano desideri, paure e mutazioni.

Anche il cinema asiatico ha dato contributi importanti: Audition (1999) di Takashi Miike, Tetsuo: The Iron Man (1989) di Shinya Tsukamoto, o più recentemente Titane (2021) di Julia Ducournau, vincitore della Palma d'Oro, in cui il corpo subisce metamorfosi estreme, divenendo veicolo di pulsioni, dolore e ricerca identitaria.

In questo solco si inserisce anche A Different Man (2024) di Aaron Schimberg, film che pare quasi una riflessione metacinematografica su tutta la tradizione che lo precede. Il protagonista, interpretato da Sebastian Stan, è un uomo affetto da neurofibromatosi che si sottopone a una drastica procedura chirurgica per cambiare il proprio aspetto e, con esso, il proprio destino. Ma il nuovo volto non è la liberazione sperata: il protagonista si ritrova a osservare un altro uomo interpretare la sua "vecchia" identità in un'opera teatrale, sprofondando in un abisso di alienazione e gelosia.

Schimberg, già autore del disturbante Chained for Life (2018), non cerca facili commozioni. Piuttosto, ci costringe a confrontarci con il nostro sguardo voyeuristico, con il nostro bisogno di categorizzare e normalizzare l'altro. In A Different Man, la diversità fisica diventa un prisma attraverso cui osservare il rapporto ambiguo tra identità, rappresentazione e desiderio di riconoscimento.

Ma perché il cinema è così attratto dal corpo diverso? Forse perché il corpo deforme, modificato, altro, rappresenta il limite estremo della nostra vulnerabilità, la paura ancestrale di essere esclusi dal consesso umano. Ma al tempo stesso è anche la promessa di una bellezza altra, inquietante e commovente, che ci obbliga a ripensare il concetto stesso di normalità.

In un'epoca in cui l'immagine è divenuta tiranna, dove i social media impongono filtri e idealizzazioni, il cinema che racconta il corpo diverso svolge una funzione quasi sovversiva. Ci ricorda che dietro ogni volto, anche il più distante dalla perfezione canonica, pulsa un'identità irriducibile, un'anima che chiede di essere vista e riconosciuta.

Così, da The Elephant Man ad A Different Man, passando per Freaks, Mask, Wonder e le inquietanti mutazioni di Cronenberg e Ducournau, il cinema ci ricorda che il vero volto dell’essere umano non è quello che vediamo, ma quello che scegliamo di riconoscere. La deformità non è un difetto da correggere, ma una lente attraverso cui interrogare il nostro desiderio di definire, controllare, accettare. In fondo, il corpo diverso non è altro che un crudele specchio in cui riflettiamo le nostre paure più antiche: il bisogno disperato di essere guardati, e insieme il terrore di essere davvero visti.


Carmen Apadula


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