È stata la serie più chiacchierata dell’estate, beatificata dai nostalgici irriducibili degli anni ’80 e al centro di riflessioni, entusiasmi e (sparute) critiche di portata non indifferente. Si tratta, naturalmente, di Stranger Things, la serie originale Netflix creata e anche diretta dai fratelli Matt e Ross Duffer, che ha fatto il suo ingresso sulla nota piattaforma di streaming on demand a partire da metà luglio focalizzando fin da subito una cospicua dose di interesse e attenzioni trasversali.
Ma dove risiede il successo della serie dei Duffer brothers? La riproduzione mimetica delle atmosfere giovanilistiche in chiave eighties, a dir poco miracolosa e cristallina, ha fatto sicuramente la sua parte, ma va detto che Stranger Things è molto di più della copia carbone, stilizzata e sottratta all’usura del tempo, di un immaginario, di un’epoca, di un modo di essere e di stare al mondo, tra corse a perdifiato in bicicletta e avventure paranormali impensabili e straordinarie, capaci di spalancare l’immaginazione di una generazione ed evocare mondi altri e complotti fantascientifici rigorosamente a misura di adolescente.

Al di là della scelta millimetrica degli attori e dei volti e della sublime capacità di strizzare l’occhio all’universo narrativo e mitopoietico dello Stephen King di Stand by me e non solo, per tacere dei mille altri riferimenti diretti (Steven Spielberg e Joe Dante su tutti), le otto puntate di Stranger Things sono infatti un distillato nostalgico che sa però andare oltre la riproduzione dello spirito del tempo attraverso una gestione sfaccettata e sorprendente della paura e della tensione. Due elementi maneggiati in maniera capillare da una messa in scena elegante e raffinata, coinvolgente e dalla perfezione in più punti quasi trasparente, in grado di coniugare l’eccezionalità della confezione e degli effetti speciali a un’inappuntabile sensibilità estetica.

Stranger Things è una serie quasi tattile, una specie di vortice spazio-temporale senza paraurti, che dietro l’illusione malinconica di immergerci nuovamente negli anni ’80 dalla porta principale, con tutto il corredo visivo e soprattutto sonoro che ne deriva, ne amplifica a dismisura l’inquieta cassa di risonanza, lavorando sulla cupezza sotterranea di ogni avventura, innamoramento e scoperta che possa dirsi tale. A contare, dunque, nella vicenda che segue la scomparsa del dodicenne Will Byers nella città di Hawkins, in Indiana, sono non tanto le comunicazioni coi walkie talkie, il gioco Dungeons & Dragons, le scene di sesso adolescenziale sulle note di Africa dei Toto o il batticuore del bacio più puro, sincero e infantile che possa esistere – quanto basta per far sdilinquire chiunque – ma il loro controcampo carico di mistero e di indecifrabilità, esemplificato dal sottofondo musicale alla John Carpenter, atto a velare ogni ricordo di ombre tutte da dirimere. L’altra faccia di una medaglia pesante e gravosa, che spesso si tramuta in un vero e proprio cappio al collo. O in un sottosopra senza via d’uscita.

C’è una netta differenza, dopotutto, tra la limpidezza di una nostalgia ottusa e solare e lo spessore di uno sguardo sul passato incantato e innamorato ma non per questo non problematico e universale, capace di proiettare sugli eighties le ansie e le contraddizioni irrisolte dei millennials di oggi, tra eccitazione e sbandamento, speranze e senso di vuoto. Nell’apparente spensieratezza di un decennio costantemente sottoposto a pulsioni revisioniste è quindi possibile scorgere i fantasmi del presente, l’eco delle hit della dark wave e dei Clash che cambiarono la vita a molti ma anche le molte lettere mancanti di un alfabeto sentimentale sgranato e non del tutto a fuoco, che non abbiamo ancora smesso di riordinare e della cui incompiutezza fatichiamo ancora adesso a venire a capo. Scendendo a patti con le più strane cose di oggi e di ieri, viene da sperare, con tanta lucidità quanta malinconia.