Dal 20 marzo è disponibile su Netflix la miniserie The English Game, ideata da Julian Fellowes (creatore del celeberrimo Downton Abbey), Tony Charles e Oliver Cotton.
Sei episodi che riporteranno lo spettatore agli albori del calcio, a quell’età vittoriana tuttora capace di ammaliare i pensieri di sognatori e nostalgici.

La serie, ambientata a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta dell’800, ha come protagonisti Fergus Suter e Arthur Kinnaird, due pionieri di questo sport. Attorno alla rivalità tra i due calciatori orbita una serie di storyline secondarie, in parte legate alle dinamiche familiari, in parte strettamente contestualizzate al periodo storico in cui si svolge la vicenda.

Quella all’interno del rettangolo di gioco, infatti, non è l’unica partita a essere giocata (e forse nemmeno la più importante) nell’arco della serie. La lotta di classe risulta essere l’inevitabile forza motrice che muove le azioni di tutti i personaggi: da una parte troviamo i ricchi gentlemen dell’Old Etonians, campioni in carica dell’FA Cup; dall’altra la classe operaia di Darwen prima, e di Blackburn poi, che sogna di diventare la prima “squadra povera” del Regno Unito ad alzare la coppa nazionale.

Scioperi di dickensiana memoria, rivolte operaie, il ruolo della donna nella ricerca di un delicato equilibrio all’interno delle famiglie: sono queste le linee narrative che arricchiscono l’operazione, non confinandola esclusivamente al genere sportivo. Le premesse per vedere un buon prodotto ci sono tutte, a partire dall’indubbio fascino di un contesto storico come quello tardo ottocentesco, e finendo con la possibilità di incuriosire tutti gli amanti del calcio sulle origini di quest’ultimo (in che modo si è arrivati a un’omologazione del regolamento? Quali schemi e formazioni venivano impiegati all’epoca? In che modo si è passati da uno sport amatoriale a una professione retribuita?).

Purtroppo le attese vengono quasi del tutto disilluse. L’impianto tecnico non lascia certo gridare al miracolo e la fotografia, in particolar modo, ci ricorda in più occasioni di stare guardando un prodotto pensato per la televisione. Le tematiche sociali e relazionali sono trattate con superficialità e mai approfondite; manca, inoltre, la volontà di sferzare una critica tagliente a questo classismo imperante.

Nell’insieme funziona maggiormente la parte di racconto che segue le vicende della classe operaia, molto più interessante sia per caratterizzazione dei personaggi che per locations. La narrazione che abbraccia Kinnaird e i suoi ricchi compagni risulta essere eccessivamente ridondante (in particolar modo le scene delle cene, un must di ogni episodio) e le dinamiche affettive fra Arthur e la moglie rischiano di scivolare ben presto verso un’estetica similare a un melò spagnolo.

La ricostruzione storica non sembra essere fedelissima alle vicende reali (vengono confusi Blackburn Rovers e Blackburn Olympic ad esempio), pagando quindi dazio a una narrazione senz’altro romanzata. Aggiungiamo anche che purtroppo non ci vengono risparmiati i soliti cliché riguardanti il rapporto conflittuale padre-figlio. Nell’insieme un prodotto insipido, senza infamia né lode, la cui visione non lascia molto se non uno stucchevole sapore edulcorato, ma a cui va dato atto di scorrere via senza abusare eccessivamente della pazienza dello spettatore (complice l’esiguo numero di episodi).

Consigliato a chiunque abbia voglia di approcciarsi a una serie leggera e breve. L’impegno richiesto è veramente minimo e tutto sommato la narrazione è scorrevole. Consigliato anche a chi abbia voglia di calarsi nelle fascinose atmosfere dell’età vittoriana.

Simone Manciulli