Riceviamo e con piacere riportiamo l'analisi di The Substance di Michele Biocotino
Uno dei film di cui più si è parlato nell’ultimo anno è sicuramente “The Substance”, secondo lungometraggio della regista francese Coralie Fargeat in grado di alimentare un ricco dibattito attorno alla moltitudine di temi trattati e al carattere fortemente citazionista dell'opera. Il film vede come protagonista Elisabeth (Demi Moore), attrice cinematografica dalla gloriosa carriera ma ormai messa da parte da un’industria impudente nel cercare nuovi e giovani volti da sostituire alle grandi star del passato. Elisabeth, incapace di dire addio alla fama, tramite l’assunzione di una particolare sostanza riesce nel tentativo di generare una nuova versione di sè, più giovane e attraente, di nome Sue (Margaret Qualley). Il sogno hollywoodiano e la sua conseguente deriva nell’incubo, argomento più volte portato sul grande schermo da registi del calibro di Lynch e Wilder (solo per citarne alcuni), viene qui messo in scena in chiave body horror tramite una trasfigurazione dei corpi che tanto ricorda la forma delle opere di Cronenberg, allontanandosene però negli intenti metaforici. Ciò che stupisce è come, in un film dal montaggio quasi esageratamente cinetico, Fargeat sia lucidamente riuscita ad inserire citazioni e riferimenti a film e generi diversi, adattandoli coerentemente alla contemporaneità da lei rappresentata. Uno degli aspetti più interessanti dell’opera risiede nella sua capacità di plasmare l’occhio registico, variando la messa in scena di oggetti e corpi osservati in base agli scopi con cui i soggetti osservano. La cinepresa, da sempre strumento in grado di mostrare realtà soggettive diventando l’occhio di chi sceglie di guardare (Dziga Vertov partì da questo concetto per sviluppare la sua teoria del cine-occhio), diviene qui elemento tangibile all’interno della narrazione. Questo approccio registico strettamente legato al concetto di sguardo viene subito sottolineato dalla regista in una delle prime sequenze del film, dove vengono messe in scena le riprese di uno spot pubblicitario che vede Elisabeth come protagonista. L’attrice si mostra allegra e coinvolgente mentre viene girata la scena per poi spegnersi e ritirarsi nella propria tristezza una volta concluse le riprese, ed è interessante notare l’inquadratura mostrata a noi spettatori per differenziare questi due momenti: osserviamo “l’occhio” della cinepresa nel momento in cui termina la registrazione. Fargeat vuole evidenziare quanto la percezione della realtà possa cambiare nel momento in cui il mezzo cinematografico smette di guardare. All’interno della narrazione, il ruolo dell’osservatore diventa cruciale nelle scene in cui in primo piano viene collocato il corpo femminile. Nel momento in cui viene guardato da una donna questo viene messo in scena con asciutto realismo e privato di qualsiasi connotazione erotica, approccio opposto in confronto alle scene in cui sono i personaggi maschili a fare da osservatori in cui regia e montaggio assumono un dinamismo eccessivo, caricando la messa in scena di un erotismo artificiale e volutamente nauseante. Obbligando gli spettatori a vedere tramite occhi differenti, la regista mostra e condanna la tossicità dello show business e del maschilismo che lo governa. Fargeat dimostra inoltre un notevole interesse nel rappresentare la psicologia umana tramite l’estetica degli ambienti domestici e le geometrie con cui questi vengono mostrati. Gran parte della narrazione si svolge all’interno dell’appartamento in cui vive la protagonista, ambiente in cui le stanze fungono da “non-luoghi” della psiche (idea che omaggia l’approccio all’immagine cinematografica di Stanley Kubrick) in cui ogni movimento del corpo si trasforma in movimento della mente. Il bianco e asettico bagno in cui Elisabeth si scambia ripetutamente con Sue rappresenta l’inconscio della protagonista, luogo di trasformazione interiore dove porte segrete portano ad oscuri angoli della mente dove abbandonare corpi inermi come fossero ricordi indesiderati. Il bagno, luogo in cui il bianco accecante accentua paradossalmente l'oscurità che vuole rappresentare, si trova al termine di un lungo corridoio di kubrickiana memoria che funge da ponte tra il razionale e l'assurdo, il concreto e l’astratto. La stanza che però diventa fondamentale in quest’analisi è sicuramente il salotto dell’appartamento, ponendo particolare attenzione all’immensa finestra dalla quale ammirare l’intera città. Questa vetrata, la cui presenza viene più volte sottolineata dalla macchina da presa, rappresenta l’occhio della protagonista che osserva da una parte ciò che lei vorrebbe diventare per compiacere gli altri (l’immenso cartellone pubblicitario raffigurante la giovane e attraente Sue) e dall’altra come lei si vede veramente (una sua foto posta in una cornice rotta appesa ad una parete). Elizabeth cercherà più volte di sbarazzarsi di quella foto per provare a cancellare la propria ormai vecchia identità, rendendosi però presto conto che quel grande cartellone pubblicitariò rimarrà solo nello sguardo altrui, impossibile da portare nel salotto del proprio Io interiore. “The Substance” è un film ricco e stratificato in cui lo sguardo cinematografico e l’immagine che ne consegue diventano mezzo per ragionare sul presente (e non solo) dell’industria hollywoodiana, mostrando giudicante un sistema produttivo.
Michele Biocotino