“Il tempo è un cerchio piatto. Tutto quello che abbiamo fatto e faremo, lo faremo ancora e ancora e ancora†biascicava Rust Cohle in una delle sentenze più iconiche della prima stagione di True Detective. Quest’idea distorta del tempo, che nel 2014 Nic Pizzolatto voleva trasmettere attraverso i monologhi del protagonista interpretato da Matthew McCounaghey, viene oggi realizzata concretamente nella terza stagione appena conclusasi. È un concetto puramente filosofico che prende origine dalla teoria dell’eterno ritorno del tedesco Friedrich Nietzsche prima espressa ne La gaia scienza e poi approfondita in Così parlò Zarathustra.
Ma cosa c’entra tutto ciò con una serie televisiva che dovrebbe nascere come serial poliziesco? La veste più superficiale di noir è solo un pretesto per permettere al suo creatore e sceneggiatore di analizzare tutte le sfumature del complesso dedalo di emozioni dell’animo e della psicologia umana. Uno dei grandi sottotemi, infatti, è proprio la filosofia esistenzialista e nichilista che viene esplicitamente citata nei dialoghi della prima stagione attraverso una serie di sterminati riferimenti letterari, e viene tangibilmente realizzata in maniera più matura nella terza. In questi nuovi episodi non sono più i personaggi a parlare per enigmi, ma è la stessa realtà che si rivela sempre più confusa e misteriosa. Il punto di vista principale è di un unico protagonista, il detective Wayne Hays, attraverso gli occhi del quale lo spettatore vive tre momenti distanti nel tempo – il 1980, il 1990 e il 2015 – legati a un’unica indagine mai risolta. Ma siamo sicuri che le rievocazioni del passato rappresentino gli eventi proprio come sono avvenuti? Il protagonista è un narratore inattendibile: un anziano poliziotto in pensione affetto da demenza senile, i cui ricordi confusi rendono la realtà dei fatti ambigua.
Nelle puntate la linearità del tempo viene totalmente dissolta alternando senza sosta flashback e flashforward ed è proprio così che si esplicita la filosofia dell’eterno ritorno. Non esiste più una cronologia consecutiva, ma il passato, il presente e il futuro si sommano, sono un tutt’uno, il tempo si risolve in unico eterno attimo. La figura chiave è quella dell’Uroboro, ossia il serpente che si morde la coda, un cerchio piatto che nega l’esistenza di un inizio e di una fine ma che concepisce l’esistenza come eternità . Nei vari episodi vengono disseminate diverse spie che alludono chiaramente a questa teoria, tramite scene in cui non solo il protagonista pare ricordare il passato, riviverlo nella realtà , ma addirittura il se stesso del passato sembra intravedere nell’ombra il se stesso del futuro. Le tre linee narrative si dipanano tutte fino all’ultima puntata, creando un senso di incertezza nello spettatore che non sarà mai sicuro fino alla fine di cosa sia accaduto nei periodi precedenti. Questa è un’efficace strategia che obbliga chi guarda a non avere una visione d’insieme completa o eccedente rispetto a quella del protagonista, così da brancolare continuamente nel buio proprio come l’indagine mai risolta. Questa è la grande innovazione del nuovo ciclo di True Detective, in cui le complicate riflessioni della mente contorta di Pizzolatto sono portate ad un piano superiore, diventando un elemento attivo della narrazione. Il tempo non esiste e se esiste siamo condannati a rivivere innumerevoli volte la nostra vita. È filosofia? È un romanzo noir? È uno show televisivo? È tutto ciò e molto altro insieme, in un’unica opera. Così parlò Nic Pizzolatto.
di Cesare Bisantis