Riceviamo e con piacere condividiamo questa analisi di Zabriskie Point realizzata da Nausicaa Fermi.
Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni è un’opera eccentrica, radicale, difficile da contenere entro le maglie della narrazione classica. È un film visivo e sonoro e materico, che lavora più sullo spazio e sull’estetica che sulla psicologia dei personaggi, più sulla forma che sulla trama. Zabriskie Point è un dispositivo che attraversa campi diversi: filosofia, sociologia, arte contemporanea, economia, urbanistica, geologia, semiotica e psicoanalisi. Ma soprattutto non è, come si è a lungo creduto superficialmente, solo un film sulla controcultura americana, ma su una società (occidentale) che sta implodendo. Antonioni, da straniero in America, guarda questo mondo con l’occhio clinico e disincantato dell’antropologo: osserva gli spazi, i riti, i segni, i gesti. In questo senso, Zabriskie Point è un film militante e un’opera di ricerca, che interroga le condizioni di possibilità di una vera trasformazione del reale.
Mark e Daria, i protagonisti, sono archetipi di un’individualità ribelle, ma profondamente isolata. Mark è un giovane contestatore radicale, impulsivo e refrattario a ogni forma di compromesso, che rifiuta l'organizzazione politica per abbracciare un anarchismo istintivo. Daria è un’intellettuale passiva, certamente disillusa e in cerca di un senso. Il loro incontro rivela le difficoltà di stabilire legami profondi in un contesto di straniamento generalizzato. Zabriskie Point riflette sulla fragilità del movimento di contestazione giovanile. Gli studenti riuniti all'inizio discutono di rivoluzione, ma le loro parole appaiono generiche, scollegate da una teoria politica solida. Mark, che spara a un poliziotto o forse no, incarna questa ambiguità: la sua rabbia è autentica, ma non articolata. La sua fuga è più esistenziale che ideologica. Daria, invece, rappresenta una controcultura più dimessa, non meno radicale. È lei che immagina la distruzione finale, è lei che guarda il sole nell’ultima inquadratura. In un mondo dove il potere è di pochi (come dice una voce alla radio: «sette miliardari e cinquanta milioni di poveri»), ogni gesto di ribellione diventa anche un gesto di sopravvivenza.
Sin dall’inizio, il contrasto tra due spazi fondamentali – la città e il deserto – imposta la dialettica del film. La città è il luogo del rumore, del cemento, del linguaggio pubblicitario, della burocrazia, del potere; è invasa da segnali visivi e acustici che occupano lo spazio e lo trasformano in un non-luogo. Gli interni aziendali, le riunioni di manager, gli slogan pubblicitari – come quello del “Sunny Dunes”, che promette un’oasi immobiliare nel deserto– restituiscono un mondo plastificato, dove la vita è simulacro. Alcuni personaggi appaiono come corpi fuori posto, figure che stonano e rifiutano. La loro alienazione è anche spaziale: non si sentono a casa in nessun luogo. Mark ruba un aereo e si stacca letteralmente da terra, mentre Daria corre con l’auto nel deserto.
Il deserto, e in particolare la Death Valley, è una condizione mentale, un campo simbolico oltre che uno spazio liminale. Qui è dove il film cambia linguaggio. I corpi si liberano delle convenzioni, la logica si sospende, il tempo si dilata. La lunga sequenza dell’amplesso collettivo tra Mark, Daria e altri corpi che emergono dalla sabbia è un momento di sospensione antropologica, quasi mitica. È il ritorno alla terra, al pre-sociale. Un erotismo panico, dionisiaco, che in chiave psicoanalitica si rivela come una regressione necessaria per poter riemergere trasformati. In questa sequenza, Antonioni non racconta, ma dipinge. I corpi, la sabbia, il vento, la luce: tutto concorre a creare una composizione che richiama la pittura astratta, l’action painting (gli attori fanno parte dell’Open Theatre, una compagnia teatrale d’avanguardia), ma anche certe tavole di Schifano, con la loro tensione tra forma e disgregazione, tra figurazione e materia pura, con chiari riferimenti ai “paesaggi anemici”. Le costruzioni visive di Antonioni in Zabriskie Point rivelano una profonda consapevolezza artistica, evocando maestri come Mark Rothko, Alberto Burri, Mario Schifano e Giorgio Morandi, la cui influenza è colta attraverso interpretazioni visive e tematiche, anche se non sempre citate esplicitamente dal regista.
L'esplosione finale non è solo una catarsi visiva, ma l'epitome del senso di apocalisse che permea l'intero film. Non si tratta di un'apocalisse biblica, quanto piuttosto del crollo di un'illusione: quella del Sogno Americano, della controcultura come reale forza di cambiamento e della possibilità di autentica connessione in un mondo sempre più omologato. Il grandioso fuoco d'artificio di detriti e beni di consumo incarna la distruzione purificatrice, un atto radicale di rifiuto che, pur non portando a una soluzione, evidenzia la necessità di azzerare un sistema percepito come fallace. L'onda d'urto che investe lo spettatore e la colonna sonora dei Pink Floyd amplificano questa sensazione di fine imminente, non di tutto il mondo, ma di un modo di vivere, di pensare, di essere.
L’influenza di Schifano è esplicita nella tavolozza cromatica e nella frammentazione visiva, ma anche nella scelta degli oggetti che Antonioni mette in scena per poi farli esplodere. I frigoriferi, le radio, i libri, il cibo confezionato: sono oggetti-feticcio, simboli della società dei consumi che Schifano aveva già decontestualizzato e desacralizzato nelle sue pitture (basti pensare alla serie sui loghi). L’esplosione finale del film – che avviene nella mente di Daria, come fosse fantasia o desiderio? – è un atto performativo, una “destrutturazione” visiva che si ricollega alle pratiche artistiche della pop art più critica. Antonioni insiste sulla dimensione temporale: dilata la distruzione, la moltiplica da più angolazioni, la estetizza al punto da renderla sublime. Questa sequenza, in una chiave economico-politica, è la “distruzione creatrice” di cui parlava Schumpeter, necessaria per immaginare nuovi mondi dopo il collasso del vecchio.
Non meno importante è il dialogo che il film intrattiene con l’opera di Mark Rothko. Le grandi campiture monocrome di cielo e roccia, le superfici vibranti della Death Valley, i rossi, gli ocra, i bruni che si sovrappongono come veli, richiamano le tele di Rothko formalmente e nel loro intento percettivo. Antonioni costruisce un film che è esperienza, non narrazione. L'occhio del regista, come quello del pittore, si concentra sulla percezione pura del colore e della forma, trasformando il deserto in una tela pittorica dove l'uomo si perde o si fonde, generando un’esperienza contemplativa e talvolta disorientante. I silenzi, i grandi campi statici, l’assenza di dialoghi esplicativi spingono lo spettatore a entrare in uno stato meditativo, a fare esperienza dello spazio. E proprio come in Rothko, il vuoto non è privazione, ma pienezza. Non è nichilismo, ma possibilità.
La struttura narrativa del film è ellittica, aperta, frammentaria. Ci sono salti temporali, buchi logici, immagini che valgono più delle parole. È un cinema immaginifico, che rifiuta la coerenza lineare per sfociare in pura suggestione sensoriale. Questo approccio, che può ricordare le poetiche del cinema sperimentale, è portato da Antonioni su un piano di rigore plastico e visivo che lo distingue nettamente. Ogni inquadratura è pensata come un campo di forze, un luogo dove il senso non è dato, ma può emergere. E questo è il punto: Zabriskie Point non offre risposte, ma possibilità. Non costruisce un discorso ideologico, ma apre uno spazio di visione.
Alla fine, ciò che resta è il sole. Un disco incandescente che domina il cielo del deserto, di ambivalente simbolismo: può essere rinascita, ma anche energia accecante. È un’immagine ambigua, cosmologica, quasi sacra. Zabriskie Point è un film che attraverso la contestazione giovanile, il rapporto con gli spazi alienanti, le visioni apocalittiche e sequenze oniriche e simboliche, ci interroga sul disagio di un’epoca e sulla difficile ricerca di alternative in un mondo dominato dal consumismo e dalla repressione. La fuga e l’esplosione finale, lungi dall’essere atti di liberazione, appaiono come l’espressione di una profonda frustrazione e di un forte desiderio, forse ingenuo, di un’esistenza diversa.
Zabriskie Point è un luogo mentale dove distruggere significa anche immaginare. Dove l’apocalisse non è la fine, ma il necessario atto di negazione che precede ogni possibile rinascita.
Nausicaa Fermi