Un reportage dal Cinema Ritrovato
15/07/2024
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo reportage di Elia Truffelli dal Cinema Ritrovato.
Cos’è esattamente la Tradizione se non un atto di fede? Sia nel pubblico che nel privato, la Tradizione ci aiuta a fissare punti inamovibili nel caos del tempo, passato e futuro.
Certezze incontestabili, porti sicuri nel mare della nostra memoria. È importante conoscere bene il tipo di impegno che richiede: una dedizione instancabile.
Le Tradizioni di una persona ci rivelano quello in cui essa crede, la sua vera identità.
Partendo da questa premessa mi accingo a parlarvi di quella che è stata la mia esperienza nel celebrare quest’anno una delle tradizioni a me più care: il Cinema Ritrovato.
Il Festival del Cinema Ritrovato di Bologna è giunto alla sua 38° edizione.
Il successo e la longevità del festival sono frutto di un pubblico fedele e sempre più vasto. Quest’anno in particolare sono stati registrati numeri record di affluenza: 130 mila spettatori provenienti da tutto il mondo. Tra questi, fortunatamente, c’ero anche io.
In continuità con le ultime edizioni, il festival di quest’anno era diviso in tre grandi sezioni: il paradiso dei cinefili, la macchina del tempo e la macchina dello spazio.
Il paradiso dei cinefili comprendeva una serie di importanti restauri come il NapoleĚon di Abel Gance, di cui è stata mostrata solo la prima parte, Sentieri Selvaggi (The Searchers) di John Ford e Intrigo internazionale (North by Northwest) di Alfred Hitchcock, giusto per citare i titoli più noti. Vi erano poi 4 retrospettive dedicate a Anatole Litvak, Marlene Dietrich, Pietro Germi e Delphine Seyrig: una grande varietà di film tratti dalle loro folgoranti carriere cinematografiche. Il tutto era concluso da una piccola parentesi dedicata ai colori nel cinema a passo ridotto: tutti quei formati inferiori al 35mm, a partire dagli anni 20 in avanti.
La macchina del tempo si sviluppava in tre parti distinte: il secolo del cinema, cento anni fa e documenti e documentari. Le prime due sezioni comprendevano una serie di opere cinematografiche, di finzione e non, appartenenti agli anni 1904 e 1924; l’ultima sezione era una vasta raccolta di film documentaristici dedicati alla storia del cinema.
Per concludere, la macchina dello spazio comprendeva numerosi segmenti tra cui: ParadzĚŚanov 1954-1966: rapsodia ucraina (tutti i film che il leggendario regista Sergej ParadzĚŚanov ha diretto durante il suo periodo di permanenza in Ucraina), Kozaburo yoshimura, tracce di modernitaĚ€ (una vasta raccolta di drammi del cinema classico giapponese), Dark Heimat (una selezione di film poco conosciuti realizzati tra Germania e Austria nell’immediato secondo dopo guerra), Cinemalibero (diversi film provenienti dal Sud America, dall’Africa e più generalmente dall’oriente) e infine Gustaf Molander, il regista delle attrici (una retrospettiva del celebre regista svedese).
Ad accompagnare il già ricchissimo programma vi erano inoltre altre sezioni indipendenti come il Cinema Ritrovato Kids e Young, che presentava principalmente film di animazione; Lezioni di cinema, una serie di incontri con alcuni degli autori e protagonisti del festival come Wim Wenders, Alexander Payne e Costa-Gavras; e infine un vasto numero di mostre e conferenze.
Per evitare di perdere la rotta in questo burrascoso mare di cinema o peggio, annegare in un numero indescrivibile di immagini in movimento, era dunque necessario tracciare una mappa. Una rotta da seguire attraverso oceani di pellicola, passando per floride isole ricche di storie e personaggi.
Ogni spettatore del Cinema Ritrovato insegue una determinata meta e, poiché le vie del cinema sono infinite, è quasi impossibile percorrere strade uguali tra loro.
La mia navigazione è iniziata la mattina di lunedì 24 giugno. Una giornata stranamente fresca rispetto agli standard degli anni precedenti. Il Cinema Ritrovato si svolge normalmente tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, un periodo dell’anno che può diventare particolarmente caldo, soprattutto a Bologna.
Felice di aver trovato un clima mite inaspettato, dopo aver ritirato il mio accredito con la tradizionale sacchetta di tela, presso l’info point del festival al Cinema Lumière, mi imbarco per l’ennesima avventura cinemarinaresca. Nel giro di pochi minuti sono seduto davanti al grande schermo del Cinema Arlecchino, il mio preferito a Bologna, pronto a sbarcare sulla prima splendida isola popolata da immagini inedite.
Die Frau, nach der man sich sehnt (1929) di Curtis Bernhardt, tradotto La donna che si desidera, titolo italiano Enigma, è un film muto che presenta tra i suoi principali interpreti una giovane e bellissima Marlene Dietrich, agli inizi di una leggendaria carriera attoriale. Il film presenta vaghi richiami al cinema espressionista tedesco: una splendida fotografia cupa che viene superata in bellezza solo dalla comparsa di Marlene. Un esordio da protagonista folgorante, quasi profetico, che ci introduce già all’iconico look dell’attrice.
Un giovane appena sposato sta per imbarcarsi su un treno insieme alla sua fresca sposina quando la tenda di un finestrino si alza all’improvviso e dietro il vetro compaiono gli occhi magnetici di Marlene Dietrich. La trama è sostanzialmente questa: il povero ragazzo rimarrà stregato dalla bellissima sconosciuta fino a dividere con lei i drammi di una relazione ai limiti della legalità. Ieri come oggi basta l’accenno di uno sguardo appassionato per farci perdere la ragione e abbandonare la retta via. Quando Marlene esce dallo scompartimento del suo vagone e, molto furbamente, fa finta di non aver di che accendere la sua sigaretta, attraendo fatalmente a sé il giovane ingenuo, il pubblico in sala, me incluso, non può che sorridere di gusto e lasciare che il dramma faccia il suo corso.
Il mio viaggio inizia nel migliore dei modi. Un navigatore esperto sa bene da dove partire per tracciare la rotta. La prima giornata del festival serve da riscaldamento: a chiunque volesse partecipare consiglio di evitare una scorpacciata di film immediata. Bisogna lasciare che gli occhi si abituino. I film vanno visti con la massima attenzione e ciò richiede uno sforzo notevole che però, vi assicuro, viene ampiamente ripagato.
Prima di recarmi verso casa e ricaricare le pile, in vista della prossima giornata, ho ancora un film da vedere: Yoru no kawa (1956) di Kozaburo Yoshimura, tradotto Fiume notturno.
Da quando frequento il festival è sempre esistita una rassegna dedicata ai registi poco noti del cinema classico giapponese. Durante gli anni passati mi è capitato di vedere capolavori nascosti ma anche melodrammi di difficile digestione. Yoru no kawa sta a metà di queste due categorie.
Nel Giappone degli anni 50, la vita di una giovane lavoratrice di successo è tormentata da un dramma insopportabile: l’assenza di amore. I bellissimi e coloratissimi kimono tradizionali che produce, venduti in lungo e in largo, non servono minimamente a distrarla dalla continua e angosciante ricerca di un uomo da sposare. Dopo tanti sacrifici la fortuna sembra finalmente girare a suo favore ma il tanto agognato partito si rivelerà essere un padre di famiglia infedele e insensibile. Il tema della solitudine in questo film viene presentato con un cinismo unico nel suo genere; i tramonti, fotografati della pellicola a colori, sono quadri di assoluta bellezza. Le silhouette dei due amanti, nella camera d’albergo in cui avvengono gli incontri illeciti, mi fanno cadere in un vortice di piacere estetizzante.
Nonostante qualche momento poco entusiasmante, terminato il film posso constatare con piacere che la mia navigazione procede senza intoppi. Sono impaziente di sbarcare sulla prossima isola cinematografica.
La giornata successiva inizia con il botto! Alle nove del mattino sono già operativo. Nella sala Scorsese, al cinema Lumière, proiettano Golden Eighties (1986) di Chantal Akerman.
Un chiassoso musical, per giunta francese. Chi non è pratico di cinema potrebbe soffrire particolarmente questo tipo di esperienza, durante ore così delicate del mattino. Il film in realtà è molto divertente: si tratta di una parodizzazione del capitalismo, tanto spietato da trasformare perfino l’amore in qualcosa da vendere ma soprattutto da comprare (non chiedendosi se è ciò di cui abbiamo veramente bisogno). Alcune canzoni del film sono fantastiche e vorrei riascoltarle subito ma scopro che la colonna sonora non è mai stata pubblicata.
Concludo la mattinata dirigendomi al Cinema Modernissimo, una sala storica situata sottoterra, al centro di Bologna, restaurata da poco meno di un anno. Il film che mi aspetta è Andriješ (1953) di Sergej ParadzĚŚano, una banale favola sovietica slavata dalla poetica regia del leggendario regista armeno. Per qualche istante mi sembra di tornare bambino: quando sul televisore dei miei nonni, durante l’estate, mi capitava di vedere cartoni animati dell’Est Europa (La Regina delle Nevi). La storia è molto ingenua ma le immagini rimangono impresse nella mente, come per esempio quella in cui il giovane protagonista del film si trova a parlare con un albero morente, il cui spirito appartiene a un antico guerriero.
Al termine di Andriješ vengono proiettati alcuni cortometraggi che ParadzĚŚano ha realizzato per la Dumka: il coro di stato ucraino. L’estetica sovietica e le voci celestiali del coro, unite ai lunghi carrelli e movimenti di crane scelti da ParadzĚŚano, sono una testimonianza inestimabile di tempi e luoghi che sembrano provenire da un altro mondo.
Dopo mezz’ora di canti folcloristici ucraini ho bisogno di mangiare qualcosa o sarò presto vittima di uno svenimento trascendentale. Il pomeriggio riparte con Die seltsame Geschichte des Brandner Kaspar (1949) di Josef von Báky, tradotto La strana storia di Brandner Kaspar. Tra tutti i film del ciclo Dark Heimat ho scelto proprio questo perchè mette in scena un’esperienza post mortem. La mia passione per i film che presentano questa specifica tematica nasce da Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman e A Matter of Life and Death di Powell e Pressburger. Die seltsame Geschichte des Brandner Kaspar non è certo allo stesso livello di questi due capolavori però ha in sé alcuni particolari amabili come l’interpretazione di Carl Wery, il protagonista del film, e la rappresentazione del paradiso, che ci viene mostrato come una sala d’aspetto in stile barocco dove lavora un anziano pasticcione (San Pietro) circondato da numerosissimi angioletti bambini.
La seconda giornata si conclude con un film che avevo timore di perdere a causa di una svista nella programmazione del festival: Blues in the Night (1941) di Anatole Litvak.
Stranamente, questo è il primo film americano che vedo dall’inizio del festival. Di solito i tentacoli della Gold Hollywood mi rapiscono fin dal primo giorno.
Blues in the Night è il titolo di un brano famosissimo (parte della colonna sonora del film), portato al successo, tra gli altri, dalle voci strabilianti di Cab Calloway e Duke Ellington. In un breve filmato che viene proiettato prima dei titoli di testa, si vede proprio Duke Ellington cantare Blues in the Night, accompagnato dalla sua band.
Oltre alla musica, il film presenta anche fantastiche sequenze di montage cinematografico. Nella Gold Hollywood questo espediente era spesso usato per rappresentare il passaggio di lunghi periodi di tempo tra una scena e l’altra.
Devo ammettere che i due montage presenti in questa pellicola sono forse i più belli che abbia mai visto. Il primo ritrae un processo di apprendimento che termina in modo fallimentare, il secondo ci accompagna nell’improvvisa nevrosi che colpisce uno dei protagonisti del film.
Quattro storie, quattro isole completamente diverse. La mia navigazione procede senza intoppi o sintomi di mal di mare. Avevo timore che quattro film fossero troppi ma devo ammettere che mi sarebbe veramente dispiaciuto perdere una di queste fantastiche pellicole.
Terzo giorno. Scorgo un nuovo film hollywoodiano all’orizzonte. Stavolta è il turno di The Snake Pit (1948), l’opera più famosa di Anatole Litvak, titolo italiano La fossa dei serpenti.
The Snake Pit è una delle interpretazioni più memorabili della bravissima Olivia de Havilland. Anche in questo caso assisto all’ennesima prova impeccabile dei leggendari studios americani ma per quanto i dialoghi e le scene siano scritti con grande maestria, si riesce a percepire facilmente che la storia è tratta da un libro. Ho idea che i pensieri di una donna affetta da disturbi mentali possano trovare molto più spazio e vita nelle parole di un romanzo piuttosto che nelle immagini di un film, specialmente se hollywoodiano. A The Snake Pit c’è da riconoscere il merito di aver raccontato una realtà poco conosciuta (la vita all’interno dei manicomi) ad un vasto pubblico, senza inciampare negli stereotipi del tempo.
Una visita inaspettata mi impedisce di andare allo spettacolo delle quattro di pomeriggio. Faccio una rapida sostituzione e riesco lo stesso a vedere un breve film. Una deviazione di rotta verso un’isola ignota.
La fortuna gira dalla mia parte poiché ho il piacere di vedere On the Bowary (1956) di Lionel Rogosin. Nonostante il documentario presenti un lieve filtro di messa in scena, riesco ugualmente a immergermi per le strade Manhattan, circondato da homeless e alcolizzati, perso nella dark side dell’american dream.
Il figlio del regista racconta un aneddoto interessante: alla premiere del documentario, presentato al Festival del Cinema di Venezia, l’ambasciatore americano scelse volontariamente di non salutare Lionel Rogosin poiché il film metteva in luce tutto quello che gli Stati Uniti stavano cercando di nascondere. L’altra faccia del capitalismo: una società individualista dove i perdenti venivano abbandonati a loro stessi.
Sono felice di aver cambiato rotta per una breve sosta inaspettata, ora però torno a seguire l’ago della mia bussola e mi accomodo nelle avvolgenti poltrone del cinema Jolly per gustarmi Chijo (1957), il secondo film di Kozaburo Yoshimura.
I due film di Yoshimura che ho scelto di vedere si differenziano dagli altri poiché sono gli unici a colori. Una scelta non casuale se penso al fascino estetico di queste pellicole: le loro tinte così vivide e sature conferiscono alle scenografie e agli interpreti una vitalità eccezionale. Un valore aggiunto rispetto al bianco e nero degli altri film.
La città di Kanazawa, detta la piccola Kyoto, rivive in tutto il suo splendore davanti ai miei occhi. La storia di Heiichiro, il protagonista del film, si svolge in un piccolo centro abitato rimasto intatto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Lo splendore fuori dal comune di case e vie rimaste ferme nel tempo viene racchiuso in quadri di notevole pregio compositivo. Il fascino delle giovani ragazze giapponesi che affiancano Heiichiro per tutta la durata del film buca lo schermo. Riesco a vestire con estrema facilità i panni del ragazzo, innamorato di una giovane che non può avere e arrabbiato nei confronti di una società che non può combattere: il Giappone del periodo Taisho (1912-26). L’industrializzazione, lo scontro tra classi e gli scioperi violentemente repressi sono lo sfondo perfetto per un dramma coming of age più unico che raro.
Nonostante gli sforzi sovrumani compiuti per riuscire a leggere i sottotitoli del film, coperti dalla testa di uno spettatore più alto del normale, Chijo si rivela essere uno dei film più interessanti del festival.
Mi riposo per qualche istante a casa prima di tornare operativo: stasera vado a vedere per la prima volta un film in Piazza Maggiore, lo schermo più grande del Cinema Ritrovato.
Vedere un film in Piazza Maggiore è sempre un’emozione unica. Più di duemila persone si ritrovano nella vastissima piazza antistante alla Basilica di San Petronio per vedere insieme i film proposti dalla cineteca di Bologna.
Qualche anno fa proiettarono Apocalypse Now di Francis Ford Coppola; ricordo che l’esperienza mi fece un certo effetto. Vedere così tante persone radunate in un unico luogo, in silenzio, mi diede l’impressione di assistere a un momento sacrale, al pari di una messa.
È durante proiezioni di questo tipo che si percepisce visibilmente l’enorme potere del Cinema, che nonostante la sua giovane età è riuscito a diventare parte della nostra vita in modo quasi essenziale. Come molti prima di me hanno detto: il Cinema è uno specchio per vedere sé stessi.
Il film che sta per iniziare è un perfetto esempio di ciò. La visita (1963) di Antonio Pietrangeli è il ritratto fantastico di un'Italia che non esiste più ma che noi tutti conosciamo. Sentire dietro di me un piccolo gruppo di ragazze francesi ridere a crepapelle per le battute di un film così particolare e profondamente radicato nella cultura del mio paese mi riempie di orgoglio. Le commedie italiane degli anni 50 e 60 rappresentano un apice di scrittura per il cinema. Crude e scaltre, divertenti ma reali. Antonio Pietrangeli, Ruggero Maccari ed Ettore Scola, gli autori della sceneggiatura, si dimostrano ancora una volta profondi conoscitori della società di quel tempo e attenti osservatori dei personaggi che popolano la vita di tutti i giorni. Pina, la protagonista del film, interpretata da Sandra Milo, è una donna di circa trent’anni che vive nella provincia di Ferrara e lavora al consorzio agrario. Il suo aspetto caratteristico, i suoi pensieri e i suoi bisogni semplici, come la campagna che la circonda, sono un esempio concreto della sorprendente capacità ritrattistica citata poco fa.
Il film parla sostanzialmente della solitudine, inevitabile e spietata, di cui sono vittime i due protagonisti: un uomo e una donna che si incontrano grazie ad un annuncio sul giornale.
Il breve incontro, durante un assolato pomeriggio domenicale sulle rive del Po, sarà la piccola isola in cui i due personaggi troveranno un po' di ristoro e comprensione prima di rituffarsi nel mare di assoluta solitudine che la vita gli prospetta.
Un film pensato con tanta maestria, capace di portare dalla risata all’amarezza in un secondo. Dopo l’ennesima scenetta divertente mi ritrovo senza preavviso a condividere con i protagonisti le più strazianti angosce esistenziali: la paura di rimanere soli nel mondo, il timore di non potersi aprire con il prossimo, chiusi in un guscio protettivo che non permette alla vita di filtrare.
La visita è il film più bello di questa edizione del Cinema Ritrovato. L’ennesimo capolavoro nascosto tra la moltitudine di titoli che hanno reso grande il cinema italiano durante quel magico periodo di rinascita culturale che il nostro paese ha vissuto negli anni del secondo dopoguerra.
Vado a dormire con un sorriso stampato in volto: il festival non mi ha mai tradito, ogni anno mi sacrifico per poter venire a Bologna e vengo puntualmente ripagato. Questo è senz’altro il paradiso dei cinefili.
Ha inizio l’ultimo giorno. Gli impegni della vita tornano lentamente a fare capolino nella mia testa mentre cerco di godermi i pochi film che rimangono sul tragitto della mia navigazione.
Non posso andar via senza aver visto almeno un film western: il mio genere preferito.
Al cinema Arlecchino mi aspetta Pat Garrett and Billy the Kid (1973) di Sam Peckinpah, uno dei grandi maestri del cinema western americano. Il cinemascope è fantastico, soprattutto in questa sala. Sono immerso nel film come se indossassi un visore di virtual reality. Sono nel far west di Sam Peckinpah: un universo estremamente anticonvenzionale e rivoluzionario. Ne è una testimonianza Bob Dylan, che ha composto la colonna sonora del film e vi recita dentro vestendo i panni di un pistolero. La celebre canzone Knockin’ on Heaven’s Door è uno dei tanti brani del film. La storia parla di un mondo libero e senza regole, la frontiera americana, imbrigliato dalla modernità, ovvero i tempi che cambiano. Due amici fuorilegge si ritrovano agli opposti di questa trasformazione: Pat Garret e il suo amico Billy the Kid sono diventati rispettivamente uno sceriffo a servizio dei grandi proprietari terrieri e un fuorilegge che deve essere domato quindi represso.
Lo scontro tra i due diventa lo scontro tra società e individuo, tra presente e passato.
Il giovane e ribelle Billy the Kid ha già perso in partenza ma non può fare a meno di combattere andando incontro al suo inevitabile destino. È la fine di un’America libera e senza confini, il tramonto di un'epoca popolata da leggende e miti.
Il western di fine anni 60 ci pone molto spesso davanti a questi temi, raccontati sotto forma di favola. È una fase del genere che vede in Sam Peckinpah e Sergio Leone i suoi maggiori esponenti.
L’ultimo sparo del film segna il termine della mattina. Con le note di David Bowie ancora in testa mi reco a mangiare qualcosa.
Torno al cinema Arlecchino per gustarmi un’altra fantastica opera in cinemascope, stavolta in bianco e nero. Si tratta del capolavoro compositivo di Miklós Jancsó: Szegénylégenyek (1965), titolo italiano I disperati di Sandór. Uno dei primi riferimenti che mi viene in mente guardando questo film è Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
In realtà i due lungometraggi presentano molte differenze ma c’è un’idea alla base che secondo me è molto simile. Si tratta di una storia che prevede un'unica location in cui un determinato gruppo di persone viene rinchiuso e torturato da un altro gruppo di persone senza che vi sia un esatto fine se non quello di perpetrare nel tempo violenza e odio. Nel film di Pasolini si trattava gerarchi fascisti che rinchiudevano i figli delle famiglie antifasciste in una villa vicina a Salò mentre in quello di Jancsó sono i simpatizzanti dell’Impero Austriaco che rinchiudono in un forte i rivoluzionari ungheresi del 1948 (la primavera dei popoli). Se poi vogliamo essere più precisi, la storia di Jancsó non è altro che una metafora dell’Unione Sovietica: il regime che all’epoca di realizzazione del film opprimeva l'Ungheria.
Entrambi i lungometraggi richiedono uno sforzo non comune: le torture fisiche e psicologiche inscenate, rappresentate con estrema veridicità, si traducono in un ritmo lento, costante e spietato. Quello che ne risulta è un'esperienza cinematografica estenuante. Nel film di Jancsó vi sono inoltre campi lunghi e lunghissimi tra i più belli che abbia mai visto; una rappresentazione visiva esteticamente magnifica che si potrebbe ammirare per ore e ore.
Dopo aver terminato con molta fatica Szegénylégenyek, corro verso il cinema Jolly per vedere l’ultimo film del mio programma. Si tratta di The Long Night (1947) di Anatole Litvak, titolo italiano La disperata notte.
Fin dalle prime immagini mi accorgo che The Long Night è in realtà il remake di Alba tragica, di Marcel Carné, una storia che amo profondamente. Ne rimango deluso ma più il film va avanti, più sono curioso di vedere in che modo il racconto francese verrà messo in scena dagli studios hollywoodiani. Henry Fonda come protagonista è ovviamente una scelta perfetta, così come Vincent Price nei panni dell’odioso antagonista; anche l’esordiente Barbara Bel Geddes risulta azzeccata per il ruolo della ragazza ingenua, innocente e tanto carina da far sprofondare un uomo nella disperazione più nera. Tutto procede molto bene, le scenografie non deludono e nemmeno lo script. Dato che si tratta di un film hollywoodiano ipotizzo già che il finale verrà cambiato ma rimango comunque appeso ad un filo e provo lo stesso molta tensione per le sorti dello sfortunato protagonista. Finalmente si arriva alle ultime scene e, proprio come pensavo, viene scelto un lieto fine, ma a che prezzo… La sceneggiatura si sfalda completamente, i dialoghi diventano strani e appiccicosi, una nota scordata termina la bellissima musica che avevo ammirato fino a qualche secondo prima. Il pasticcio è ormai fatto: questo lieto fine proprio non va. I pochi applausi frettolosi che seguono alla scritta the end ne sono una conferma. Un vero peccato, sono deluso ma non ne faccio un dramma. Il mio viaggio all’interno del festival è terminato, corro verso la stazione degli autobus per lasciare Bologna. I miei pensieri vanno a tutti i film che ho visto durante questa edizione del Cinema Ritrovato, un flusso di immagini senza fine.
Ogni tanto, nel buio della sala, capita che il caldo e la stanchezza giochino strani scherzi. Le palpebre si socchiudono per pochi istanti in un dormiveglia confuso. Succede a tutti, senza eccezioni. La mente inizia a vagare tra pensieri e subconscio, tra ricordi di vita e immagini del grande schermo. Questa unione è un'esperienza unica nel suo genere: in un attimo la realtà si mischia al sogno e i film diventano un tutt’uno con la nostra esistenza.
Quando si riacquista il controllo di sé stessi e si torna a guardare lo schermo, sperando che nel frattempo nessuno abbia notato il breve pisolino, i sensi di colpa vengono accompagnati da una sensazione particolare.
Forse, in quel breve istante di sogni e cinema, abbiamo visto in noi ciò che conta veramente, scoprendoci in un modo unico e irripetibile.
Il Cinema Ritrovato è anche questo.
Elia Truffelli
Cos’è esattamente la Tradizione se non un atto di fede? Sia nel pubblico che nel privato, la Tradizione ci aiuta a fissare punti inamovibili nel caos del tempo, passato e futuro.
Certezze incontestabili, porti sicuri nel mare della nostra memoria. È importante conoscere bene il tipo di impegno che richiede: una dedizione instancabile.
Le Tradizioni di una persona ci rivelano quello in cui essa crede, la sua vera identità.
Partendo da questa premessa mi accingo a parlarvi di quella che è stata la mia esperienza nel celebrare quest’anno una delle tradizioni a me più care: il Cinema Ritrovato.
Il Festival del Cinema Ritrovato di Bologna è giunto alla sua 38° edizione.
Il successo e la longevità del festival sono frutto di un pubblico fedele e sempre più vasto. Quest’anno in particolare sono stati registrati numeri record di affluenza: 130 mila spettatori provenienti da tutto il mondo. Tra questi, fortunatamente, c’ero anche io.
In continuità con le ultime edizioni, il festival di quest’anno era diviso in tre grandi sezioni: il paradiso dei cinefili, la macchina del tempo e la macchina dello spazio.
Il paradiso dei cinefili comprendeva una serie di importanti restauri come il NapoleĚon di Abel Gance, di cui è stata mostrata solo la prima parte, Sentieri Selvaggi (The Searchers) di John Ford e Intrigo internazionale (North by Northwest) di Alfred Hitchcock, giusto per citare i titoli più noti. Vi erano poi 4 retrospettive dedicate a Anatole Litvak, Marlene Dietrich, Pietro Germi e Delphine Seyrig: una grande varietà di film tratti dalle loro folgoranti carriere cinematografiche. Il tutto era concluso da una piccola parentesi dedicata ai colori nel cinema a passo ridotto: tutti quei formati inferiori al 35mm, a partire dagli anni 20 in avanti.
La macchina del tempo si sviluppava in tre parti distinte: il secolo del cinema, cento anni fa e documenti e documentari. Le prime due sezioni comprendevano una serie di opere cinematografiche, di finzione e non, appartenenti agli anni 1904 e 1924; l’ultima sezione era una vasta raccolta di film documentaristici dedicati alla storia del cinema.
Per concludere, la macchina dello spazio comprendeva numerosi segmenti tra cui: ParadzĚŚanov 1954-1966: rapsodia ucraina (tutti i film che il leggendario regista Sergej ParadzĚŚanov ha diretto durante il suo periodo di permanenza in Ucraina), Kozaburo yoshimura, tracce di modernitaĚ€ (una vasta raccolta di drammi del cinema classico giapponese), Dark Heimat (una selezione di film poco conosciuti realizzati tra Germania e Austria nell’immediato secondo dopo guerra), Cinemalibero (diversi film provenienti dal Sud America, dall’Africa e più generalmente dall’oriente) e infine Gustaf Molander, il regista delle attrici (una retrospettiva del celebre regista svedese).
Ad accompagnare il già ricchissimo programma vi erano inoltre altre sezioni indipendenti come il Cinema Ritrovato Kids e Young, che presentava principalmente film di animazione; Lezioni di cinema, una serie di incontri con alcuni degli autori e protagonisti del festival come Wim Wenders, Alexander Payne e Costa-Gavras; e infine un vasto numero di mostre e conferenze.
Per evitare di perdere la rotta in questo burrascoso mare di cinema o peggio, annegare in un numero indescrivibile di immagini in movimento, era dunque necessario tracciare una mappa. Una rotta da seguire attraverso oceani di pellicola, passando per floride isole ricche di storie e personaggi.
Ogni spettatore del Cinema Ritrovato insegue una determinata meta e, poiché le vie del cinema sono infinite, è quasi impossibile percorrere strade uguali tra loro.
La mia navigazione è iniziata la mattina di lunedì 24 giugno. Una giornata stranamente fresca rispetto agli standard degli anni precedenti. Il Cinema Ritrovato si svolge normalmente tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, un periodo dell’anno che può diventare particolarmente caldo, soprattutto a Bologna.
Felice di aver trovato un clima mite inaspettato, dopo aver ritirato il mio accredito con la tradizionale sacchetta di tela, presso l’info point del festival al Cinema Lumière, mi imbarco per l’ennesima avventura cinemarinaresca. Nel giro di pochi minuti sono seduto davanti al grande schermo del Cinema Arlecchino, il mio preferito a Bologna, pronto a sbarcare sulla prima splendida isola popolata da immagini inedite.
Die Frau, nach der man sich sehnt (1929) di Curtis Bernhardt, tradotto La donna che si desidera, titolo italiano Enigma, è un film muto che presenta tra i suoi principali interpreti una giovane e bellissima Marlene Dietrich, agli inizi di una leggendaria carriera attoriale. Il film presenta vaghi richiami al cinema espressionista tedesco: una splendida fotografia cupa che viene superata in bellezza solo dalla comparsa di Marlene. Un esordio da protagonista folgorante, quasi profetico, che ci introduce già all’iconico look dell’attrice.
Un giovane appena sposato sta per imbarcarsi su un treno insieme alla sua fresca sposina quando la tenda di un finestrino si alza all’improvviso e dietro il vetro compaiono gli occhi magnetici di Marlene Dietrich. La trama è sostanzialmente questa: il povero ragazzo rimarrà stregato dalla bellissima sconosciuta fino a dividere con lei i drammi di una relazione ai limiti della legalità. Ieri come oggi basta l’accenno di uno sguardo appassionato per farci perdere la ragione e abbandonare la retta via. Quando Marlene esce dallo scompartimento del suo vagone e, molto furbamente, fa finta di non aver di che accendere la sua sigaretta, attraendo fatalmente a sé il giovane ingenuo, il pubblico in sala, me incluso, non può che sorridere di gusto e lasciare che il dramma faccia il suo corso.
Il mio viaggio inizia nel migliore dei modi. Un navigatore esperto sa bene da dove partire per tracciare la rotta. La prima giornata del festival serve da riscaldamento: a chiunque volesse partecipare consiglio di evitare una scorpacciata di film immediata. Bisogna lasciare che gli occhi si abituino. I film vanno visti con la massima attenzione e ciò richiede uno sforzo notevole che però, vi assicuro, viene ampiamente ripagato.
Prima di recarmi verso casa e ricaricare le pile, in vista della prossima giornata, ho ancora un film da vedere: Yoru no kawa (1956) di Kozaburo Yoshimura, tradotto Fiume notturno.
Da quando frequento il festival è sempre esistita una rassegna dedicata ai registi poco noti del cinema classico giapponese. Durante gli anni passati mi è capitato di vedere capolavori nascosti ma anche melodrammi di difficile digestione. Yoru no kawa sta a metà di queste due categorie.
Nel Giappone degli anni 50, la vita di una giovane lavoratrice di successo è tormentata da un dramma insopportabile: l’assenza di amore. I bellissimi e coloratissimi kimono tradizionali che produce, venduti in lungo e in largo, non servono minimamente a distrarla dalla continua e angosciante ricerca di un uomo da sposare. Dopo tanti sacrifici la fortuna sembra finalmente girare a suo favore ma il tanto agognato partito si rivelerà essere un padre di famiglia infedele e insensibile. Il tema della solitudine in questo film viene presentato con un cinismo unico nel suo genere; i tramonti, fotografati della pellicola a colori, sono quadri di assoluta bellezza. Le silhouette dei due amanti, nella camera d’albergo in cui avvengono gli incontri illeciti, mi fanno cadere in un vortice di piacere estetizzante.
Nonostante qualche momento poco entusiasmante, terminato il film posso constatare con piacere che la mia navigazione procede senza intoppi. Sono impaziente di sbarcare sulla prossima isola cinematografica.
La giornata successiva inizia con il botto! Alle nove del mattino sono già operativo. Nella sala Scorsese, al cinema Lumière, proiettano Golden Eighties (1986) di Chantal Akerman.
Un chiassoso musical, per giunta francese. Chi non è pratico di cinema potrebbe soffrire particolarmente questo tipo di esperienza, durante ore così delicate del mattino. Il film in realtà è molto divertente: si tratta di una parodizzazione del capitalismo, tanto spietato da trasformare perfino l’amore in qualcosa da vendere ma soprattutto da comprare (non chiedendosi se è ciò di cui abbiamo veramente bisogno). Alcune canzoni del film sono fantastiche e vorrei riascoltarle subito ma scopro che la colonna sonora non è mai stata pubblicata.
Concludo la mattinata dirigendomi al Cinema Modernissimo, una sala storica situata sottoterra, al centro di Bologna, restaurata da poco meno di un anno. Il film che mi aspetta è Andriješ (1953) di Sergej ParadzĚŚano, una banale favola sovietica slavata dalla poetica regia del leggendario regista armeno. Per qualche istante mi sembra di tornare bambino: quando sul televisore dei miei nonni, durante l’estate, mi capitava di vedere cartoni animati dell’Est Europa (La Regina delle Nevi). La storia è molto ingenua ma le immagini rimangono impresse nella mente, come per esempio quella in cui il giovane protagonista del film si trova a parlare con un albero morente, il cui spirito appartiene a un antico guerriero.
Al termine di Andriješ vengono proiettati alcuni cortometraggi che ParadzĚŚano ha realizzato per la Dumka: il coro di stato ucraino. L’estetica sovietica e le voci celestiali del coro, unite ai lunghi carrelli e movimenti di crane scelti da ParadzĚŚano, sono una testimonianza inestimabile di tempi e luoghi che sembrano provenire da un altro mondo.
Dopo mezz’ora di canti folcloristici ucraini ho bisogno di mangiare qualcosa o sarò presto vittima di uno svenimento trascendentale. Il pomeriggio riparte con Die seltsame Geschichte des Brandner Kaspar (1949) di Josef von Báky, tradotto La strana storia di Brandner Kaspar. Tra tutti i film del ciclo Dark Heimat ho scelto proprio questo perchè mette in scena un’esperienza post mortem. La mia passione per i film che presentano questa specifica tematica nasce da Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman e A Matter of Life and Death di Powell e Pressburger. Die seltsame Geschichte des Brandner Kaspar non è certo allo stesso livello di questi due capolavori però ha in sé alcuni particolari amabili come l’interpretazione di Carl Wery, il protagonista del film, e la rappresentazione del paradiso, che ci viene mostrato come una sala d’aspetto in stile barocco dove lavora un anziano pasticcione (San Pietro) circondato da numerosissimi angioletti bambini.
La seconda giornata si conclude con un film che avevo timore di perdere a causa di una svista nella programmazione del festival: Blues in the Night (1941) di Anatole Litvak.
Stranamente, questo è il primo film americano che vedo dall’inizio del festival. Di solito i tentacoli della Gold Hollywood mi rapiscono fin dal primo giorno.
Blues in the Night è il titolo di un brano famosissimo (parte della colonna sonora del film), portato al successo, tra gli altri, dalle voci strabilianti di Cab Calloway e Duke Ellington. In un breve filmato che viene proiettato prima dei titoli di testa, si vede proprio Duke Ellington cantare Blues in the Night, accompagnato dalla sua band.
Oltre alla musica, il film presenta anche fantastiche sequenze di montage cinematografico. Nella Gold Hollywood questo espediente era spesso usato per rappresentare il passaggio di lunghi periodi di tempo tra una scena e l’altra.
Devo ammettere che i due montage presenti in questa pellicola sono forse i più belli che abbia mai visto. Il primo ritrae un processo di apprendimento che termina in modo fallimentare, il secondo ci accompagna nell’improvvisa nevrosi che colpisce uno dei protagonisti del film.
Quattro storie, quattro isole completamente diverse. La mia navigazione procede senza intoppi o sintomi di mal di mare. Avevo timore che quattro film fossero troppi ma devo ammettere che mi sarebbe veramente dispiaciuto perdere una di queste fantastiche pellicole.
Terzo giorno. Scorgo un nuovo film hollywoodiano all’orizzonte. Stavolta è il turno di The Snake Pit (1948), l’opera più famosa di Anatole Litvak, titolo italiano La fossa dei serpenti.
The Snake Pit è una delle interpretazioni più memorabili della bravissima Olivia de Havilland. Anche in questo caso assisto all’ennesima prova impeccabile dei leggendari studios americani ma per quanto i dialoghi e le scene siano scritti con grande maestria, si riesce a percepire facilmente che la storia è tratta da un libro. Ho idea che i pensieri di una donna affetta da disturbi mentali possano trovare molto più spazio e vita nelle parole di un romanzo piuttosto che nelle immagini di un film, specialmente se hollywoodiano. A The Snake Pit c’è da riconoscere il merito di aver raccontato una realtà poco conosciuta (la vita all’interno dei manicomi) ad un vasto pubblico, senza inciampare negli stereotipi del tempo.
Una visita inaspettata mi impedisce di andare allo spettacolo delle quattro di pomeriggio. Faccio una rapida sostituzione e riesco lo stesso a vedere un breve film. Una deviazione di rotta verso un’isola ignota.
La fortuna gira dalla mia parte poiché ho il piacere di vedere On the Bowary (1956) di Lionel Rogosin. Nonostante il documentario presenti un lieve filtro di messa in scena, riesco ugualmente a immergermi per le strade Manhattan, circondato da homeless e alcolizzati, perso nella dark side dell’american dream.
Il figlio del regista racconta un aneddoto interessante: alla premiere del documentario, presentato al Festival del Cinema di Venezia, l’ambasciatore americano scelse volontariamente di non salutare Lionel Rogosin poiché il film metteva in luce tutto quello che gli Stati Uniti stavano cercando di nascondere. L’altra faccia del capitalismo: una società individualista dove i perdenti venivano abbandonati a loro stessi.
Sono felice di aver cambiato rotta per una breve sosta inaspettata, ora però torno a seguire l’ago della mia bussola e mi accomodo nelle avvolgenti poltrone del cinema Jolly per gustarmi Chijo (1957), il secondo film di Kozaburo Yoshimura.
I due film di Yoshimura che ho scelto di vedere si differenziano dagli altri poiché sono gli unici a colori. Una scelta non casuale se penso al fascino estetico di queste pellicole: le loro tinte così vivide e sature conferiscono alle scenografie e agli interpreti una vitalità eccezionale. Un valore aggiunto rispetto al bianco e nero degli altri film.
La città di Kanazawa, detta la piccola Kyoto, rivive in tutto il suo splendore davanti ai miei occhi. La storia di Heiichiro, il protagonista del film, si svolge in un piccolo centro abitato rimasto intatto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Lo splendore fuori dal comune di case e vie rimaste ferme nel tempo viene racchiuso in quadri di notevole pregio compositivo. Il fascino delle giovani ragazze giapponesi che affiancano Heiichiro per tutta la durata del film buca lo schermo. Riesco a vestire con estrema facilità i panni del ragazzo, innamorato di una giovane che non può avere e arrabbiato nei confronti di una società che non può combattere: il Giappone del periodo Taisho (1912-26). L’industrializzazione, lo scontro tra classi e gli scioperi violentemente repressi sono lo sfondo perfetto per un dramma coming of age più unico che raro.
Nonostante gli sforzi sovrumani compiuti per riuscire a leggere i sottotitoli del film, coperti dalla testa di uno spettatore più alto del normale, Chijo si rivela essere uno dei film più interessanti del festival.
Mi riposo per qualche istante a casa prima di tornare operativo: stasera vado a vedere per la prima volta un film in Piazza Maggiore, lo schermo più grande del Cinema Ritrovato.
Vedere un film in Piazza Maggiore è sempre un’emozione unica. Più di duemila persone si ritrovano nella vastissima piazza antistante alla Basilica di San Petronio per vedere insieme i film proposti dalla cineteca di Bologna.
Qualche anno fa proiettarono Apocalypse Now di Francis Ford Coppola; ricordo che l’esperienza mi fece un certo effetto. Vedere così tante persone radunate in un unico luogo, in silenzio, mi diede l’impressione di assistere a un momento sacrale, al pari di una messa.
È durante proiezioni di questo tipo che si percepisce visibilmente l’enorme potere del Cinema, che nonostante la sua giovane età è riuscito a diventare parte della nostra vita in modo quasi essenziale. Come molti prima di me hanno detto: il Cinema è uno specchio per vedere sé stessi.
Il film che sta per iniziare è un perfetto esempio di ciò. La visita (1963) di Antonio Pietrangeli è il ritratto fantastico di un'Italia che non esiste più ma che noi tutti conosciamo. Sentire dietro di me un piccolo gruppo di ragazze francesi ridere a crepapelle per le battute di un film così particolare e profondamente radicato nella cultura del mio paese mi riempie di orgoglio. Le commedie italiane degli anni 50 e 60 rappresentano un apice di scrittura per il cinema. Crude e scaltre, divertenti ma reali. Antonio Pietrangeli, Ruggero Maccari ed Ettore Scola, gli autori della sceneggiatura, si dimostrano ancora una volta profondi conoscitori della società di quel tempo e attenti osservatori dei personaggi che popolano la vita di tutti i giorni. Pina, la protagonista del film, interpretata da Sandra Milo, è una donna di circa trent’anni che vive nella provincia di Ferrara e lavora al consorzio agrario. Il suo aspetto caratteristico, i suoi pensieri e i suoi bisogni semplici, come la campagna che la circonda, sono un esempio concreto della sorprendente capacità ritrattistica citata poco fa.
Il film parla sostanzialmente della solitudine, inevitabile e spietata, di cui sono vittime i due protagonisti: un uomo e una donna che si incontrano grazie ad un annuncio sul giornale.
Il breve incontro, durante un assolato pomeriggio domenicale sulle rive del Po, sarà la piccola isola in cui i due personaggi troveranno un po' di ristoro e comprensione prima di rituffarsi nel mare di assoluta solitudine che la vita gli prospetta.
Un film pensato con tanta maestria, capace di portare dalla risata all’amarezza in un secondo. Dopo l’ennesima scenetta divertente mi ritrovo senza preavviso a condividere con i protagonisti le più strazianti angosce esistenziali: la paura di rimanere soli nel mondo, il timore di non potersi aprire con il prossimo, chiusi in un guscio protettivo che non permette alla vita di filtrare.
La visita è il film più bello di questa edizione del Cinema Ritrovato. L’ennesimo capolavoro nascosto tra la moltitudine di titoli che hanno reso grande il cinema italiano durante quel magico periodo di rinascita culturale che il nostro paese ha vissuto negli anni del secondo dopoguerra.
Vado a dormire con un sorriso stampato in volto: il festival non mi ha mai tradito, ogni anno mi sacrifico per poter venire a Bologna e vengo puntualmente ripagato. Questo è senz’altro il paradiso dei cinefili.
Ha inizio l’ultimo giorno. Gli impegni della vita tornano lentamente a fare capolino nella mia testa mentre cerco di godermi i pochi film che rimangono sul tragitto della mia navigazione.
Non posso andar via senza aver visto almeno un film western: il mio genere preferito.
Al cinema Arlecchino mi aspetta Pat Garrett and Billy the Kid (1973) di Sam Peckinpah, uno dei grandi maestri del cinema western americano. Il cinemascope è fantastico, soprattutto in questa sala. Sono immerso nel film come se indossassi un visore di virtual reality. Sono nel far west di Sam Peckinpah: un universo estremamente anticonvenzionale e rivoluzionario. Ne è una testimonianza Bob Dylan, che ha composto la colonna sonora del film e vi recita dentro vestendo i panni di un pistolero. La celebre canzone Knockin’ on Heaven’s Door è uno dei tanti brani del film. La storia parla di un mondo libero e senza regole, la frontiera americana, imbrigliato dalla modernità, ovvero i tempi che cambiano. Due amici fuorilegge si ritrovano agli opposti di questa trasformazione: Pat Garret e il suo amico Billy the Kid sono diventati rispettivamente uno sceriffo a servizio dei grandi proprietari terrieri e un fuorilegge che deve essere domato quindi represso.
Lo scontro tra i due diventa lo scontro tra società e individuo, tra presente e passato.
Il giovane e ribelle Billy the Kid ha già perso in partenza ma non può fare a meno di combattere andando incontro al suo inevitabile destino. È la fine di un’America libera e senza confini, il tramonto di un'epoca popolata da leggende e miti.
Il western di fine anni 60 ci pone molto spesso davanti a questi temi, raccontati sotto forma di favola. È una fase del genere che vede in Sam Peckinpah e Sergio Leone i suoi maggiori esponenti.
L’ultimo sparo del film segna il termine della mattina. Con le note di David Bowie ancora in testa mi reco a mangiare qualcosa.
Torno al cinema Arlecchino per gustarmi un’altra fantastica opera in cinemascope, stavolta in bianco e nero. Si tratta del capolavoro compositivo di Miklós Jancsó: Szegénylégenyek (1965), titolo italiano I disperati di Sandór. Uno dei primi riferimenti che mi viene in mente guardando questo film è Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
In realtà i due lungometraggi presentano molte differenze ma c’è un’idea alla base che secondo me è molto simile. Si tratta di una storia che prevede un'unica location in cui un determinato gruppo di persone viene rinchiuso e torturato da un altro gruppo di persone senza che vi sia un esatto fine se non quello di perpetrare nel tempo violenza e odio. Nel film di Pasolini si trattava gerarchi fascisti che rinchiudevano i figli delle famiglie antifasciste in una villa vicina a Salò mentre in quello di Jancsó sono i simpatizzanti dell’Impero Austriaco che rinchiudono in un forte i rivoluzionari ungheresi del 1948 (la primavera dei popoli). Se poi vogliamo essere più precisi, la storia di Jancsó non è altro che una metafora dell’Unione Sovietica: il regime che all’epoca di realizzazione del film opprimeva l'Ungheria.
Entrambi i lungometraggi richiedono uno sforzo non comune: le torture fisiche e psicologiche inscenate, rappresentate con estrema veridicità, si traducono in un ritmo lento, costante e spietato. Quello che ne risulta è un'esperienza cinematografica estenuante. Nel film di Jancsó vi sono inoltre campi lunghi e lunghissimi tra i più belli che abbia mai visto; una rappresentazione visiva esteticamente magnifica che si potrebbe ammirare per ore e ore.
Dopo aver terminato con molta fatica Szegénylégenyek, corro verso il cinema Jolly per vedere l’ultimo film del mio programma. Si tratta di The Long Night (1947) di Anatole Litvak, titolo italiano La disperata notte.
Fin dalle prime immagini mi accorgo che The Long Night è in realtà il remake di Alba tragica, di Marcel Carné, una storia che amo profondamente. Ne rimango deluso ma più il film va avanti, più sono curioso di vedere in che modo il racconto francese verrà messo in scena dagli studios hollywoodiani. Henry Fonda come protagonista è ovviamente una scelta perfetta, così come Vincent Price nei panni dell’odioso antagonista; anche l’esordiente Barbara Bel Geddes risulta azzeccata per il ruolo della ragazza ingenua, innocente e tanto carina da far sprofondare un uomo nella disperazione più nera. Tutto procede molto bene, le scenografie non deludono e nemmeno lo script. Dato che si tratta di un film hollywoodiano ipotizzo già che il finale verrà cambiato ma rimango comunque appeso ad un filo e provo lo stesso molta tensione per le sorti dello sfortunato protagonista. Finalmente si arriva alle ultime scene e, proprio come pensavo, viene scelto un lieto fine, ma a che prezzo… La sceneggiatura si sfalda completamente, i dialoghi diventano strani e appiccicosi, una nota scordata termina la bellissima musica che avevo ammirato fino a qualche secondo prima. Il pasticcio è ormai fatto: questo lieto fine proprio non va. I pochi applausi frettolosi che seguono alla scritta the end ne sono una conferma. Un vero peccato, sono deluso ma non ne faccio un dramma. Il mio viaggio all’interno del festival è terminato, corro verso la stazione degli autobus per lasciare Bologna. I miei pensieri vanno a tutti i film che ho visto durante questa edizione del Cinema Ritrovato, un flusso di immagini senza fine.
Ogni tanto, nel buio della sala, capita che il caldo e la stanchezza giochino strani scherzi. Le palpebre si socchiudono per pochi istanti in un dormiveglia confuso. Succede a tutti, senza eccezioni. La mente inizia a vagare tra pensieri e subconscio, tra ricordi di vita e immagini del grande schermo. Questa unione è un'esperienza unica nel suo genere: in un attimo la realtà si mischia al sogno e i film diventano un tutt’uno con la nostra esistenza.
Quando si riacquista il controllo di sé stessi e si torna a guardare lo schermo, sperando che nel frattempo nessuno abbia notato il breve pisolino, i sensi di colpa vengono accompagnati da una sensazione particolare.
Forse, in quel breve istante di sogni e cinema, abbiamo visto in noi ciò che conta veramente, scoprendoci in un modo unico e irripetibile.
Il Cinema Ritrovato è anche questo.
Elia Truffelli