Una riflessione su Dov'è il mio corpo?: Io sono qui
21/03/2020
Il corpo rappresenta la soggettività realizzandola in una serie di posture, sentimenti, espressioni e comportamenti, ma allo stesso tempo, proiettandosi nel mondo, lo teatralizza trasformandolo in un palcoscenico in cui la corporeità è al contempo protagonista e spettatrice, vissuta e riconosciuta. Vorrei partire da questa ipotesi di Vittorio Gallese (Neuroscienziato e Professore di Psicobiologia dell’Università di Parma) e accostarla al film J’ai perdu mon corps di Jérémy Clapin.
Una delle più affascinanti tesi di Gallese è la simulazione incarnata. Ma di cosa parliamo? È un meccanismo funzionale del nostro cervello che ci consente di comprendere il senso del comportamento motorio altrui riutilizzando i nostri stessi stati o processi mentali. Credo che questa nozione, meglio di altre, possa descrivere il film di cui stiamo parlando.
Soffermiamoci un po’ sulla trama.
È una metonimia, Dov’è il mio corpo? Vediamo una mano, ma questa parte rappresenta tutto il corpo. Questa mano vede, ricorda, si muove, ha paura, sente. In questo sdoppiamento è il segreto del film. La mano simula il resto del corpo. Forse più di Noufel che è bloccato, ingessato, assente.
Je suis là. Io sono qui. Compare ad un certo punto nel film dove un anonimo writer lascia la scritta su un cornicione di un edificio. Che sia il grido della mano, che non può parlare?
Il passato. Lascia andare il passato. Non è un caso che sia un orologio a causare l’incidente in cui Noufel perde la mano. Il tempo. Il peso del tempo. È questo il viaggio che la mano fa: cercare di ricongiungersi col resto del corpo. Ricongiungere il passato al presente. È significativo che, nel momento in cui la mano raggiunge Noufel, cerchi di ripristinare l’unione, ma ormai questa è impossibile.
Credere che ci sia un destino che fatalmente non può essere più riscritto se non, come dice Noufel, fino a quando non commettiamo un atto irrazionale, dribblando il destino stesso. Ad esempio, facendo un salto sulla gru. Questa è la scena più toccante del finale: la mano che si ritrae, la mano che rimane impressa nella sabbia, e finalmente Noufel può spiccare il volo, come da bambino verso il mare o come da adulto sulla gru. Provando a riscrivere il suo destino. Non dimenticando il passato ma non restandone prigioniero. Di un corpo che non sentiva più da quando, dopo l’incidente in cui i genitori sono morti e lui è sopravvissuto, si sente responsabile della loro morte. Noi spettatori che guardiamo il film ci sentiamo coinvolti da quella mano, sentiamo ciò che lei sente, sebbene nella modalità disaccoppiante propria della simulazione incarnata. In fondo è la stessa condizione di quando siamo al cinema, in quella meravigliosa scatola nera.
Vorrei chiudere con questa citazione di Edgar Morin che ne Il cinema o l’uomo immaginario dice: “per lo spettatore, affondato nel suo alveolo, monade chiusa a tutto fuorché allo schermo, avviluppato nella doppia placenta di una comunità anonima e dell’oscurità, quando i canali dell’azione sono bloccati, s’aprono allora le chiuse del mito, del sogno, della magia”.
Massimo Guastella
Una delle più affascinanti tesi di Gallese è la simulazione incarnata. Ma di cosa parliamo? È un meccanismo funzionale del nostro cervello che ci consente di comprendere il senso del comportamento motorio altrui riutilizzando i nostri stessi stati o processi mentali. Credo che questa nozione, meglio di altre, possa descrivere il film di cui stiamo parlando.
Soffermiamoci un po’ sulla trama.
È una metonimia, Dov’è il mio corpo? Vediamo una mano, ma questa parte rappresenta tutto il corpo. Questa mano vede, ricorda, si muove, ha paura, sente. In questo sdoppiamento è il segreto del film. La mano simula il resto del corpo. Forse più di Noufel che è bloccato, ingessato, assente.
Je suis là. Io sono qui. Compare ad un certo punto nel film dove un anonimo writer lascia la scritta su un cornicione di un edificio. Che sia il grido della mano, che non può parlare?
Il passato. Lascia andare il passato. Non è un caso che sia un orologio a causare l’incidente in cui Noufel perde la mano. Il tempo. Il peso del tempo. È questo il viaggio che la mano fa: cercare di ricongiungersi col resto del corpo. Ricongiungere il passato al presente. È significativo che, nel momento in cui la mano raggiunge Noufel, cerchi di ripristinare l’unione, ma ormai questa è impossibile.
Credere che ci sia un destino che fatalmente non può essere più riscritto se non, come dice Noufel, fino a quando non commettiamo un atto irrazionale, dribblando il destino stesso. Ad esempio, facendo un salto sulla gru. Questa è la scena più toccante del finale: la mano che si ritrae, la mano che rimane impressa nella sabbia, e finalmente Noufel può spiccare il volo, come da bambino verso il mare o come da adulto sulla gru. Provando a riscrivere il suo destino. Non dimenticando il passato ma non restandone prigioniero. Di un corpo che non sentiva più da quando, dopo l’incidente in cui i genitori sono morti e lui è sopravvissuto, si sente responsabile della loro morte. Noi spettatori che guardiamo il film ci sentiamo coinvolti da quella mano, sentiamo ciò che lei sente, sebbene nella modalità disaccoppiante propria della simulazione incarnata. In fondo è la stessa condizione di quando siamo al cinema, in quella meravigliosa scatola nera.
Vorrei chiudere con questa citazione di Edgar Morin che ne Il cinema o l’uomo immaginario dice: “per lo spettatore, affondato nel suo alveolo, monade chiusa a tutto fuorché allo schermo, avviluppato nella doppia placenta di una comunità anonima e dell’oscurità, quando i canali dell’azione sono bloccati, s’aprono allora le chiuse del mito, del sogno, della magia”.
Massimo Guastella