Una riflessione su "Ti mangio il cuore"
24/12/2022
Un'analisi di "Ti mangio il cuore", scritta da Claudia Ronchi, che riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Appartenenza. E' questo il sentimento che suscita il terzo lungometraggio di Pippo Mezzapesa, Ti mangio il cuore, presentato alla 79a Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti.
E' la terra di Puglia che parla più dei protagonisti, che invece parlano poco, male e quasi solo di vendetta. Un Sud vicino ai giorni nostri ma fatto ancora di campagna coltivata con le mani e gli animali come una volta ("Chiudi la porta che entrano le mosche e si guasta il formaggio" dice Michele Malatesta/Tommaso Ragno al figlio Andrea/Francesco Patanè mentre prepara artigianalmente con le mani le ricotte). Un Sud vicino ai giorni nostri ma indissolubilmente agganciato ad una faida antica che viene riportata in vita per "amore". Nel film compaiono, insieme ai protagonisti e come protagonisti, una serie di "cliché" immediatamente riconoscibili e che, per quanto deprecabili, ti rendi conto che appartengono alla nostra storia e alla nostra cultura: la guerra tra famiglie della malavita mafiosa, la commistione tra santità, religione e criminalità, tra chiesa e stato assente. Riconosci quell’intrecciarsi di processioni e segni della croce con atti delittuosi per difendere l'onore, campi, di greggi, di mandrie, di bestiame da latte e da macello con feste pacchiane e paesane: un unicum del nostro paese che, anche chi non è nato in quelle terre, non può fare a meno di sentirlo proprio. La sensazione di riconoscere un territorio, le persone che lo abitano e lo fanno vivere, i riti, i famosi “usi e costumi” anche se non ci vivi, anche se in realtà tu, spettatore, non lo conosci ma senti che è qualcosa che, ti appartiene. Impossibile immaginare quella storia, quei paesaggi, quei personaggi, quelle espressioni, quei modi di fare da nessun'altra parte del mondo (dando per scontato che le stesse cose succedono in tutte le parti del mondo). Un ritratto di una parte d'Italia di cui il regista si appropria dal libro omonimo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini e che ci restituisce con un emozionante bianco e nero “trattato” (tanto bianco il bianco, tanto nero il nero) e con un cast di attori calzanti nelle rispettive parti (inclusa Elodie, fatevene una ragione:-). L'archetipo di base è la contrapposizione atavica tra due famiglie in cui disgraziatamente due componenti delle "fazioni opposte" si innamorano (tutto già visto da Romeo e Giulietta in giù). Il buon lavoro di Mezzapesa però è nella cura dell'evoluzione/involuzioni delle personalità di alcuni dei protagonisti (la madre-Malatesta, Livia Vitale in primis) accecati solo dalla rivalsa e della necessità di sottolineare ancora una volta l'assurdità di difendere una storia d'amore/il bene con le armi/il male.
Appartenenza. E' questo il sentimento che suscita il terzo lungometraggio di Pippo Mezzapesa, Ti mangio il cuore, presentato alla 79a Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti.
E' la terra di Puglia che parla più dei protagonisti, che invece parlano poco, male e quasi solo di vendetta. Un Sud vicino ai giorni nostri ma fatto ancora di campagna coltivata con le mani e gli animali come una volta ("Chiudi la porta che entrano le mosche e si guasta il formaggio" dice Michele Malatesta/Tommaso Ragno al figlio Andrea/Francesco Patanè mentre prepara artigianalmente con le mani le ricotte). Un Sud vicino ai giorni nostri ma indissolubilmente agganciato ad una faida antica che viene riportata in vita per "amore". Nel film compaiono, insieme ai protagonisti e come protagonisti, una serie di "cliché" immediatamente riconoscibili e che, per quanto deprecabili, ti rendi conto che appartengono alla nostra storia e alla nostra cultura: la guerra tra famiglie della malavita mafiosa, la commistione tra santità, religione e criminalità, tra chiesa e stato assente. Riconosci quell’intrecciarsi di processioni e segni della croce con atti delittuosi per difendere l'onore, campi, di greggi, di mandrie, di bestiame da latte e da macello con feste pacchiane e paesane: un unicum del nostro paese che, anche chi non è nato in quelle terre, non può fare a meno di sentirlo proprio. La sensazione di riconoscere un territorio, le persone che lo abitano e lo fanno vivere, i riti, i famosi “usi e costumi” anche se non ci vivi, anche se in realtà tu, spettatore, non lo conosci ma senti che è qualcosa che, ti appartiene. Impossibile immaginare quella storia, quei paesaggi, quei personaggi, quelle espressioni, quei modi di fare da nessun'altra parte del mondo (dando per scontato che le stesse cose succedono in tutte le parti del mondo). Un ritratto di una parte d'Italia di cui il regista si appropria dal libro omonimo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini e che ci restituisce con un emozionante bianco e nero “trattato” (tanto bianco il bianco, tanto nero il nero) e con un cast di attori calzanti nelle rispettive parti (inclusa Elodie, fatevene una ragione:-). L'archetipo di base è la contrapposizione atavica tra due famiglie in cui disgraziatamente due componenti delle "fazioni opposte" si innamorano (tutto già visto da Romeo e Giulietta in giù). Il buon lavoro di Mezzapesa però è nella cura dell'evoluzione/involuzioni delle personalità di alcuni dei protagonisti (la madre-Malatesta, Livia Vitale in primis) accecati solo dalla rivalsa e della necessità di sottolineare ancora una volta l'assurdità di difendere una storia d'amore/il bene con le armi/il male.