Velluto blu: le vostre analisi!
10/03/2021
Durante il workshop dedicato a Velluto blu di David Lynch, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere una loro analisi del film: ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!
Ada Bacigalupo
Tutto è come non dovrebbe essere
La tranquilla e banale provincia americana, la storia di una donna misteriosa coinvolta in loschi affari criminali e due giovani ragazzi che si improvvisano detective della porta accanto per investigare su un misterioso caso che lentamente sta iniziando a minare la tranquilla quotidianità della cittadina in cui vivono.
Potrebbe quasi sembrare un comunissimo thriller e invece si tratta di ‘Blue Velvet’, film di David Lynch che, già dai primi minuti iniziali, prende lo spettatore e lo immerge in un mondo a luci e ombre smontando ogni sua più ferma convinzione sulla realtà, una realtà che si rivela fitta di contraddizioni e insidie che si nascondono dietro ad ogni angolo, anche il più familiare.
Piano piano tutto appare sempre più surreale e disturbante, e più si prosegue nella vicenda, più gli equilibri sembrano rompersi senza possibilità di ristabilirsi. Solo al culmine della suspense, giunti nelle tenebre più oscure dell’animo umano, si potrà procedere come Dante nell’ultimo girone infernale e finalmente si troverà la via per riemergere verso la luce.
Quello a cui si assiste è un grottesco ma veritiero ritratto della nostra società moderna, dove tutto ci appare per come non è, dove la comunicazione tra individui non è più diretta ma si perde dietro ad apparenze e immagini fittizie.
Di certo questo film, e tantomeno il suo autore, non vuole avere un intento moralistico o pedagogico. È però evidente che voglia far passare a suo modo un forte messaggio: non basta affidarci ai nostri cinque sensi per scoprire il significato delle cose, ma è altresì necessario guardare – e sentire – il mondo circostante con l’unico organo che possiede sensi tutti propri e spesso infallibili, ossia il cuore.
Claudia Carloni
L' ambivalenza del reale tra luci e ombre: "Blue Velvet"
Una musica misteriosa e penetrante, una tenda di velluto blu che oscilla lentamente , permettendoci di scorgerne le increspature: così inizia il quarto film di David Lynch che, già nella sua introduzione, racchiude una parte dell'immaginario e del simbolismo che caratterizzano il regista.
Lo scenario che ci si presenta poco dopo è la rappresentazione della classica provincia americana, villette a schiera con giardino, dei bambini che attraversano la strada sotto la supervisione di un'amabile vecchietta. È tutto così colorato, così luminoso, così perfetto, da sembrare quasi irreale.... qualcosa infatti ci risveglia dal torpore di questa atmosfera rassicurante: un uomo viene colpito da un malore, si accascia a terra, e la macchina da presa si avvicina al suolo, mostrandoci cosa c' è sotto quel prato all' inglese così ben curato: un brulicare di scarafaggi ronzanti, qualcosa di sporco, disgustoso, che immediatamente stride con tutto ciò che abbiamo visto fin'ora. Un invito forse a guardare oltre, ad andare in profondità, a non fidarsi dell'apparenza, a scostare quella tenda di velluto blu per vedere quali misteri nasconde.
Lynch riprende le tematiche tipiche del noir e ne fa un film proprio, si serve della trama e dei personaggi per esprimere le sue ossessioni, i suoi fantasmi personali, la sua idea di cinema, e ci comunica qualcosa che va ben al di là della coerente narrazione dei fatti, e che arriva, se non subito alla mente razionale, alla parte più profonda di noi, che vive di intuizione e comprende per immagini.
Un' altra scena che ci suscita sensazioni di disagio e inquietudine è il ritrovamento da parte del protagonista, Jeffrey, di un orecchio umano, mozzato, in putrefazione, in mezzo ad un prato; in una scena successiva la macchina da presa ci conduce proprio all'interno del condotto auricolare, come a voler simboleggiare l'imminente ingresso del protagonista in un mondo fatto di segreti, crimini, violenza e depravazione.
Jeffrey infatti decide di improvvisarsi detective e di indagare con l'aiuto di Sandy, la figlia dello sceriffo, sul macabro ritrovamento.
Il ragazzo si fa portavoce della nostra morbosa curiosità, ma non solo, è anche alter-ego del regista, nel suo intento di indagare la realtà e l' animo umano, in cui convivono da sempre luci ed ombre, bene e male, sogno ed incubo.
Questa contrapposizione, tema molto caro a Lynch, ripercorre l' intero film, anche visivamente: la luce delle scene inziali , che illumina la cittadina di Lumberton, si contrappone al buio dell'appartamento di Dorothy, Sandy, la dolce ragazza della porta accanto, ci viene presentata come una figura quasi "angelica" che emerge dalle tenebre, Frank, l' antagonista del film, vuole le luci spente, dice più volte "adesso è buio", e l'oscurità diventa dominante, sia a livello concettuale che visivo, quando Frank irrompe sulla scena con i suoi scagnozzi e costringe Jeffrey ad accompagnarli in quello che chiama " il giro del piacere".
Piacere e dolore, di nuovo due poli opposti, che si intersecano nella relazione a tinte sado - masochistiche tra Dorothy e Frank, l'eterna lotta tra Eros e Thanatos, pulsione di vita (pensiamo al sogno di Sandy in cui i pettirossi, simbolo di amore, tornano a portare luce nell' oscurità, o alla scena del bacio e dell'amore dichiarato tra Sandy e Jeffrey) e pulsione di morte ( le parole di Jeffrey dopo aver conosciuto la situazione di Dorothy saranno: '' credo che lei voglia morire", la violenza esercitata da Frank verso gli altri è distruttiva e pericolosa ).
Jeffrey all'inizio del film subisce il fascino di Dorothy, che si presenta nella sua prima apparizione in tutta la sua sensuale bellezza, cantando sul palco dello Slow Club con voce suadente sulle note di ''Blue Velvet'', una luce blu la illumina, delle tende rosse le fanno da sfondo.
Il ragazzo decide di introdursi in casa della cantante, la osserva dall'interno dell'armadio, e Dorothy è esposta al suo sguardo, come oggetto della sua e della nostra visione. Jeffrey ne è attratto, si avvicina sempre di più alla donna, ma nello scorrere del film notiamo alcuni dettagli che stonano: un lembo di vestaglia strappato, una parrucca che viene tolta a fine esibizione, un primo piano in cui l'attenzione ricade su un dente spezzato, e alla fine la vediamo nuda, tumefatta, nella sua fragilità, il trucco sbavato e lo sguardo assente, e l'immagine inziale di femme fatal si sgretola completamente.
Il male e la violenza cui è sottoposta la corrodono da dentro, intaccandone la bellezza, ed è come se quel "male" che all'inizio si presenta come seducente, guardato più da vicino, ci sveli la sua miseria, la sua disarmonia. Jeffrey infatti la desidera e prova a soddisfare gli impulsi masochistici di Dorothy quando lei lo incita dicendogli ''colpiscimi'', ma non vorrebbe farlo, e vediamo nel suo volto una repulsione per quel gesto.
Istinto, pulsioni inconfessabili e coscienza razionale sono presenti in tutti noi come forze contrastanti che determinano il nostro comportamento; devianza e rettitudine, tra le quali l'uomo oscilla e si ritrova a scegliere.
Frank vive di istinti animaleschi, perversioni, aggressività, è "puro inconscio" libero da freni inibitori, non a caso secondo la psicoanalisi freudiana l 'inconscio è la parte oscura e nascosta delle istanze che compongono la psiche umana, mentre l' Io è ciò che emerge, che viene alla luce e che conosciamo.
Possiamo considerare Jeffrey un doppio speculare di Frank, idea che ci viene suggerita dallo stesso Frank quando, guardando negli occhi il ragazzo, gli dice :" tu sei come me", come se avesse intravisto quel seme di follia violenta che potrebbe crescere e degenerare, rendendo Jeffrey un altro adepto di quell'oscurità in cui Frank vive e che rappresenta.
Ma Jeffrey sceglie la luce, sceglie il bene, uccide Frank, tra le due donne sceglie la candida e dolce Sandy.
Jeffrey sceglie l'amore, che come dice Sandy " è l'unica cosa veramente importante''; in un mondo così strano, dove la malvagità contamina ogni cosa, dove il marciume si alimenta dietro la patina di perfezione che la società cerca di ostentare, l'amore è l' unica forza che può contrastare l'oscurità, un' oscurità che non potremo mai eliminare del tutto, ma che dobbiamo inglobare, attraversare, "digerire", come ci suggerisce l'immagine finale del pettirosso, simbolo di amore e di luce, che tiene tra il becco uno scarafaggio, ancora una volta qualcosa di sporco, che vive nel sottosuolo, di cui sta per nutrirsi.
Un film ricco di suggestioni, significati nascosti, trasmessi attraverso le immagini, i suoni, le musiche, i colori; tutto è al servizio della pellicola, e arriva dritto al nostro subconscio, non ci resta che lasciarci sedurre dall' universo surreale e conturbante creato da Lynch.
Emma Diana D’attanasio
Cosa succede a Jeffrey se sulla strada vicino casa trova l’orecchio di un uomo? Cosa è successo a Frank, la cui madre è motivo di così tanti disturbi? Cosa è successo a Lynch, quando un giorno sulla strada verso casa, con suo fratello, sì ritrovò davanti una donna completamente nuda che li stava guardando? Cosa succede ad un ragazzo quando la sua dimensione familiare viene bruscamente interrotta? Queste sono le domande su cui si basa Velluto blu, secondo film di Lynch prodotto da De Laurentiis, nel quale non credeva nessuno. Lynch si doveva riprendere da una brutta stroncatura con Dune e l’ha fatto facendo un film così personale, anche se non lo sembra, che sembra di assistere ad una seduta psicologica. Tutti noi, quando nella prima sequenza ci ritroviamo in una cittadina dove i personaggi non sfuggono alla macchina da presa, oggetto invasivo per antonomasia, ma addirittura la salutano, ci sentiamo destabilizzati, così al sicuro che quasi non crediamo alle promesse che questa bella città ci fa, e infatti, dopo il cielo color pastello, il camion dei pompieri che procede a passo d’uomo e i bambini che attraversano ordinatamente in fila indiana c’è un uomo, poi scopriremo essere il padre del protagonista, che annaffia il prato, quando all’improvviso viene colpito da un infarto e cade al suolo. Il rumore dell’acqua che prima era rilassante, adesso diventa fastidioso, disturbante, ed è disturbante anche il cane che inveisce sul corpo dell’uomo abbaiando e il bambino che, fermo lì, naturalmente non può chiamare nessuno. E poi la macchina da presa si tuffa all’interno dell’erba e scova degli insetti che lottando emettono rumori metallici, noi spettatori non ci vogliamo stare più lì, ci sentiamo a disagio e infatti Lynch ci fa uscire. E ribadisce il benvenuto, stavolta non un benvenuto da dei pompieri che salutano con la mano ma un benvenuto stampato su un cartellone, accanto ad una donna sorridente, di cui ci fidiamo molto poco. Jeffrey, il nostro protagonista, andando a trovare il padre in ospedale, è sconvolto dalla sua trasformazione, dal fatto che lui non possa neanche parlare. Quale miglior metafora per questo film, se non un padre, figura rassicurante e protettiva, messa in condizione di incomunicabilità e snaturato da tutte queste macchine intorno al viso. È proprio grazie a questo e grazie all’orecchio trovato sulla strada di casa che Jeffrey si allontana da tutto ciò che gli è familiare. Avvicinandosi al detective che segue il caso della persona con l’orecchio tagliato, trova la sua guida in questo viaggio, che di tanto in tanto lo riporterà alla ragione, l’unica figura veramente stabile di questo film, Sandy, la figlia del detective. La più intuitiva, è lei che dice: “è vicino, questo mi fa molta paura” suggerendo a Jeffrey che vicino, non vuol dire per forza sicuro o buono. È lei che tramite il suo sogno profetizza la fine del film, ed è lei che non si lascia mai ingoiare dall’oscurità, e lo vediamo anche dall’aspetto, rimane sempre vestita con color pastello, con le guance rosee, con i capelli biondi. Jeffrey però ormai è stato allontanato da casa in un certo senso, ed è per questo che quando vede Dorothy ne rimane affascinato, è qualcosa di oscuro e di sconosciuto, che potrebbe essere pericoloso, lui lo sa, ma continuare a guardarla, invadere la sua intimità, è così inebriante per lui che non riesce a staccarsi esercitare il controllo su di lei, se intendiamo controllo con sguardo, ed è così in questo film. Anche noi caschiamo nella trappola di Dorothy, quando la sentiamo cantare la canzone con cui all’inizio veniva inquadrata la città, quando ancora di questa città ci si poteva fidare. Jeffrey, come noi spettatori viene catapultato nell’universo oscuro di Dorothy, fatto di ricatti, di perversione, di inquietudine. Un mondo da cui di solito non si vede l’ora di uscire. Ma non per Jeffrey, anche se quella stessa sera si ritrova in una situazione bizzarra, malata, inquietante, e capisce un’altra volta che casa non vuol dire essere al sicuro, mamma non vuol dire affetto, capisce che le persone possono anche non volere solo rassicurazione o affetto. E ne rimane pericolosamente colpito, tant’è che è lui a ritornare da Dorothy, sebbene questo lo metta in forte pericolo, e Sandy cerchi di avvisarlo, nasce con Dorothy una relazione pericolosa. E quando Frank lo scopre si consuma la parte più inquietante e spaventosa del film. “Facciamo un giro”, dice Frank, e infatti faremo un giro nella sua testa, dove non si può essere guardati, perché lo sguardo vuol dire controllo, o forse perché c’è un forte senso di vergogna in lui. Faremo un giro e finiremo nel luogo dove il figlio di Dorothy viene tenuto prigioniero e assisteremo ad una performance che sarà la chiara spiegazione della mente di Frank. La canzone della performance recita “a candy-colored clown called sandman” un pagliaccio vestito di colori pastello, gli stessi di quella bellissima e rassicurante cittadina, che si chiama Sandman, colui che nella tradizione popolare americana mette la sabbia negli occhi dei bambini per farli addormentare, oppure colui che, secondo un’altra versione del racconto, mette la sabbia negli occhi dei bambini per cavarglieli. Racconto sul quale Freud si basa per la sua teoria del perturbante, secondo la quale gli elementi più inquietanti si nascondono proprio in casa, Frank è l’incarnazione perfetta di questa teoria. Lui che rende il nome mamma, un nome così inospitale, una canzone come quella, per bambini, così inquietante e colui che rende una lettera d’amore, uno sparo di pistola, come dirà dopo a Jeffrey. Frank è tutto ciò che c’è di perturbante, ha assorbito tutta l’oscurità e Jeffrey è stato a 30 centimetri di distanza da lui, dai suoi occhi, c’è stato molto vicino, al perturbante, è stato anche molto vicino a Dorothy, e infatti lei dice: “mi hai attaccato la tua malattia” e per malattia intende forse innocenza, curiosità, bontà, tutto quello che Jeffrey si porta da casa, perché era stato cresciuto così nel luogo che lui credeva sicuro, e allo stesso modo lui viene contaminato dall’oscurità di Frank e Dorothy perché attratto da questa ma poi quando capisce di spingersi troppo in là si spoglia della maschera di detective e tutti lo vediamo per quello che è, un liceale spaventato che ha subito un trauma. È questo che dice la sua faccia quando si mette nell’armadio di Dorothy per sparare a Frank, un bambino che si nasconde nell’armadio, non il luogo più sicuro della casa ma quelli in cui una volta ha avuto il controllo, è riuscito ad origliare senza essere scoperto. Probabilmente anche noi spettatori ci saremmo messi lì, anzi forse ci siamo stati per tutta la durata del film. Jeffrey compie un omicidio, l’atto più oscuro per eccellenza, così ora può tornare a casa. Apre gli occhi, si ritrova nel giardino di casa sua, il cielo azzurro, suo padre che si è rimesso e parla con il padre di Sandy e i pettirossi sognati da Sandy, simbolo di amore, che tengono in bocca i rumorosi scarafaggi che avevamo visto all’inizio. L’amore che sta per mangiare l’oscurità, come Jeffrey, che è stato sedotto da un buco nero e ne è uscito, con un po’ di oscurità dentro.
Ada Bacigalupo
Tutto è come non dovrebbe essere
La tranquilla e banale provincia americana, la storia di una donna misteriosa coinvolta in loschi affari criminali e due giovani ragazzi che si improvvisano detective della porta accanto per investigare su un misterioso caso che lentamente sta iniziando a minare la tranquilla quotidianità della cittadina in cui vivono.
Potrebbe quasi sembrare un comunissimo thriller e invece si tratta di ‘Blue Velvet’, film di David Lynch che, già dai primi minuti iniziali, prende lo spettatore e lo immerge in un mondo a luci e ombre smontando ogni sua più ferma convinzione sulla realtà, una realtà che si rivela fitta di contraddizioni e insidie che si nascondono dietro ad ogni angolo, anche il più familiare.
Piano piano tutto appare sempre più surreale e disturbante, e più si prosegue nella vicenda, più gli equilibri sembrano rompersi senza possibilità di ristabilirsi. Solo al culmine della suspense, giunti nelle tenebre più oscure dell’animo umano, si potrà procedere come Dante nell’ultimo girone infernale e finalmente si troverà la via per riemergere verso la luce.
Quello a cui si assiste è un grottesco ma veritiero ritratto della nostra società moderna, dove tutto ci appare per come non è, dove la comunicazione tra individui non è più diretta ma si perde dietro ad apparenze e immagini fittizie.
Di certo questo film, e tantomeno il suo autore, non vuole avere un intento moralistico o pedagogico. È però evidente che voglia far passare a suo modo un forte messaggio: non basta affidarci ai nostri cinque sensi per scoprire il significato delle cose, ma è altresì necessario guardare – e sentire – il mondo circostante con l’unico organo che possiede sensi tutti propri e spesso infallibili, ossia il cuore.
Claudia Carloni
L' ambivalenza del reale tra luci e ombre: "Blue Velvet"
Una musica misteriosa e penetrante, una tenda di velluto blu che oscilla lentamente , permettendoci di scorgerne le increspature: così inizia il quarto film di David Lynch che, già nella sua introduzione, racchiude una parte dell'immaginario e del simbolismo che caratterizzano il regista.
Lo scenario che ci si presenta poco dopo è la rappresentazione della classica provincia americana, villette a schiera con giardino, dei bambini che attraversano la strada sotto la supervisione di un'amabile vecchietta. È tutto così colorato, così luminoso, così perfetto, da sembrare quasi irreale.... qualcosa infatti ci risveglia dal torpore di questa atmosfera rassicurante: un uomo viene colpito da un malore, si accascia a terra, e la macchina da presa si avvicina al suolo, mostrandoci cosa c' è sotto quel prato all' inglese così ben curato: un brulicare di scarafaggi ronzanti, qualcosa di sporco, disgustoso, che immediatamente stride con tutto ciò che abbiamo visto fin'ora. Un invito forse a guardare oltre, ad andare in profondità, a non fidarsi dell'apparenza, a scostare quella tenda di velluto blu per vedere quali misteri nasconde.
Lynch riprende le tematiche tipiche del noir e ne fa un film proprio, si serve della trama e dei personaggi per esprimere le sue ossessioni, i suoi fantasmi personali, la sua idea di cinema, e ci comunica qualcosa che va ben al di là della coerente narrazione dei fatti, e che arriva, se non subito alla mente razionale, alla parte più profonda di noi, che vive di intuizione e comprende per immagini.
Un' altra scena che ci suscita sensazioni di disagio e inquietudine è il ritrovamento da parte del protagonista, Jeffrey, di un orecchio umano, mozzato, in putrefazione, in mezzo ad un prato; in una scena successiva la macchina da presa ci conduce proprio all'interno del condotto auricolare, come a voler simboleggiare l'imminente ingresso del protagonista in un mondo fatto di segreti, crimini, violenza e depravazione.
Jeffrey infatti decide di improvvisarsi detective e di indagare con l'aiuto di Sandy, la figlia dello sceriffo, sul macabro ritrovamento.
Il ragazzo si fa portavoce della nostra morbosa curiosità, ma non solo, è anche alter-ego del regista, nel suo intento di indagare la realtà e l' animo umano, in cui convivono da sempre luci ed ombre, bene e male, sogno ed incubo.
Questa contrapposizione, tema molto caro a Lynch, ripercorre l' intero film, anche visivamente: la luce delle scene inziali , che illumina la cittadina di Lumberton, si contrappone al buio dell'appartamento di Dorothy, Sandy, la dolce ragazza della porta accanto, ci viene presentata come una figura quasi "angelica" che emerge dalle tenebre, Frank, l' antagonista del film, vuole le luci spente, dice più volte "adesso è buio", e l'oscurità diventa dominante, sia a livello concettuale che visivo, quando Frank irrompe sulla scena con i suoi scagnozzi e costringe Jeffrey ad accompagnarli in quello che chiama " il giro del piacere".
Piacere e dolore, di nuovo due poli opposti, che si intersecano nella relazione a tinte sado - masochistiche tra Dorothy e Frank, l'eterna lotta tra Eros e Thanatos, pulsione di vita (pensiamo al sogno di Sandy in cui i pettirossi, simbolo di amore, tornano a portare luce nell' oscurità, o alla scena del bacio e dell'amore dichiarato tra Sandy e Jeffrey) e pulsione di morte ( le parole di Jeffrey dopo aver conosciuto la situazione di Dorothy saranno: '' credo che lei voglia morire", la violenza esercitata da Frank verso gli altri è distruttiva e pericolosa ).
Jeffrey all'inizio del film subisce il fascino di Dorothy, che si presenta nella sua prima apparizione in tutta la sua sensuale bellezza, cantando sul palco dello Slow Club con voce suadente sulle note di ''Blue Velvet'', una luce blu la illumina, delle tende rosse le fanno da sfondo.
Il ragazzo decide di introdursi in casa della cantante, la osserva dall'interno dell'armadio, e Dorothy è esposta al suo sguardo, come oggetto della sua e della nostra visione. Jeffrey ne è attratto, si avvicina sempre di più alla donna, ma nello scorrere del film notiamo alcuni dettagli che stonano: un lembo di vestaglia strappato, una parrucca che viene tolta a fine esibizione, un primo piano in cui l'attenzione ricade su un dente spezzato, e alla fine la vediamo nuda, tumefatta, nella sua fragilità, il trucco sbavato e lo sguardo assente, e l'immagine inziale di femme fatal si sgretola completamente.
Il male e la violenza cui è sottoposta la corrodono da dentro, intaccandone la bellezza, ed è come se quel "male" che all'inizio si presenta come seducente, guardato più da vicino, ci sveli la sua miseria, la sua disarmonia. Jeffrey infatti la desidera e prova a soddisfare gli impulsi masochistici di Dorothy quando lei lo incita dicendogli ''colpiscimi'', ma non vorrebbe farlo, e vediamo nel suo volto una repulsione per quel gesto.
Istinto, pulsioni inconfessabili e coscienza razionale sono presenti in tutti noi come forze contrastanti che determinano il nostro comportamento; devianza e rettitudine, tra le quali l'uomo oscilla e si ritrova a scegliere.
Frank vive di istinti animaleschi, perversioni, aggressività, è "puro inconscio" libero da freni inibitori, non a caso secondo la psicoanalisi freudiana l 'inconscio è la parte oscura e nascosta delle istanze che compongono la psiche umana, mentre l' Io è ciò che emerge, che viene alla luce e che conosciamo.
Possiamo considerare Jeffrey un doppio speculare di Frank, idea che ci viene suggerita dallo stesso Frank quando, guardando negli occhi il ragazzo, gli dice :" tu sei come me", come se avesse intravisto quel seme di follia violenta che potrebbe crescere e degenerare, rendendo Jeffrey un altro adepto di quell'oscurità in cui Frank vive e che rappresenta.
Ma Jeffrey sceglie la luce, sceglie il bene, uccide Frank, tra le due donne sceglie la candida e dolce Sandy.
Jeffrey sceglie l'amore, che come dice Sandy " è l'unica cosa veramente importante''; in un mondo così strano, dove la malvagità contamina ogni cosa, dove il marciume si alimenta dietro la patina di perfezione che la società cerca di ostentare, l'amore è l' unica forza che può contrastare l'oscurità, un' oscurità che non potremo mai eliminare del tutto, ma che dobbiamo inglobare, attraversare, "digerire", come ci suggerisce l'immagine finale del pettirosso, simbolo di amore e di luce, che tiene tra il becco uno scarafaggio, ancora una volta qualcosa di sporco, che vive nel sottosuolo, di cui sta per nutrirsi.
Un film ricco di suggestioni, significati nascosti, trasmessi attraverso le immagini, i suoni, le musiche, i colori; tutto è al servizio della pellicola, e arriva dritto al nostro subconscio, non ci resta che lasciarci sedurre dall' universo surreale e conturbante creato da Lynch.
Emma Diana D’attanasio
Cosa succede a Jeffrey se sulla strada vicino casa trova l’orecchio di un uomo? Cosa è successo a Frank, la cui madre è motivo di così tanti disturbi? Cosa è successo a Lynch, quando un giorno sulla strada verso casa, con suo fratello, sì ritrovò davanti una donna completamente nuda che li stava guardando? Cosa succede ad un ragazzo quando la sua dimensione familiare viene bruscamente interrotta? Queste sono le domande su cui si basa Velluto blu, secondo film di Lynch prodotto da De Laurentiis, nel quale non credeva nessuno. Lynch si doveva riprendere da una brutta stroncatura con Dune e l’ha fatto facendo un film così personale, anche se non lo sembra, che sembra di assistere ad una seduta psicologica. Tutti noi, quando nella prima sequenza ci ritroviamo in una cittadina dove i personaggi non sfuggono alla macchina da presa, oggetto invasivo per antonomasia, ma addirittura la salutano, ci sentiamo destabilizzati, così al sicuro che quasi non crediamo alle promesse che questa bella città ci fa, e infatti, dopo il cielo color pastello, il camion dei pompieri che procede a passo d’uomo e i bambini che attraversano ordinatamente in fila indiana c’è un uomo, poi scopriremo essere il padre del protagonista, che annaffia il prato, quando all’improvviso viene colpito da un infarto e cade al suolo. Il rumore dell’acqua che prima era rilassante, adesso diventa fastidioso, disturbante, ed è disturbante anche il cane che inveisce sul corpo dell’uomo abbaiando e il bambino che, fermo lì, naturalmente non può chiamare nessuno. E poi la macchina da presa si tuffa all’interno dell’erba e scova degli insetti che lottando emettono rumori metallici, noi spettatori non ci vogliamo stare più lì, ci sentiamo a disagio e infatti Lynch ci fa uscire. E ribadisce il benvenuto, stavolta non un benvenuto da dei pompieri che salutano con la mano ma un benvenuto stampato su un cartellone, accanto ad una donna sorridente, di cui ci fidiamo molto poco. Jeffrey, il nostro protagonista, andando a trovare il padre in ospedale, è sconvolto dalla sua trasformazione, dal fatto che lui non possa neanche parlare. Quale miglior metafora per questo film, se non un padre, figura rassicurante e protettiva, messa in condizione di incomunicabilità e snaturato da tutte queste macchine intorno al viso. È proprio grazie a questo e grazie all’orecchio trovato sulla strada di casa che Jeffrey si allontana da tutto ciò che gli è familiare. Avvicinandosi al detective che segue il caso della persona con l’orecchio tagliato, trova la sua guida in questo viaggio, che di tanto in tanto lo riporterà alla ragione, l’unica figura veramente stabile di questo film, Sandy, la figlia del detective. La più intuitiva, è lei che dice: “è vicino, questo mi fa molta paura” suggerendo a Jeffrey che vicino, non vuol dire per forza sicuro o buono. È lei che tramite il suo sogno profetizza la fine del film, ed è lei che non si lascia mai ingoiare dall’oscurità, e lo vediamo anche dall’aspetto, rimane sempre vestita con color pastello, con le guance rosee, con i capelli biondi. Jeffrey però ormai è stato allontanato da casa in un certo senso, ed è per questo che quando vede Dorothy ne rimane affascinato, è qualcosa di oscuro e di sconosciuto, che potrebbe essere pericoloso, lui lo sa, ma continuare a guardarla, invadere la sua intimità, è così inebriante per lui che non riesce a staccarsi esercitare il controllo su di lei, se intendiamo controllo con sguardo, ed è così in questo film. Anche noi caschiamo nella trappola di Dorothy, quando la sentiamo cantare la canzone con cui all’inizio veniva inquadrata la città, quando ancora di questa città ci si poteva fidare. Jeffrey, come noi spettatori viene catapultato nell’universo oscuro di Dorothy, fatto di ricatti, di perversione, di inquietudine. Un mondo da cui di solito non si vede l’ora di uscire. Ma non per Jeffrey, anche se quella stessa sera si ritrova in una situazione bizzarra, malata, inquietante, e capisce un’altra volta che casa non vuol dire essere al sicuro, mamma non vuol dire affetto, capisce che le persone possono anche non volere solo rassicurazione o affetto. E ne rimane pericolosamente colpito, tant’è che è lui a ritornare da Dorothy, sebbene questo lo metta in forte pericolo, e Sandy cerchi di avvisarlo, nasce con Dorothy una relazione pericolosa. E quando Frank lo scopre si consuma la parte più inquietante e spaventosa del film. “Facciamo un giro”, dice Frank, e infatti faremo un giro nella sua testa, dove non si può essere guardati, perché lo sguardo vuol dire controllo, o forse perché c’è un forte senso di vergogna in lui. Faremo un giro e finiremo nel luogo dove il figlio di Dorothy viene tenuto prigioniero e assisteremo ad una performance che sarà la chiara spiegazione della mente di Frank. La canzone della performance recita “a candy-colored clown called sandman” un pagliaccio vestito di colori pastello, gli stessi di quella bellissima e rassicurante cittadina, che si chiama Sandman, colui che nella tradizione popolare americana mette la sabbia negli occhi dei bambini per farli addormentare, oppure colui che, secondo un’altra versione del racconto, mette la sabbia negli occhi dei bambini per cavarglieli. Racconto sul quale Freud si basa per la sua teoria del perturbante, secondo la quale gli elementi più inquietanti si nascondono proprio in casa, Frank è l’incarnazione perfetta di questa teoria. Lui che rende il nome mamma, un nome così inospitale, una canzone come quella, per bambini, così inquietante e colui che rende una lettera d’amore, uno sparo di pistola, come dirà dopo a Jeffrey. Frank è tutto ciò che c’è di perturbante, ha assorbito tutta l’oscurità e Jeffrey è stato a 30 centimetri di distanza da lui, dai suoi occhi, c’è stato molto vicino, al perturbante, è stato anche molto vicino a Dorothy, e infatti lei dice: “mi hai attaccato la tua malattia” e per malattia intende forse innocenza, curiosità, bontà, tutto quello che Jeffrey si porta da casa, perché era stato cresciuto così nel luogo che lui credeva sicuro, e allo stesso modo lui viene contaminato dall’oscurità di Frank e Dorothy perché attratto da questa ma poi quando capisce di spingersi troppo in là si spoglia della maschera di detective e tutti lo vediamo per quello che è, un liceale spaventato che ha subito un trauma. È questo che dice la sua faccia quando si mette nell’armadio di Dorothy per sparare a Frank, un bambino che si nasconde nell’armadio, non il luogo più sicuro della casa ma quelli in cui una volta ha avuto il controllo, è riuscito ad origliare senza essere scoperto. Probabilmente anche noi spettatori ci saremmo messi lì, anzi forse ci siamo stati per tutta la durata del film. Jeffrey compie un omicidio, l’atto più oscuro per eccellenza, così ora può tornare a casa. Apre gli occhi, si ritrova nel giardino di casa sua, il cielo azzurro, suo padre che si è rimesso e parla con il padre di Sandy e i pettirossi sognati da Sandy, simbolo di amore, che tengono in bocca i rumorosi scarafaggi che avevamo visto all’inizio. L’amore che sta per mangiare l’oscurità, come Jeffrey, che è stato sedotto da un buco nero e ne è uscito, con un po’ di oscurità dentro.