«Out there…»
La straordinaria sequenza di apertura di Wall•E si apre con le note di Put on your Sunday Clothes, di Michael Crawford e Barbra Streisand, tema di Hello Dolly, mentre sullo schermo si mostra l’immensità dello spazio sconfinato, affascinante e misterioso. Mentre la musica prosegue, il campo si restringe sempre di più avvicinandosi alla Terra, poi agli Stati Uniti, mostrando una città in cui un’apparente skyline si rivela essere formato da pile di rifiuti fino ad arrivare alle strade deserte, che lasciano un senso di vuoto e di inquietudine, in contrasto con l’allegria percepita dalla musica. Una colonna sonora solo apparentemente è extradiegetica, perché ben presto scopriamo essere riprodotta da Wall•E, unico superstite sul pianeta, piccolo robot il cui compito è quello di impilare la spazzatura e cercare di dare un ordine nelle strade ormai disabitate da moltissimi anni. Una sequenza capace di introdurre quello che è evidentemente il tema centrale del film, ovvero l’inquinamento, calandosi perfettamente nella fantascienza pura, quella che sembra essere uscita dalla penna di Ray Bradbury, quasi inquietante nella sua capacità di predire il futuro.

In questo clima di desolazione, l’uomo dov’è? Con l’apertura di quello che potrebbe essere definito il secondo atto del film – quello verbale, dopo una prima parte incantevole fatta solo di musiche, silenzi e rumori diegetici – si introduce anche il secondo grande tema trattato da Andrew Stanton: il rapporto con la tecnologia. In tal senso, è altrettanto potente la sequenza in cui Wall•E è alla ricerca di EVE sulla nave spaziale dove scopre essere raggruppata tutta l’umanità, rappresentata da Pixar in maniera feroce e quasi spietata. Il robot osserva tre l’attonito e l’incuriosito questa massa uniformata di persone sovrappeso che vengono trascinate e trasportate su sedie meccanizzate mosse su binari prestabiliti, percorsi obbligati senza libertà di scelta, senza possibilità di decidere la loro meta, il loro destino. Per questo motivo un robot senza binari e con uno sguardo più vivo, scombussola, crea scompiglio e manda in crisi degli automi – anche se non dovrebbero esserlo – che comunicano attraverso degli schermi anche se si trovano fianco a fianco e che si affidano, o meglio, si lasciano comandare dalla Buy’N’Large (nome quantomai simbolico) in quello che è un’evidente critica al consumismo uniformante, che si tratti di vestiti, cibo frullato (dalla pizza agli hamburger: troppa la fatica nel masticare) o di acconciature. Tutto a portata di click.

Da sempre rivoluzionaria portavoce della modernità e della tecnologia nel campo dell’animazione, con continue sperimentazioni alla ricerca di una continua evoluzione, Pixar lancia un monito disperato rappresentando una società che ha fallito al punto da dover trovare un nuovo luogo dove vivere (?), pigra al punto da farsi comandare dalla stessa intelligenza artificiale che credeva di aver sotto controllo nel soddisfare i propri desideri di comodità. Anticipando i tempi anche sugli assistenti virtuali, abbiamo un generico “hey computer”, al quale il capitano della nave, stupito di tutte le bellezze che possono esistere sulla Terra (che, evidentemente, non ha mai visto, a dimostrazione che l’umanità si trova lassù da diverse generazioni) continua a chiedere una definizione dopo l’altra per apprendere sempre di più: non è casuale che rimanga affascinato soprattutto dalle fattorie, dall’agricoltura e dalla pizza: un ritorno alle origini e alla semplicità prima che la tecnologia prendesse il sopravvento. Il tutto, prima di essere messo a tacere dopo che il robot che gestisce l’intera nave capisca di non averlo più sotto il suo totale controllo: è un Intelligenza Artificiale che ha sempre calcolato tutto, educando sin dall’infanzia, in un’inquietante inquadratura in cui i bambini con occhi sbarrati, come sotto ipnosi, imparano l’alfabeto indottrinati da uno schermo che è quanto di più lontano da una scuola e da un insegnante si possa immaginare.

Non ha la portata filosofica di The Matrix, sicuramente è anche meno cupo essendo destinato anche (se non principalmente) ad un pubblico di giovani e bambini, ma Wall•E è forse la pellicola di fantascienza che meglio ha saputo coniugare poesia e ferocia, incanto e disillusione, meraviglia e critica sociale, in un linguaggio capace di parlare al pubblico anche (o forse soprattutto) a distanza di così tanti anni. Il tutto con lo sguardo innocente di un robot più umano degli esseri umani, uno sguardo che chiede di essere recuperato, ritrovando la meraviglia nella creatività del mondo reale. Delle cose semplici. Come un germoglio nella terra, simbolo di un futuro da cui si può ripartire.
Lorenzo Bianchi