Al termine del nostro workshop dedicato al cinema di David Fincher, abbiamo chiesto ai partecipanti di redigere un elaborato su una sequenza a scelta diretta dal regista statunitense. Ecco l’analisi più interessante:
Samantha Ruboni
L’arte di far crescere la tensione
The Zodiac è sicuramente una delle pellicole migliori del regista David Fincher. Riprendendo le sue tematiche principali come la fascinazione del male e il gioco, che vediamo già nella pellicola Seven, Fincher torna sulle orme di un serial killer per parlarci della mente umana e dei suoi lati oscuri. Pellicola ormai diventata un cult, è stata definita da Guillermo del Toro un “one sock movieâ€, cioè un film che se intravedi in tv mentre ti stai vestendo per uscire, ti fermi a guardarlo fino alla fine con il calzino in mano. Una sorta di ipnosi permessa anche dalla perfetta cinematografia di Fincher, che rende ogni sequenza densa di significati e di maestria tecnica. In particolar modo una delle sequenze più famose del film è quella dove Graysmith, continuando le ricerche dell’assassino ormai in solitaria, va a casa di un certo Bob Vaugh. È uno dei momenti di massima tensione di tutto il lavoro. La conversazione inizia con un’ampia inquadratura nella cucina di Vaugh, a dimostrare come la tensione all’inizio della sequenza sia al minimo e anzi si conversa in un campo controcampo abbastanza equilibrato, se non per la posizione più bassa di Graysmith, data dalla sua posizione seduta. La palette che circonda la scena è la classica palette di Fincher, dove i colori spaziano dal verde al marroncino in un insieme monocromo, noioso quanto turbante. Due sono i momenti salienti dove la tensione comincia a salire: quando Graysmith cita Zodiac e Vaugh cambia la sua posizione da di fronte a di profilo, ciò permette di comprendere che ha qualcosa da nascondere, di conseguenza le inquadrature si fanno sempre più strette, fino ad allargarsi di nuovo quando la tensione si allenta, per poi chiudersi quando Graysmith parla del poster con la scrittura di Zodiac. È proprio in questo momento che le inquadrature si fanno sempre più strette, fino al primissimo piano di Graysmith, che rivela tutta la sua paranoia. Paranoia che è anche la nostra, dal
momento che tutta la sequenza è girata dal punto di vista di Graysmith, noi vediamo e proviamo tutte le sensazioni che Graysmith prova, entrando in completa unione con il personaggio. Dopo questa fase l’angolazione della ripresa cambia, inquadrando Vaugh dal basso verso l’alto e Graysmith al contrario: Vaugh ha ormai il pieno potere su Graysmith, piccolo e indifeso. Arriviamo quindi al movimento di Vaugh che permette il cambio di location, dove l’inquadratura diviene sempre più stretta e incorniciata tra mura e porte, dandoci la sensazione di claustrofobia e trappola. Scendere in cantina è come scendere nel ventre del male, dove le luci si affievoliscono e le ombre ne fanno da padrona. Vaugh viene inquadrato da un insieme di luci e ombre, e la sua sagoma nel buio sembra proprio quella che avevamo visto sul taxi nella parte precedente del film, indicandoci così che proprio lui potrebbe essere il serial killer. I passi al piano di sopra son ciò che fa scattare la scintilla del climax, che arriva al punto massimo con lo spegnimento della luce da parte di Vaugh e in contemporanea il fischio del bollitore sul fuoco. Il fischio diviene così una distorta colonna sonora, che porta l’inquietudine al livello massimo. La porta sembra la nostra unica speranza, ma è chiusa e Vaugh arriva dalle spalle, prendendo quasi tutto lo schermo e schiacciando Graysmith in un angolino in preda al panico. Si pensa al peggio, ma no, la porta viene aperta, Graysmith scappa verso la libertà e noi possiamo tirare un respiro di sollievo.