Ecco gli elaborati degli iscritti al nostro seminario su David Lynch.
CRISTINA CONTINI
Lo Zen, o l’abilità di catturare un killer

Quando penso a David Lynch ed al suo cinema, mi appare il volto di Kyle MacLachlan che abbiamo visto in diversi capolavori del maestro.
Scelgo tuttavia la serie I segreti di Twin Peaks per raccontare Dale Cooper (agente speciale dell’FBI) che rappresenta un’estensione della capacità visionaria di Lynch. Ricordo una sequenza tratta dall’episodio 3 della prima stagione, quando nella suggestiva e misteriosa Twin Peaks iniziano le indagini per scoprire chi ha ucciso Laura Palmer. Lynch trasmette in questa scena i pilastri del suo immaginario: i boschi, l’attrazione verso ‘mondi altri’, l’intuizione, la sincronicità junghiana.
Cooper convoca lo sceriffo Truman, l’agente Andy e la collaboratrice Lucy in un bellissimo bosco: davanti all’incredulità degli altri, viene inquadrata una lavagna che raffigura il Tibet. L’agente racconta del paese e trasmette subito la passione per il popolo e per la filosofia zen, che intende utilizzare per risolvere il caso. Descrive l’importanza della ‘coordinazione mente-corpo’ che agisce a livello dell’intuizione e sceglie questo metodo per analizzare l’ampio numero di sospettati che potrebbero aver ucciso la reginetta di bellezza. I nomi vengono scritti alla lavagna e Cooper chiede ai colleghi il tipo di relazione che ciascuno aveva con Laura Palmer (si rimane sul registro delle informazioni conosciute ma si intuisce che molti segreti esistono, lo si sente nell’aria).
La camera inquadra il bosco. Vediamo 3 tronchi ed una bottiglia di vetro collocata su uno di essi: in mezzo alla natura un oggetto che ci incuriosisce anche se non capiamo a cosa servirà.
Lynch ci porta in un ‘altro mondo’, quello della correlazione tra eventi a-causali: Cooper inizia a dire ad un sasso il nome del primo sospettato e lo lancia verso la bottiglia, cosa sta facendo?
Ce lo chiediamo noi, così come gli altri personaggi ed intanto vengono passati in rassegna tutti i nomi. Vicino ad ognuno, Cooper fa scrivere l’esito del lancio: a vuoto, lontano dal tronco, sfiora la bottiglia, la colpisce ma non la rompe
Uno strano metodo per capire cosa?! Si tratta di un’idea tratta da un sogno di Cooper, quindi ha origine in quel mondo onirico così rilevante nel cinema di Lynch: il contatto con l’inconscio e l’accettazione della sua potenza
Improvvisamente, un lancio porta alla rottura della bottiglia: avviene dopo aver citato un personaggio che sembrava non avere una relazione significativa con la donna assassinata.
È il momento di svolta, una premonizione? Certamente! Da questo momento, ‘nulla è come sembra’ diventerà la frase portante della serie, che si svilupperà in maniera ipnotica, rivelando agli spettatori segreti insospettabili di tutti i personaggi
Lynch riesce a trasmettere al personaggio di Dale Cooper quella ‘capacità di andare oltre il mondo sensibile’ e si connette con le altre dimensioni dell’esistenza.
La scena resta dunque impressa nell’immaginario, come omaggio alla natura e come simbolo del contatto dell’anima con lo ‘spirito’ del luogo: un bosco, rassicurante ed allo stesso tempo misterioso, che nasconde ma riesce anche a rivelare.
Perché – come spesso Lynch ha dichiarato in alcune interviste – ‘dall’ignoto arrivano le idee’.
MICHELE CRESCENZO
Audrey’s Dance, scena tratta dal terzo episodio della prima edizione di Twin Peaks

Il maglione rosso bordeaux le aderisce al corpo modellandolo delicatamente, la gonna scozzese cade appena sopra le ginocchia, Audrey Horne balla da sola al centro della sala del RR Diner. Muove le spalle, allarga le braccia, alza e abbassa le mani con i palmi rivolti verso il pavimento a scacchi. Donna storce le labbra in una smorfia imbarazzata. Eileen Hayward alza il capo mentre ha ancora la forchetta a mezz’aria e Will gira la testa per dare un’occhiata. E rimane seduto così, con il collo girato in una posizione squilibrata e lo sguardo fisso su quella ragazza. Ad Audrey non importa, lei socchiude gli occhi smeraldo e segue le note di Angelo Badalamenti.
È il 1991 e ho tredici anni. Mi alzo dal divano e mi avvicino allo schermo a tubo catodico della tv. Lo tocco. Non mi era mai venuto in mente che la solitudine potesse essere così intensa e sfrontata. Io ero semplicemente solo, mentre quella di Audrey aveva qualcosa di profondo e instabile.
Ognuno si porta dentro dei segreti. Laura Palmer svolgeva attività di volontariato, era stata più volte eletta reginetta di bellezza e aveva ottimi voti a scuola. Dietro questa patina idilliaca, nascondeva un uso quotidiano di cocaina, il lavoro di prostituta al One Eyed Jacks e una lista infinita di amanti segreti.
Audrey è completamente diversa. Appare sfacciata, viziata e seducente anche se non ha alcuna relazione di tipo fisico. Il suo segreto è un altro. Il padre, Benjamin Horne, è interessato principalmente agli affari mentre la madre Sylvia concentra la maggior parte delle attenzioni sul figlio disabile Johnny.
Il segreto di Audrey è la famiglia, non come presenza malvagia ma come assenza.
È il doppio capovolto di Laura Palmer, presente in tutto il cinema di David Lynch.
La telecamera intanto ha un filtro colorato, o così mi sembra, perché tutto appare come illuminato dalla luce rossa del tramonto: il distributore di sigarette di ciliegio scuro, il telefono a gettoni sullo sfondo, l’orologio sul polso sinistro. Il RR Diner diventa all’improvviso più caldo.
Audrey continua a ballare, muove entrambe le braccia con movimenti circolari, ondeggiando piano come se si trovasse sulla prua di una nave in acque calme.
Non c’è trama. Solo solitudine, resa ancora più intensa dalla musica di Angelo Badalamenti con il suo ritmo di soft jazz, tra il suono di un vibrafono e schiocchi di dita.
Senza rendermene conto, avvicino il pollice al medio e inizio a schioccare le dita anch’io.
C’è una sfumatura nera e la scena cambia. Lo sceriffo Truman mostra all’agente Cooper una pezza insanguinata. Entra in scena l’agente Rosenfield con i suoi occhiali scuri e il team pronto per effettuare l’autopsia su Laura Palmer.
Ritorno a sedermi sul divano. Allora non l’avrei mai immaginato. Non avrei mai immaginato che ogni volta che avessi udito delle dita schioccare, avrei pensato di trovarmi su quel vecchio divano, guardare Audrey Horne e sentirmi all’improvviso meno solo.
GRETA PASSERI
Eraserhead

Della complessità che si porta dietro il nome David Lynch ne siamo tutti a conoscenza. Ci troviamo di fronte ad un regista che scuote occhi e animi fin dai suoi primissimi e sperimentali lavori come Six Figures Getting Sick, The Grandmother, The Alphabet o ancora The Amputee. È nel 1977 che termina, dopo una tormentata lavorazione durata sei anni, il suo primo lungometraggio Eraserhead. Il film, distribuito solo nei cinema di mezzanotte per la sua indole strana, ottiene successo nell’ambiente underground diventando poi un cult. Scriverne una sinossi non è un’impresa facile, dicendo che il protagonista Henry Spencer (Jack Nance) diventa, inaspettatamente e involontariamente, padre di un bambino-mostro equivarrebbe a sminuire l’intera opera. I dialoghi sono rari, le immagini dominano il film, tutto il non detto viene mostrato tramite una bombardata di visioni spiazzanti. Lynch in questo primo lungometraggio dimostra di essere un regista dalle tinte oniriche e stralunate, figlie di quel cinema surrealista di Buñuel e Dalì. Il prologo di Eraserhead svela in modo assolutamente non convenzionale un tema centrale dell’opera: la paternità. I primi minuti descrivono, in particolare, il concepimento. Vediamo una sorta di demiurgo deforme che, manovrando delle leve, mette in moto uno pseudo-spermatozoo che si getta nella cavità di un pianeta roccioso. L’incipit del film è solo una della serie di sequenze oniriche ma dense di significato che si susseguiranno. In Eraserhead conscio e inconscio convivono e si confondono al punto che lo spettatore difficilmente riesce a distinguerli, trovandosi intrappolato, come lo stesso protagonista, in due mondi diversi ma che spesso combaciano. Un altro escamotage perturbante del regista è la scelta di optare per il bianco e nero, l’assenza del colore toglie ogni parvenza di familiarità e accresce un profondo disagio nello spettatore. All’aspetto visivo si aggiunge quello uditivo con un montaggio audio che martella le orecchie. Eraserhead non è un film facile e leggero, tutto infastidisce e fa star male ma sicuramente non lascia indifferenti. A differenza del piacere, il dolore si aggroviglia nell’animo e nella mente permanendo a lungo, Lynch l’ha capito molto bene.