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Carlos Reygadas: dal rapporto con i fratelli D'Innocenzo alle accuse ai grandi festival

Carlos Reygadas, ex avvocato esperto in diritto internazionale, è uno dei cineasti messicani più rinomati e stimolanti, non particolarmente noto al grande pubblico ma ben presente ai cinefili più incalliti. 
Classe 1971, Reygadas ha diretto cinque film ispirandosi soprattutto ai grandi maestri degli anni '50 e '60, compreso Roberto Rossellini, venendo spesso accusato di volgarità per la sua frequente e provocatoria rappresentazione del sesso.




Da qualche tempo, il cineasta messicano ha ribadito il suo legame con il cinema italiano, stringendo un rapporto particolarmente motivante con Fabio e Damiano D'Innocenzo e rivelando di essere stato uno dei principali sostenitori del folgorante esordio cinematografico dei due gemelli romani, La terra dell'abbastanza

"Ho un difetto che forse è una virtù", ha affermato Reygadas - "Leggo le mail degli sconosciuti e mi lascio contagiare dall’energia che sprigionano. Credo di saper distinguere tra chi è mosso solo dal suo impeto e chi ha una visione, un progetto. All’epoca i D’Innocenzo non avevano ancora fatto La terra dell’abbastanza, cercavano una coproduzione, li ho messi in contatto con una società francese. È incredibile che ora lavorino tanto"

E dopo averli aiutati? "Dopo ho visto il film e abbiamo continuato a scriverci! Anzi a mandarci audiomessaggi in inglese. Mi piace la loro capacità di dare presenza alle cose. I loro film hanno un contenuto di ribellione e di verità molto forte. Cosa che non potrei dire di tanto cinema italiano degli ultimi vent’anni, anche se non ho certo visto tutto".

A sottolineare la speciale empatia che si è venuta a creare fra i tre registi, sono stati proprio i D'Innocenzo ad aver presentato, tre giorni fa a Piazza San Cosimato a Roma, l'inedito Silent Light, che Reygadas diresse nel 2007.
Attraverso la cornice del Cinema in Piazza, infatti, i due fratelli hanno potuto abbracciare il loro collaboratore e presentarlo al pubblico romano, insieme a uno dei suoi film più strazianti e affascinanti. 

Dal loro punto di vista, la scoperta di Reygadas e del suo cinema emerge piena di emozioni: 
"Il primo a parlarmi di Reygadas fu Alex Infascelli", ha ricordato Damiano. "All’epoca ancora non facevamo cinema, ero a casa sua, lo aiutavo a traslocare. Mi disse: ho appena visto il film più bello degli ultimi anni, Luz silenciosa, una cosa sublime. Così ci siamo scaricati l’intera filmografia di Reygadas, che non aveva ancora fatto Nuestro tiempo, visto poi a Venezia nel 2018, e in tre giorni ci siamo guardati tutto. Eravamo annichiliti. È la parola. È raro trovare in un film qualcosa che somigli così tanto alla poesia, alla musica, a un fare arte fuori dal tempo. Reygadas è mistico e insieme coraggioso perché non è radicato minimamente nelle stupide mode, non cerca mai di agguantare nessuno stilema hollywoodiano, anzi sembra remare contro con la sua narrazione obliqua".

"Con Carlos parliamo di tutto", ha aggiunto Fabio. "Non solo di cinema, anche di calcio e di calciatori. Che sia messicano, poi, ce lo rende molto più familiare di tanti registi italiani. Con lui puoi immaginare cose proibite che qui non puoi nemmeno nominare. Lui invece lo fa e con immensa semplicità, arrivando sempre al cuore delle cose e mettendosi in gioco fino in fondo".

Le poetiche di Reygadas e dei D'Innocenzo, effettivamente, sono molto vicine: entrambi gli stili si concentrano sulla corporeità e sui gesti degli attori, lavorando sulle pause e sulle sensazioni, lasciando da parte la razionalità della scrittura.
E così, quasi facilmente, uno dei migliori registi messicani è assurto a padrino dei due trentenni di Tor Bella Monaca.
Non è la prima volta che giovani (ma non solo) registi e autori indipendenti nostrani devono cercare aiuti ed estimatori fuori dall'Italia: è già successo a Jonas Carpignano con A Ciambra, di cui Martin Scorsese fu co-produttore esecutivo, così come a Carlo Hintermann, il cui debutto alla regia con The Book of Vision è stato prodotto da Terrence Malick. Perfino l'ultimo film di Claudio Caligari, Non essere cattivo, vide la luce dopo una commovente lettera aperta di Valerio Mastandrea indirizzata, ancora una volta, a Scorsese.

In Italia, coltivare rapporti del genere sembra essere pressoché impossibile. Fortunatamente, però, i festival internazionali, con i forum e i laboratori dedicati alle coproduzioni e allo sviluppo di progetti, offrono alle giovani promesse l'occasione giusta per correre il rischio. 
Il requisito principale sembra essere sempre quello di realizzare un racconto universale, che possa essere compreso ed interiorizzato da tutti. 

"Sappiamo tutti che il buon cinema racconta storie universali", ha dichiarato Damiano. "Reygadas non parla del Messico ma di come stiamo al mondo, di famiglie, di legami, di come tutto sia determinato dai soldi o dalla politica mentre le regole sociali continuano a disgregarsi. Tutti temi molto trasversali che ritroviamo magari nei film anni Sessanta di Ermanno Olmi ma che nel cinema italiano di oggi latitano. Ecco perché finiamo per sentirci più vicini a certi autori latinoamericani che siano argentini come Lucrecia Martel, cileni come Pablo Larraìn o messicani come Amat Escalante".

"Non c’è niente di male nel raccontare ma dev’esserci sempre un fondo che resiste, qualcosa che non si lascia manipolare", ha confermato Reygadas. "Lì sta la vera bellezza, non in ciò che chiamiamo estetico. E questa bellezza la ritrovo in Queridos vecinos (ndr.  titolo spagnolo di Favolacce)".

L'autore messicano, baluardo del cinema indipendente, ha le idee chiare anche a riguardo delle colossali piattaforme streaming e del mancato accesso a esse da parte di certi film apprezzati dalla critica ma sconosciuti ai più: "Il problema più grave è un altro: sono i grandi festival. Lo streaming veicola prodotti destinati ad alimentare non tanto il consumo quanto l’oblìo, come nel Mondo nuovo di Aldous Huxley. Più che eccitanti sono sedativi, analgesici. Inutile stupirsi. Viviamo in un’epoca oscura, un nuovo Medioevo ma senza la mistica. Oggi ci stiamo dentro e non ce ne rendiamo conto. Ma le piattaforme fanno il loro mestiere mentre i grandi festival, Cannes, Venezia e Berlino in testa, hanno una responsabilità enorme. Dovrebbero essere i templi del cinema ma stanno progressivamente abbandonando un certo tipo di film per inseguire il successo più facile. E questo è davvero triste"

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